A vent’anni dalla morte, la lezione del filosofo resta attuale: le idee devono servire all’uomo, non viceversa. Il mondo accademico lo guardava con sospetto perché scriveva sui quotidiani
di Stefano Zecchi
Ho visto Nicola Abbagnano, l’ultima volta, in una riunione del Consiglio comunale di Milano. Eravamo alla fine degli anni ’80, quando non era stata ancora approvata la riforma delle amministrazioni locali, e le sedute dei consigli comunali erano interminabili. Abbagnano, scomparso vent’anni fa, si era generosamente prestato a ricoprire l’incarico di assessore alla Cultura, forse non immaginando quali fossero le incombenze della burocrazia gestionale dell’assessorato. Con la testa tra le mani, ascoltava paziente i consiglieri e i suoi colleghi. Ha resistito un anno, poi si è dimesso. Ma nella decisione di accettare quell’incarico amministrativo si poteva ritrovare la sua visione filosofica che non lo aveva mai estraniato dai problemi sociali.
Fedele a questa prospettiva culturale, era stato editorialista della Stampa e, poi, in seguito alla fondazione del Giornale nuovo di Montanelli, suo prestigioso collaboratore. E allora - siamo negli anni ’70 - un accademico che scriveva su un quotidiano o su un settimanale era considerato con il più profondo disprezzo dal corpo docente dell’università, una specie di pecora nera che si svendeva alla banalità della comunicazione giornalistica. E se proprio vogliamo dirla tutta, tra l’intellighenzia accademica di sinistra e radical chic, indiscutibilmente maggioranza, il Giornale di Montanelli e chi ci collaborava erano visti con molta sufficienza (per usare un eufemismo). Abbagnano, nei suoi interventi sulla stampa, proponeva un ideale diario laico di vita quotidiana, con acute osservazioni sulle modificazioni dei comportamenti, dei costumi, delle abitudini: interventi che corrispondevano con coerenza teorica alla sua ricerca filosofica.
Abbagnano si laurea a Napoli con il filosofo Antonio Aliotta sul problema delle radici irrazionali del pensiero. Dal maestro riceve sia quell’insegnamento contrario all’idealismo che veniva sempre più diffondendosi attraverso l’opera di Giovanni Gentile e Benedetto Croce, sia un orientamento che lo porterà a interessarsi alla filosofia esistenzialista. Abbagnano, per primo, fece conoscere in Italia quell’indirizzo filosofico, ma con una particolare caratteristica. In Germania il pensiero di Heidegger e Jaspers dominava nelle accademie e trovava anche in Francia un’elaborazione originale attraverso Sartre. Tuttavia, secondo Abbagnano, sia l’esistenzialismo tedesco che quello francese mostravano una caratteristica comune: erano entrambi attraversati da una profonda visione negativa. Abbagnano non poteva condividere questa deriva nichilista: era attratto dall’idea di una filosofia che abbandonava la grande e astratta speculazione metafisica per aprirsi alle questioni dell’esistenza, ma questo pensiero così attento alla quotidianità non doveva sprofondare, a suo giudizio, nel nichilismo. Elaborò quindi un’idea di filosofia esistenzialista positiva che ritroviamo soprattutto in un libro del 1939 che ebbe grandissima fortuna e diffusione: La struttura dell’esistenza.
Nel dopoguerra, quando la nostra cultura potè aprirsi a esperienze che provenivano dagli Stati Uniti, la sua idea di un esistenzialismo positivo ebbe importanti sviluppi. Studiò il pragmatismo americano di Dewey, affrontò i problemi della filosofia della scienza, del neopositivismo indirizzando il proprio pensiero verso quello che chiamerà «nuovo illuminismo». Rimangono tuttavia in lui le radici originarie della sua ricerca: quell’anti-idealismo che aveva preso dal suo maestro Aliotta. Nel dopoguerra italiano l’attacco all’idealismo crociano e gentiliano si era diffuso come il virus dell’influenza a tutte le dimensioni del sapere: veniva presa di mira la critica letteraria idealista, la ricerca idealista nelle arti e, ovviamente, la filosofia idealista. Per Abbagnano il pensiero che si richiama al pragmatismo e al neopositivismo è il modo più convincente per respingere il retaggio dell’idealismo. Tuttavia mantenne una misura che non lo portò mai a rifiutare la ricerca filosofica che affronti i temi classici della verità, della giustizia, del bene, cosa invece che fu prerogativa di alcuni suoi celebri allievi, i quali rifiutarono qualsiasi pensiero che non fosse aderente ai problemi concreti definiti dalla scienza.
