Il gioco di specchi tra pubblico e privato è la forma in cui la proprietà privata è eletta a principio universale del capitalismo globale. Un sentiero di lettura a partire da un libro di Ugo Mattei edito dalla manifestolibri
di Sandro Mezzadra
L'inganno giuridico della «rule of law»
Quello di Ugo Mattei è ormai un nome familiare alle lettrici e ai lettori del manifesto. Firma autorevole del giornale, Mattei è intervenuto negli ultimi anni sulle questioni dirimenti del dibattito politico, segnalandosi tra l'altro per la straordinaria generosità con cui ha contribuito a costruire la battaglia referendaria sull'acqua, ed è stato una presenza fissa nelle pagine culturali di questo quotidiano. Giurista (civilista e comparatista per formazione) di grande finezza teorica e di prestigio internazionale, ha svolto soprattutto in quest'ultima veste un ruolo fondamentale nel proporre, dall'interno del diritto, una critica rigorosa degli sviluppi giuridici globali degli ultimi decenni. Soffermandosi su questioni solo apparentemente tecniche - dalla class action alla soft law, dalle trasformazioni dell'arbitrato alla differenza tra standard e regole - Mattei ha tracciato con pazienza e maestria un quadro davvero convincente di quell'interpenetrazione tra processi giuridici e dinamiche globali che costituisce uno dei tratti salienti del capitalismo contemporaneo. Ed è davvero riuscito a «fare uscire il diritto dalla sua torre d'avorio», anche grazie a una scrittura tanto chiara quanto efficace negli esempi portati a sostegno delle tesi più teoriche.
La plasticità della norma
La raccolta in un volume edito dalla manifestolibri degli articoli da lui scritti negli ultimi anni per il manifesto (La legge del più forte, pp. 143, euro 22) rappresenta dunque un'ottima occasione per prendere visione del «quadro» nel suo insieme. E ripropone con forza i problemi politici di fondo che ne hanno guidato la composizione.
Al centro del lavoro di Mattei, in questo volume così come in quello da lui scritto con Laura Nader (Il saccheggio, Bruno Mondadori; ne ha parlato su queste pagine Toni Negri il 4 maggio di quest'anno), è la rule of law, variamente tradotta in italiano come «principio di legalità», «Stato di diritto», «regime di legalità». Tradizione veneranda, quella della rule of law, le cui radici sono indicate da molti nientemeno che nella Magna Charta! Ma al tempo stesso «"nozione plastica", in cui ciascuno vede i valori in cui crede». Ecco, qui sta il punto: Mattei mostra come nel corso degli ultimi decenni gli sviluppi normativi e quelli della dottrina giuridica abbiano interpretato selettivamente la «plasticità» della rule of law, riorganizzandone significati e funzioni attorno alla protezione univoca della proprietà privata. E questo vale tanto all'interno dei paesi «occidentali» quanto - e soprattutto - nella proiezione giuridica all'interno dei Paesi «periferici» dell'operato delle grandi agenzie internazionali (dal Wto alla Banca mondiale e all'Unione Europea): quando cioè la rule of law è posta come condizione per l'accesso al credito o a programmi di cooperazione. O quando - per riprendere l'esempio fatto da Mattei nelle ultime pagine del libro - vengono rescissi i contratti stipulati dai precedenti governi afgani per le forniture energetiche in quanto «non si fondavano su basi giuridiche civili». E la Unocal, gigante energetico californiano per cui ha a lungo lavorato Amid Karzai, l'attuale presidente dell'Afghanistan, può finalmente rientrare nel grande affare dell'oleodotto del Mar Caspio.
Si diceva che una delle traduzioni italiane di rule of law è «principio di legalità». Domanda: non sarà che le trasformazioni indicate da Mattei si sono infiltrate anche in quella «legalità» che costituisce l'ossessivo riferimento, una sorta di totem, della sinistra nostrana in tutte le sue variegate e litigiose componenti? Mi pare una domanda che varrebbe almeno la pena di porre - e che tuttavia nessuno pone. Non mancano certo le voci dei giuristi - anche di grandi giuristi - nel dibattito pubblico italiano attorno ai temi della «legalità». E tuttavia a me pare che problemi come quelli discussi da Mattei restino in larga parte estranei a questo dibattito, dominato - per riprendere l'espressione del grande giurista sovietico Evgenij Pasukanis - da un vero e proprio «feticismo giuridico», dall'idea che il diritto non possa che avere funzioni «positive» di tutela e garanzia (in primo luogo degli interessi dei più deboli). È da questo punto di vista che la critica del diritto praticata da Mattei si rivela davvero preziosa.
