08 settembre 2010

Italiano lingua povera?

Per gli studiosi il possesso del nostro lessico nelle nuove generazioni si sta impoverendo. La situazione ha due facce: una «fragile», legata a una coscienza linguistica debole, che culmina nello stereotipo veicolato dai mass media, l’altra «vitale» che fa sì che il nostro idioma sia uno dei più studiati nel mondo
di Giacomo Gambassi
A Ravenna Dante 09: parlando con gli «antichi maestri»
Nelle parole rivolte da Dante al suo ex maestro Brunetto Latini durante il loro duro e commovente incontro all’«Inferno», viene indicato il contenuto di ogni autentica educazione: il maestro è o dovrebbe essere colui che insegna come l’uomo si «etterna», ovvero come gli uomini vincendo l’ineluttabilità delle leggi di natura e di temporalità, aspirino e cerchino di conoscere e di conseguire qualcosa di eterno, al di là di sé e dentro se stessi. Oggi, in una situazione che tutti definiscono per molti motivi di «emergenza educativa», riflettere su questo verso è un modo con cui il festival Dante 09 – che inaugura il 9 e continua fino all’11 settembre, sotto la direzione del poeta forlivese Davide Rondoni – tocca il dibattito contemporaneo e attinge all’arte e alla cultura nei modi e nelle forme che ormai lo rendono un appuntamento atteso a Ravenna. Nelle diverse giornate sono previsti numerosi interventi di esperti, scrittori e studiosi della lingua italiana, da Nicoletta Maraschio, presidente dell’Accademia della Crusca, ad Andrea Moro, professore di linguistica generale al San Raffaele di Milano, dal giornalista Enzo Bettiza all’attrice Monica Guerritore, dall’artista Gian Marco Montesano allo scrittore Luca Doninelli, dal critico Piero Boitani all’etnomusicologo Ambrogio Sparagna. Info: www.dante09.it
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Nicoletta Maraschio: stili preconfezionati per un’età multilingue
I due volti dell’italiano. Quello «fragile», legato a una «coscienza linguistica debole», al «livellamento verso un uso informale», a un «andamento stereotipato, in parte condizionato dai mezzi di comunicazione di massa che rischiano di togliere il gusto dell’invenzione e della libertà linguistica». E quello «vitale» che fa del nostro idioma «la quarta o la quinta lingua più studiata nel mondo» in cui «la capacità di rinnovamento» si innesta in un albero secolare le cui radici affondano nel fiorentino del Trecento. È la fotografia in chiaroscuro sulla nostra lingua scattata da Nicoletta Maraschio, ordinaria di storia della lingua italiana all’Università di Firenze e presidente dell’Accademia della Crusca, la più antica istituzione linguistica d’Europa che «ha insegnato al mondo a comporre un vocabolario nazionale sul modello di quello realizzato dall’Accademia nel 1612». Professoressa, anche l’italiano è stato travolto dalla «tempesta delle lingue» di cui parla il suo predecessore alla guida della Crusca, Francesco Sabatini?
«Sì, l’italiano ci è entrato con una maggiore fragilità rispetto ad altre lingue europee. E le ragioni sono molteplici: il processo di unificazione linguistica nazionale recente, la frammentazione sociale e culturale ancora forte, la poca consapevolezza che si ha dell’importanza della lingua».

Però ancora l’80% del lessico coincide con quello di Dante, Petrarca e Boccaccio.
«E questa continuità storica differenzia l’italiano dalle altre lingue europee. Però, quando si allude all’80% dei vocaboli, occorre riferirsi al lessico di base, cioè a parole fondamentali come amore, casa, vita, morte o pane. Per quanto attiene al lessico specialistico, circa la metà è novecentesco. Ciò dimostra come nell’ultimo secolo l’italiano abbia saputo rinnovarsi attraverso nuove parole create qui o con prestiti soprattutto dal francese e dall’angloamericano».

E i giovani di oggi? Sono taumaturghi della lingua o semplicemente importatori dall’estero?
«Nel settore informatico o dei nuovi media dove i giovani sono protagonisti, i vocaboli stranieri sono molto diffusi. Ma da uno studio dell’Accademia su blog e gruppi di discussione, è emerso che spesso l’uso di anglismi o di dialettismi è scherzoso: un segno di confidenza e di riconoscibilità reciproca. Che i giovani contribuiscano a togliere una patina di seriosità all’italiano, può essere apprezzabile. Il vero punto è che in altri casi la lingua deve essere seria. Ma un uso 'serio e semplice' dell’italiano non è purtroppo ancora molto diffuso né tra i giovani né tra gli adulti».