Da questi estremi, che finiscono per relegare in soffitta come anticaglie le questioni classiche della filosofia, Abbagnano si tenne lontano, come confermano i suoi ultimi libri. Libri di estrema chiarezza, secondo l’aristotelica concezione che solo chi ha lucidità di pensiero ha semplicità d’espressione. Una testimonianza straordinaria è la Storia della filosofia: un testo facile e bello per seguire lo sviluppo del pensiero. Scritto negli anni ’50, nel tempo è stato rivisto e migliorato dal suo autore, e rimane di grande freschezza e profondità.
Fedele a questa prospettiva culturale, era stato editorialista della Stampa e, poi, in seguito alla fondazione del Giornale nuovo di Montanelli, suo prestigioso collaboratore. E allora - siamo negli anni ’70 - un accademico che scriveva su un quotidiano o su un settimanale era considerato con il più profondo disprezzo dal corpo docente dell’università, una specie di pecora nera che si svendeva alla banalità della comunicazione giornalistica. E se proprio vogliamo dirla tutta, tra l’intellighenzia accademica di sinistra e radical chic, indiscutibilmente maggioranza, il Giornale di Montanelli e chi ci collaborava erano visti con molta sufficienza (per usare un eufemismo). Abbagnano, nei suoi interventi sulla stampa, proponeva un ideale diario laico di vita quotidiana, con acute osservazioni sulle modificazioni dei comportamenti, dei costumi, delle abitudini: interventi che corrispondevano con coerenza teorica alla sua ricerca filosofica.
Abbagnano si laurea a Napoli con il filosofo Antonio Aliotta sul problema delle radici irrazionali del pensiero. Dal maestro riceve sia quell’insegnamento contrario all’idealismo che veniva sempre più diffondendosi attraverso l’opera di Giovanni Gentile e Benedetto Croce, sia un orientamento che lo porterà a interessarsi alla filosofia esistenzialista. Abbagnano, per primo, fece conoscere in Italia quell’indirizzo filosofico, ma con una particolare caratteristica. In Germania il pensiero di Heidegger e Jaspers dominava nelle accademie e trovava anche in Francia un’elaborazione originale attraverso Sartre. Tuttavia, secondo Abbagnano, sia l’esistenzialismo tedesco che quello francese mostravano una caratteristica comune: erano entrambi attraversati da una profonda visione negativa. Abbagnano non poteva condividere questa deriva nichilista: era attratto dall’idea di una filosofia che abbandonava la grande e astratta speculazione metafisica per aprirsi alle questioni dell’esistenza, ma questo pensiero così attento alla quotidianità non doveva sprofondare, a suo giudizio, nel nichilismo. Elaborò quindi un’idea di filosofia esistenzialista positiva che ritroviamo soprattutto in un libro del 1939 che ebbe grandissima fortuna e diffusione: La struttura dell’esistenza.
Nel dopoguerra, quando la nostra cultura potè aprirsi a esperienze che provenivano dagli Stati Uniti, la sua idea di un esistenzialismo positivo ebbe importanti sviluppi. Studiò il pragmatismo americano di Dewey, affrontò i problemi della filosofia della scienza, del neopositivismo indirizzando il proprio pensiero verso quello che chiamerà «nuovo illuminismo». Rimangono tuttavia in lui le radici originarie della sua ricerca: quell’anti-idealismo che aveva preso dal suo maestro Aliotta. Nel dopoguerra italiano l’attacco all’idealismo crociano e gentiliano si era diffuso come il virus dell’influenza a tutte le dimensioni del sapere: veniva presa di mira la critica letteraria idealista, la ricerca idealista nelle arti e, ovviamente, la filosofia idealista. Per Abbagnano il pensiero che si richiama al pragmatismo e al neopositivismo è il modo più convincente per respingere il retaggio dell’idealismo. Tuttavia mantenne una misura che non lo portò mai a rifiutare la ricerca filosofica che affronti i temi classici della verità, della giustizia, del bene, cosa invece che fu prerogativa di alcuni suoi celebri allievi, i quali rifiutarono qualsiasi pensiero che non fosse aderente ai problemi concreti definiti dalla scienza.
Da questi estremi, che finiscono per relegare in soffitta come anticaglie le questioni classiche della filosofia, Abbagnano si tenne lontano, come confermano i suoi ultimi libri. Libri di estrema chiarezza, secondo l’aristotelica concezione che solo chi ha lucidità di pensiero ha semplicità d’espressione. Una testimonianza straordinaria è la Storia della filosofia: un testo facile e bello per seguire lo sviluppo del pensiero. Scritto negli anni ’50, nel tempo è stato rivisto e migliorato dal suo autore, e rimane di grande freschezza e profondità.
«Il Giornale» del 30 settembre 2010
Nessun commento:
Posta un commento