Il feticismo giuridico
Due precisazioni sono a questo riguardo necessarie. La prima è che la critica del diritto, pur non potendo che essere al contempo critica del «feticismo giuridico», non è certo cieca di fronte alle funzioni «positive» del diritto stesso. Guarda tuttavia a quest'ultimo dal punto di vista dei rapporti sociali che regola - o, ancora più radicalmente e ancora con Pasukanis, intendendo «il diritto come rapporto sociale». E coglie nella sua materialità un insieme complesso di funzioni, tra cui rientrano senz'altro - ecco il vero rimosso del dibattito contemporaneo - l'organizzazione e l'articolazione giuridica di rapporti di dominio. La seconda precisazione necessaria è che la critica del diritto non è necessariamente patrimonio dei rivoluzionari. Basti pensare, in questo senso al celebre saggio di Franz L. Neumann, Mutamenti della funzione della legge nella società borghese (1937), in cui si mostrava - in uno spirito analogo a quello di Mattei - come nella Germania di Weimar il principio dell'uguaglianza di fronte alla legge fosse stato trasformato in un vero e proprio baluardo eretto a difesa della proprietà privata contro ogni estensione «sociale» della democrazia. A introdurre l'edizione italiana della raccolta di scritti di Neumann in cui quel saggio è stato pubblicato (Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Il Mulino, 1973), e a celebrarne la «"realistica" utopia democratica», fu un maestro del liberalismo nostrano, Nicola Matteucci.
Ciò detto, è giusto riconoscere che la critica del diritto praticata e proposta da Mattei è radicale, non teme anzi di tornare a nominare la rivoluzione come proprio complessivo orizzonte. È un'opzione meramente ideologica, o retorica, quella di Mattei? Non pare. Il fatto è che quell'opzione è imposta al suo ragionamento dal procedere stesso dell'analisi, dal rigore con cui quest'ultima viene concentrandosi sulle trasformazioni dell'istituto in cui viene riconosciuta la filigrana della rule of law: ovvero della proprietà privata. La sintesi di Mattei è senz'appello: nella proprietà privata si deve identificare «l'istituto giuridico maggiormente responsabile del privativo, della disuguaglianza e della dominazione tipici del modello di sviluppo dominante». Sotto il profilo analitico, tuttavia, il giudizio è ben altrimenti articolato. Cerco di darne conto in poche righe: nata con un preciso riferimento «soggettivo» - l'individuo - e «oggettivo» - i beni «materiali», in primo luogo la terra - la proprietà privata moderna si trasforma radicalmente via via che la grande corporation si sostituisce all'individuo come soggetto proprietario e i beni appropriabili vengono «smaterializzandosi» (cosicché «immagini, informazione, strumenti finanziari complessi, idee innovative» si sostituiscono alla terra come paradigma su cui il diritto proprietario si ridefinisce). Non sono, né l'uno né l'altro, sviluppi recentissimi. Ma è indubbio che nel contesto della globalizzazione capitalistica si sia varcata anche da questo punto di vista una soglia qualitativamente decisiva: e oltre quella soglia, aggiunge Mattei, la proprietà privata torna paradossalmente a presentarsi, come alle origini della modernità, strutturalmente avvinta alle dinamiche dell'appropriazione - ovvero dello spossessamento di enormi moltitudini di donne e uomini attraverso l'uso di vecchie e nuove «recinzioni» (tanto «materiali» quanto «immateriali»).
Ma c'è di più. Seguendo analiticamente questo «processo apparentemente inarrestabile di espansione dell'appropriabilità privata», Mattei mostra come la proprietà privata sia giunta a rompere l'equilibrio con il pubblico, con quello Stato che storicamente ne ha garantito l'organizzazione e la vigenza mantenendo tuttavia una propria autonomia: il pubblico appare ora interamente «colonizzato» dalle logiche della proprietà privata, ne subisce la temporalità breve (il «fare cassa» che si presenta come la traduzione istituzionale del tempo breve dei bilanci trimestrali delle grandi società per azioni) e riorganizza i propri «servizi» in base a principi economici di mera efficienza e profittabilità (uno degli esempi paradigmatici su cui Mattei si sofferma è l'università).