Mediamente parlando, radio e tv stanno appiattendo l’italiano?
«Fino agli anni Settanta i due mezzi hanno avuto una funzione didattico-pedagogica diffondendo la lingua nazionale. Successivamente il loro ruolo si è modificato: oggi rispecchiano e amplificano il panorama multilingue che ci circonda, ma anche trasmettono e consolidano stereotipi. Una specie di lingua di plastica, fatta di mattoncini usati e riusati in ogni circostanza. Tutto ciò toglie libertà perché spinge all’uso di modelli preconfezionati».

Perché la sintassi va fatica?
«L’italiano ha una storia legata soprattutto alla scrittura. Questo ha consentito che si conservasse identico a se stesso fino al Settecento. Poi, nel contatto con il francese, ha cominciato a cambiare anche dal punto di vista sintattico. Il periodare di Boccaccio, ricco di subordinate e col verbo in fondo, è decaduto. E negli ultimi due secoli, quando la lingua è diventata di tutti, si è intensificato il rapporto con l’oralità. Nel concreto si è assistito a una semplificazione di alcuni sistemi grammaticali complessi come quello del verbo e dei pronomi».

Le subordinate stanno andando in pensione?
«Non sempre. Ma è vero che in genere si preferiscono le frasi coordinate o giustapposte. O i costrutti nominali. Oggi comunque assistiamo a un’eccessiva informalità sia nel parlato sia nello scritto. Una lingua contempla generi e stili diversi. Utilizzare unicamente un registro basso significa impoverire la lingua o non sfruttarne tutte le potenzialità».

Anche la punteggiatura sembra finita ai margini.
«Dal momento che la punteggiatura è un sistema convenzionale che non rispecchia solo le pause dell’oralità ma ha regole proprie della scrittura, va insegnata soprattutto a scuola. Di recente il punto fermo tende a sostituire la virgola o il punto-e-virgola, anche quando la struttura logica del periodo non è completata. Se questo si riscontra in un grande scrittore, è una scelta stilistica. Ma nella maggior parte dei casi la scelta è fatta senza cognizione di causa».

Eppure all’estero l’italiano ha una sua fortuna ...
«La nostra lingua non si è imposta con le armi, ma grazie alla cultura e a un’immagine positiva dell’Italia che ancora circola nel mondo. Certo occorrerebbe investire di più, creando corsi di italiano per stranieri o nuove cattedre universitarie di linguistica all’estero. Puntare su questo settore può avere ricadute non solo di tipo culturale ma anche economico».

Persino la Crusca fa i conti con la mancanza di fondi.
«In un appello lanciato a luglio dagli accademici si chiede a chi ci governa che la nostra istituzione possa continuare a svolgere il ruolo di tutela e valorizzazione della lingua nel Paese e nel mondo. Anche questa è una strada per vincere le fragilità dell’italiano».

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Andrea Moro: così la mente supera il vuoto di parole
Non un «codice convenzionale», ma una sorta di propulsore neurobiologico che mette in moto la mente. La lingua è ben più di un sistema di simboli. Con la sua forza intrinseca, ha la capacità di «attivare una rete neuronale di cui non sia ha percezione diretta», spiega Andrea Moro, ordinario di linguistica generale all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. E in questo singolare rapporto che le parole creano con l’organismo, «il recupero della lettura dei classici potrebbe facilitare l’allenamento necessario per sviluppare in modo adeguato la struttura che la natura ci mette a disposizione».

Professore, partiamo dall’inizio. Come risolvere il rebus dell’apprendimento di una lingua?
«Il problema dell’apprendimento nasce dal contrasto tra due fatti semplici: da una parte, nessun bambino eredita dai genitori una maggior facilità ad apprendere la lingua o le lingue che parlano loro rispetto a qualsiasi altra lingua; dall’altra, l’acquisizione spontanea può avvenire in modo completo e naturale solo entro il limite cronologico dello sviluppo puberale. La soluzione a questo contrasto, che da un lato sembra non coinvolgere fattori genetici ma dall’altro li implica necessariamente, ha preso forma all’inizio degli anni Ottanta, sulla scorta dell’intuizione originaria di un linguista americano, Noam Chomsky. L’idea centrale è che ogni bambino nasce con uno schema preformato adatto a ogni lingua possibile e che l’apprendimento consiste nel selezionare tra tutti gli equilibri l’unico che si adatta alle lingue con le quali il bambino viene a contatto».

