di Roberto Timossi
«Nella natura niente è stato programmato: tutto si è semplicemente evoluto, senza alcun scopo». Così il biologo statunitense e premio Nobel per la medicina Robert Horvitz risponde a una domanda di Piergiorgio Odifreddi in un’intervista pubblicata di recente su «La Repubblica». L’affermazione che il mondo naturale non abbia uno scopo non è nuova presso gli scienziati e può essere intesa secondo due accezioni piuttosto differenti. La prima accezione è quella che si limita a considerare come la conoscenza scientifica non persegua «cause finali», ma semplicemente si accontenti di osservare quanto accade in natura e di individuare le leggi che spiegano i fenomeni. Da questo punto di vista è corretto dire che la scienza non si occupa della presenza di uno scopo inteso come disegno o progetto finalistico, anche se non può rinunciare a verificare se in alcuni processi complessi e ripetitivi come quelli biologici non sia presente una qualche forma di «programma» (è il caso del Dna). La seconda accezione investe un orizzonte ben più vasto, perché entra nel merito del problema del senso del cosmo e della vita, quindi della presenza o meno di un significato finalistico delle cose, che rimanda immediatamente all’interrogativo per noi cruciale sul senso dell’esistenza umana. Quest’ultima impostazione del tema dello scopo all’interno delle scienze naturali ha destato non poche perplessità nel mondo scientifico; tuttavia essa ha trovato e continua a trovare positivo accoglimento presso molti scienziati. Tra i primi a darle rilievo in epoca contemporanea è stato il celebre fisico e premio Nobel Steven Weinberg, il quale ha asserito senza mezzi termini: «Quanto più l’Universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo». Da qui è poi passato a concludere che «più affiniamo la nostra concezione di Dio per rendere plausibile questa idea e più essa ci appare senza senso». Dobbiamo riconoscere a Weinberg una certa coerenza di ragionamento, dal momento che se non esiste un Creatore che ha plasmato il cosmo secondo un preciso disegno, l’unica alternativa che resta per giustificare la realtà delle cose è il puro caso congiunto a una cieca necessità (le leggi della natura), quindi il «non-senso» ovvero l’assenza di uno scopo teleologico. Se questa assenza di senso vale per la fisica e per la cosmologia, per gli scienziati atei non può non valere per la biologia evoluzionista; anzi a detta di alcuni, come il genetista François Jacob e il naturalista Richard Dawkins, il principale merito di Charles Darwin sarebbe proprio quello di aver eliminato la finalità del mondo vivente. Delle due accezioni del concetto di scopo nella scienza è sicuramente corretta la prima, ma non la seconda. Gli scienziati infatti si preoccupano di scoprire come stanno le cose, come «funziona» il mondo, mentre non si pongono e non devono porsi la questione del senso inteso come scopo o disegno finalistico. Il problema del significato delle cose è un argomento di pertinenza della filosofia e della teologia, non delle scienze naturali. Come ha spiegato bene l’astrofisico statunitense Allan Sandage, la scienza rende esplicito l’ordine naturale, può cioè rispondere alle domande che concernono il «cosa», il «dove» e il «come», ma non gli è dato risponde agli interrogativi sul «perché» primo e ultimo. Del resto anche lo stesso premio Nobel Robert Horvitz, deludendo probabilmente Piergiorgio Odifreddi, nella sua intervista riconosce: «Io sono un biologo e il mio compito è scoprire i fatti. Preferisco lasciare ai teologi e ai filosofi il compito di tirare le conclusioni che ne derivano». Speriamo che anche l’intervistatore segua d’ora in poi questo orientamento.
«Avvenire» dell'8 settembre 2010
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