Oltre la miseria del presente
Rotto l'equilibrio tra pubblico e privato, quali alternative si aprono per una prassi politica che sappia ricominciare a tessere la trama di una critica efficace dell'esistente? Non mancano nel volume di Mattei riferimenti alla possibilità di «invertire la rotta» (per riprendere il titolo di un importante volume da lui curato nel 2007 per i tipi del Mulino insieme a Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà), di ripensare la proprietà pubblica in modo tale da restaurare l'equilibrio perduto tra privato e pubblico, nella prospettiva di un rinnovato «controllo democratico dell'economia». Molti sono in questo senso i rimandi a esperienze del passato (in Italia e altrove) che si potrebbero riprendere e adattare alle mutate circostanze. A me pare, tuttavia, che la logica stessa del ragionamento di Mattei lo conduca verso quella «rivoluzione copernicana» a cui fa pure più di un cenno, a investire cioè sulla spinta di nuovi movimenti sociali e politici che conducano «a rendere possibile ciò che oggi appare impossibile»: ovvero la produzione e la conquista di un comune sottratto alla specularità di pubblico e privato, inteso come base materiale di un'esistenza associata finalmente libera dallo sfruttamento. Si apre qui uno straordinario terreno di ricerca teorica e di sperimentazione pratica, in cui il lavoro del giurista può essere fondamentale. Non solo sotto il profilo critico, ma anche nei termini «positivi» dell'invenzione di un nuovo «diritto del comune»: e nel «mondo post-occidentale» in cui stiamo cominciando a vivere, potrà essere preziosa la ricostruzione - a cui Mattei dà alcuni contributi in La legge del più forte - degli «archivi giuridici» non occidentali. A questi ultimi si dovrà guardare non tanto per rinvenirvi «modelli» pre-confezionati, quanto esperienze e suggestioni da lasciare «risuonare» nel nostro presente globale.
È una posizione «rivoluzionaria», quella a cui si è fatto or ora riferimento? Certamente sì. Mi si permetta tuttavia di avanzare il dubbio che, finché non si comincerà a lavorare seriamente alla definizione di un orizzonte radicalmente alternativo alle miserie del presente (e dunque di un orizzonte rivoluzionario), anche le prospettive del «riformismo» rimarranno povera cosa. Non era Lenin del resto, era il vecchio e saggio Max Weber a ricordare che «il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l'impossibile». Chissà, forse anche Enrico Letta e il suo «pensatoio» potranno trovare utile la lettura del libro di Mattei. Anzi no, loro sicuramente no.
La plasticità della norma
La raccolta in un volume edito dalla manifestolibri degli articoli da lui scritti negli ultimi anni per il manifesto (La legge del più forte, pp. 143, euro 22) rappresenta dunque un'ottima occasione per prendere visione del «quadro» nel suo insieme. E ripropone con forza i problemi politici di fondo che ne hanno guidato la composizione.
Al centro del lavoro di Mattei, in questo volume così come in quello da lui scritto con Laura Nader (Il saccheggio, Bruno Mondadori; ne ha parlato su queste pagine Toni Negri il 4 maggio di quest'anno), è la rule of law, variamente tradotta in italiano come «principio di legalità», «Stato di diritto», «regime di legalità». Tradizione veneranda, quella della rule of law, le cui radici sono indicate da molti nientemeno che nella Magna Charta! Ma al tempo stesso «"nozione plastica", in cui ciascuno vede i valori in cui crede». Ecco, qui sta il punto: Mattei mostra come nel corso degli ultimi decenni gli sviluppi normativi e quelli della dottrina giuridica abbiano interpretato selettivamente la «plasticità» della rule of law, riorganizzandone significati e funzioni attorno alla protezione univoca della proprietà privata. E questo vale tanto all'interno dei paesi «occidentali» quanto - e soprattutto - nella proiezione giuridica all'interno dei Paesi «periferici» dell'operato delle grandi agenzie internazionali (dal Wto alla Banca mondiale e all'Unione Europea): quando cioè la rule of law è posta come condizione per l'accesso al credito o a programmi di cooperazione. O quando - per riprendere l'esempio fatto da Mattei nelle ultime pagine del libro - vengono rescissi i contratti stipulati dai precedenti governi afgani per le forniture energetiche in quanto «non si fondavano su basi giuridiche civili». E la Unocal, gigante energetico californiano per cui ha a lungo lavorato Amid Karzai, l'attuale presidente dell'Afghanistan, può finalmente rientrare nel grande affare dell'oleodotto del Mar Caspio.