Insomma una «grammatica universale» iscritta nella persona...
«Sì, una grammatica che ha come nucleo la capacità di produrre strutture potenzialmente infinite, espressione della nostra struttura neurobiologica, per di più inscritta in tutti gli esseri umani. E oggi abbiamo almeno quattro tipi di prove diverse a favore di questa ipotesi. Una linguistica, che consiste nel fatto che tutte le lingue possiedono un nucleo comune di regole molto astratte delle quali chi le parla non è consapevole; una neurobiologica, che si manifesta nel fatto che se si apprendono lingue artificiali nelle quali mancano queste regole comuni il cervello non attiva le reti neuronali dedicate al linguaggio; una di tipo acquisizionale, che mostra che i bambini compiono solo alcuni tipi di errori durante l’acquisizione; e infine una di tipo clinico, che mostra che nel recupero del linguaggio in seguito a un danno il confine della pubertà è uno spartiacque determinante».

Quale ruolo hanno gli stimoli che vengono dai mass media?
«Limitandoci al caso dell’apprendimento spontaneo della lingua da parte dei bambini, si osserva che questo fenomeno avviene essenzialmente per il contatto diretto con le persone. Il fenomeno dei mezzi di comunicazione, inclusi i film che oggi vengono spesso utilizzati come tranquillanti, possono certamente intervenire sulla ricchezza del vocabolario, aumentandola o diminuendola secondo la qualità del materiale cui i bambini sono esposti, ma non entrano nella struttura centrale della formazione del linguaggio. È dunque essenziale parlare ai bambini e non surrogare l’apprendimento a situazioni senza vero dialogo».

Oggi in italiano il sistema delle regole grammaticali incontra sempre maggiori difficoltà. Le ragioni?
«Per quanto riguarda le capacità strutturali delle grammatiche, ossia quelle proprietà che si possono mettere in evidenza con analisi di tipo matematico-strutturale, non esiste alcun pericolo: queste proprietà sono stabili proprio perché in qualche modo non dipendono da fatti culturali ma dalla struttura neurobiologica degli esseri umani. Sul versante delle norme di tipo stilistico, effettivamente è venuto a mancare il termine di riferimento e solo coloro che vivono in un ambiente culturalmente attento possono appropriarsi delle capacità stilistiche che li possono avvantaggiare nella vita».

In base ai suoi studi, quali relazioni si instaurano fra tra sintassi e cervello?
«Il cervello fornisce una specie di setaccio che limita le strutture possibili che il bambino deve 'calcolare' per apprendere la propria lingua. Questo è il motivo per il quale non tutte le sintassi concepibili sono realizzate nelle lingue del mondo. Una certa impostazione filosofica che portava a considerare le lingue umane come convenzioni arbitrarie e culturali si è così del tutto smontata. Non può essere convenzionale né arbitraria l’attivazione di una rete neuronale».

Nel suo recente saggio sulla breve storia del verbo essere (edito da Adelphi), lei spiega che un terzo delle lingue non lo possiedono. Davvero se ne può fare a meno?
«Gli elementi di una lingua, come diceva Ferdinand de Saussure, sono come le pedine di una scacchiera: il loro valore sta solo nella differenza con gli altri elementi in gioco e non in un valore intrinseco. In questo senso la lingua è una rete complessa dove gli elementi entrano in relazione sistematica tra di loro. Partendo da questo punto di vista, si può fare a meno del verbo essere nel senso che ci possono essere altri elementi che svolgono lo stesso ruolo (come i pronomi in ebraico) o addirittura un posto vuoto (come in alcuni casi in russo). D’altronde se in una tavolata con invitati fissi c’è una sedia vuota, non è difficile immaginare chi debba occuparla. Allo stesso modo può funzionare in una lingua».
«Avvenire» del 5 settembre 2010

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