di Daniele Piccini
Un libro di recente traduzione del francese Richard Millet, Il disincanto della letteratura (Transeuropa), ripropone in modo concentrato e talvolta urticante un motivo che appare diffuso in molte riflessioni sui linguaggi artistici attuali: il sentimento di disincanto che deriva dalla fine o dalla messa in mora dei valori umanistici sui cui la tradizione e la cultura dei paesi europei si è costruita. Millet mescola continuamente il piano letterario con quello ideologico e politico – e qui non interessa seguirlo, tanto più che egli sembra amare, un po’ alla Céline, la provocazione, il politicamente scorretto –; del suo libro interessa il tentativo di fare i conti, in modo anche ultimativo, con questo modo di sentire, che investe dalle fondamenta (in questo sì che possiamo dargli ragione) anche i termini del nostro vivere civile. Scrive tra l’altro Millet: «Il suo (della letteratura) disincanto è dunque la fine di ogni grande racconto destinato a un divenire mitico, poiché siamo entrati nel silenzio dei miti». Non a caso egli si interroga sulla sorte del romanzo (ma non tralascia il cono d’ombra in cui sembra essere entrata anche la poesia), avvertito come genere più sottilmente esposto a diventare strumento di intrattenimento, ripetitivo e incapace di proporre visioni del mondo alte, problematiche, universali (appunto mitiche): «Se non si reinventa con ogni romanziere, il romanzo è lo strumento della fine della letteratura, in seno alla semplificazione delle lingue, alla clonazione letteraria, alla rovina delle letterature nazionali e all’idea che ognuno, incoraggiato a 'esprimersi', possa diventare scrittore, vale a dire romanziere». L’analisi non è priva, in una retorica della fine e della crisi, di una sua suggestività. Tuttavia rimane aperto, ancora e sempre, il problema di come traghettare l’enorme patrimonio di valori culturali e specificamente letterari che ereditiamo, senza farci prendere alla gola dalla difficoltà e dalla chiusura di orizzonti del presente. Varie volte Millet si dice tentato di tornare alla pura lettura, piuttosto che concentrarsi sulla scrittura. Non so se siano concepibili generazioni bruciate, zone morte in un’epoca così gremita e piena come la nostra. E tuttavia il sentimento di ammirazione, il silenzio di fronte alle opere che continuiamo ad abitare e rendere vive come lettori possono forse dirci sulle possibilità nuove della letteratura più di quanto non possa l’analisi 'disincantata' dell’attualità letteraria e storica. Di fronte alla quale, forse, la presa di distanza salutare, l’osservazione distaccata (più che disincantata), la sua relativizzazione, come un’epoca, una fase, un momento, possono permetterci quel continuo dialogo – non strozzato dalle ristrettezze del nostro qui e ora – con la tradizione, da cui potrebbero venire altre risposte, meno avventate o istintive e più feconde. Un lettore e uno scrittore abitano, insieme al loro tempo, l’estensione della lingua nelle sue vicende e nelle sue possibilità, anche remote e a venire.
«Avvenire» del 18 agosto 2010
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