Si diceva che una delle traduzioni italiane di rule of law è «principio di legalità». Domanda: non sarà che le trasformazioni indicate da Mattei si sono infiltrate anche in quella «legalità» che costituisce l'ossessivo riferimento, una sorta di totem, della sinistra nostrana in tutte le sue variegate e litigiose componenti? Mi pare una domanda che varrebbe almeno la pena di porre - e che tuttavia nessuno pone. Non mancano certo le voci dei giuristi - anche di grandi giuristi - nel dibattito pubblico italiano attorno ai temi della «legalità». E tuttavia a me pare che problemi come quelli discussi da Mattei restino in larga parte estranei a questo dibattito, dominato - per riprendere l'espressione del grande giurista sovietico Evgenij Pasukanis - da un vero e proprio «feticismo giuridico», dall'idea che il diritto non possa che avere funzioni «positive» di tutela e garanzia (in primo luogo degli interessi dei più deboli). È da questo punto di vista che la critica del diritto praticata da Mattei si rivela davvero preziosa.
Il feticismo giuridico
Due precisazioni sono a questo riguardo necessarie. La prima è che la critica del diritto, pur non potendo che essere al contempo critica del «feticismo giuridico», non è certo cieca di fronte alle funzioni «positive» del diritto stesso. Guarda tuttavia a quest'ultimo dal punto di vista dei rapporti sociali che regola - o, ancora più radicalmente e ancora con Pasukanis, intendendo «il diritto come rapporto sociale». E coglie nella sua materialità un insieme complesso di funzioni, tra cui rientrano senz'altro - ecco il vero rimosso del dibattito contemporaneo - l'organizzazione e l'articolazione giuridica di rapporti di dominio. La seconda precisazione necessaria è che la critica del diritto non è necessariamente patrimonio dei rivoluzionari. Basti pensare, in questo senso al celebre saggio di Franz L. Neumann, Mutamenti della funzione della legge nella società borghese (1937), in cui si mostrava - in uno spirito analogo a quello di Mattei - come nella Germania di Weimar il principio dell'uguaglianza di fronte alla legge fosse stato trasformato in un vero e proprio baluardo eretto a difesa della proprietà privata contro ogni estensione «sociale» della democrazia. A introdurre l'edizione italiana della raccolta di scritti di Neumann in cui quel saggio è stato pubblicato (Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Il Mulino, 1973), e a celebrarne la «"realistica" utopia democratica», fu un maestro del liberalismo nostrano, Nicola Matteucci.
Ciò detto, è giusto riconoscere che la critica del diritto praticata e proposta da Mattei è radicale, non teme anzi di tornare a nominare la rivoluzione come proprio complessivo orizzonte. È un'opzione meramente ideologica, o retorica, quella di Mattei? Non pare. Il fatto è che quell'opzione è imposta al suo ragionamento dal procedere stesso dell'analisi, dal rigore con cui quest'ultima viene concentrandosi sulle trasformazioni dell'istituto in cui viene riconosciuta la filigrana della rule of law: ovvero della proprietà privata. La sintesi di Mattei è senz'appello: nella proprietà privata si deve identificare «l'istituto giuridico maggiormente responsabile del privativo, della disuguaglianza e della dominazione tipici del modello di sviluppo dominante». Sotto il profilo analitico, tuttavia, il giudizio è ben altrimenti articolato. Cerco di darne conto in poche righe: nata con un preciso riferimento «soggettivo» - l'individuo - e «oggettivo» - i beni «materiali», in primo luogo la terra - la proprietà privata moderna si trasforma radicalmente via via che la grande corporation si sostituisce all'individuo come soggetto proprietario e i beni appropriabili vengono «smaterializzandosi» (cosicché «immagini, informazione, strumenti finanziari complessi, idee innovative» si sostituiscono alla terra come paradigma su cui il diritto proprietario si ridefinisce). Non sono, né l'uno né l'altro, sviluppi recentissimi. Ma è indubbio che nel contesto della globalizzazione capitalistica si sia varcata anche da questo punto di vista una soglia qualitativamente decisiva: e oltre quella soglia, aggiunge Mattei, la proprietà privata torna paradossalmente a presentarsi, come alle origini della modernità, strutturalmente avvinta alle dinamiche dell'appropriazione - ovvero dello spossessamento di enormi moltitudini di donne e uomini attraverso l'uso di vecchie e nuove «recinzioni» (tanto «materiali» quanto «immateriali»).
Ma c'è di più. Seguendo analiticamente questo «processo apparentemente inarrestabile di espansione dell'appropriabilità privata», Mattei mostra come la proprietà privata sia giunta a rompere l'equilibrio con il pubblico, con quello Stato che storicamente ne ha garantito l'organizzazione e la vigenza mantenendo tuttavia una propria autonomia: il pubblico appare ora interamente «colonizzato» dalle logiche della proprietà privata, ne subisce la temporalità breve (il «fare cassa» che si presenta come la traduzione istituzionale del tempo breve dei bilanci trimestrali delle grandi società per azioni) e riorganizza i propri «servizi» in base a principi economici di mera efficienza e profittabilità (uno degli esempi paradigmatici su cui Mattei si sofferma è l'università).
Oltre la miseria del presente
Rotto l'equilibrio tra pubblico e privato, quali alternative si aprono per una prassi politica che sappia ricominciare a tessere la trama di una critica efficace dell'esistente? Non mancano nel volume di Mattei riferimenti alla possibilità di «invertire la rotta» (per riprendere il titolo di un importante volume da lui curato nel 2007 per i tipi del Mulino insieme a Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà), di ripensare la proprietà pubblica in modo tale da restaurare l'equilibrio perduto tra privato e pubblico, nella prospettiva di un rinnovato «controllo democratico dell'economia». Molti sono in questo senso i rimandi a esperienze del passato (in Italia e altrove) che si potrebbero riprendere e adattare alle mutate circostanze. A me pare, tuttavia, che la logica stessa del ragionamento di Mattei lo conduca verso quella «rivoluzione copernicana» a cui fa pure più di un cenno, a investire cioè sulla spinta di nuovi movimenti sociali e politici che conducano «a rendere possibile ciò che oggi appare impossibile»: ovvero la produzione e la conquista di un comune sottratto alla specularità di pubblico e privato, inteso come base materiale di un'esistenza associata finalmente libera dallo sfruttamento. Si apre qui uno straordinario terreno di ricerca teorica e di sperimentazione pratica, in cui il lavoro del giurista può essere fondamentale. Non solo sotto il profilo critico, ma anche nei termini «positivi» dell'invenzione di un nuovo «diritto del comune»: e nel «mondo post-occidentale» in cui stiamo cominciando a vivere, potrà essere preziosa la ricostruzione - a cui Mattei dà alcuni contributi in La legge del più forte - degli «archivi giuridici» non occidentali. A questi ultimi si dovrà guardare non tanto per rinvenirvi «modelli» pre-confezionati, quanto esperienze e suggestioni da lasciare «risuonare» nel nostro presente globale.
È una posizione «rivoluzionaria», quella a cui si è fatto or ora riferimento? Certamente sì. Mi si permetta tuttavia di avanzare il dubbio che, finché non si comincerà a lavorare seriamente alla definizione di un orizzonte radicalmente alternativo alle miserie del presente (e dunque di un orizzonte rivoluzionario), anche le prospettive del «riformismo» rimarranno povera cosa. Non era Lenin del resto, era il vecchio e saggio Max Weber a ricordare che «il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l'impossibile». Chissà, forse anche Enrico Letta e il suo «pensatoio» potranno trovare utile la lettura del libro di Mattei. Anzi no, loro sicuramente no.
«Il Manifesto» del 21 settembre 2010
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