di Lucia Bellaspiga
«Credi davvero che il mio compito sia ammazzare chi non ha il coraggio di affrontare le difficoltà?», chiede la «accabadora», la donna che in Sardegna era chiamata nelle case a interrompere l’agonia dei malati terminali quando non 'riuscivano' a morire. «No, credo sia aiutare chi lo vuole a smettere di soffrire», le risponde Nicola, che è giovane e sano, ma deciso a farsi uccidere dall’anziana donna dopo che l’amputazione di una gamba lo ha privato dell’integrità fisica. «Quello è il compito di nostro Signore, non il mio – ribatte la accabadora –. Non hai mai creduto nelle cose giuste, adesso vuoi insegnare a me quelle sbagliate?»... Accabadora di Michela Murgia è un vero capolavoro. Il romanzo, che si legge in una sera (non perché di sole 164 pagine, ma perché una tira l’altra e smettere è impossibile), ha appena vinto il Campiello ed è arrivato in finale al Pen Club. Notorietà immediata (e meritata), com’è ovvio, ma la notizia è stata data più o meno così: premiato il libro che sostiene l’eutanasia. Complice forse il vizio di recensire i libri senza leggerli, o ancor più quello di trovare a tutti i costi agganci ideologici con l’attualità dove non ce ne sono, Accabadora è così diventato per alcuni una sorta di apologia della «dolce morte», la legittimazione letteraria a decidere della dignità o meno di una vita. E così è stato citato in più di un pensoso convegno.
In realtà il romanzo è troppo profondo e vero per essere utilizzato – da una parte o dall’altra – a fini ideologici.
Semplicemente perché da tali fini è lontano anni luce. La giovane autrice non sentenzia, semmai attraverso i travagli dei personaggi e le loro opposte pulsioni porta alla luce le tante facce dell’immenso tema della vita e dei suoi due estremi: la nascita e la morte.
Tutto scrive, insomma, fuorché un romanzo «sull’eutanasia». E se evita di dare giudizi morali, il suo alla fine è un libro altamente morale. Che racconta (tra molte altre cose) i chiari e gli scuri: il senso di impotenza di fronte alla malattia di una persona amata ma anche il dovere naturale (come un patto non scritto) di assisterla e curarla, il diritto di vivere o quello di morire quando l’ora è giunta, la libertà di autodeterminarci e la soglia che all’uomo non è dato oltrepassare. Davanti alla quale anche un’accabadora si ferma.
La accabadora, dallo spagnolo «acabàr», porre fine, è una figura che si perde nella leggenda, ma che nell’idioma sardo ha lasciato segni indelebili (Sa ’e s’accabadora ti dian! è l’augurio di morte). Espressione di una società ancora primitiva, l’anziana sciamana era convocata dai parenti al capezzale del morente solo come ultima spiaggia, quando le altre pratiche avevano fallito (tra queste l’estrema unzione che, 'imprigionando' l’anima, si pensava ne potesse ritardare il trapasso); e comunque solo quando la vita era alla fine («Maledetti voi tutti presenti», inorridisce nel romanzo la accabadora quando si accorge che un vecchio per cui l’hanno chiamata ha ancora un filo di voce: «Sai benissimo che tuo padre non è morente, non è nemmeno vicino al suo giorno», grida, perché nemmeno una accabadora decide della vita e della morte di un uomo, ma entra in scena solo quando Dio ha già stabilito l’ultima ora).
Il rituale, peraltro, era drammatico. Il morente veniva finito con un colpo di bastone alla nuca, oppure soffocato con la mano o un cuscino. Ma all’origine non c’era il desiderio di porre termine a una sofferenza (mai si sarebbe praticato su un disabile o su un malato, seppure grave!), quanto quello di riconoscere il peccato commesso dal morente e rompere il circolo magico che ne impediva la dipartita. Eppure alla accabadora del romanzo il giovane Nicola chiede di morire solo perché, senza una gamba, la sua vita gli appare indegna. «Se basta una gamba a fare l’uomo – gli oppone la donna –, allora ogni tavolo è più uomo di te». È il mito odierno della «perfezione» (odierno, ma già di Sparta, o della razza ariana), ed è uno dei tanti nervi che questo libro porta allo scoperto. Insieme al mal di vivere di chi non tollera un’esistenza dimezzata: «Io preferirei morire dieci volte da vivo che vivere anche solo dieci anni come uno che è morto», sostiene un personaggio ...
Ma c’è anche, netto, il senso dell’illecito: «Prega che il Signore faccia cadere su di te la cosa che mi chiedi, che non è benedetta, e nemmeno necessaria», dice la vecchia a Nicola prima di cedere alla sua richiesta. E il rifiuto di ogni ipocrita silenzio, perché il peso morale di talune scelte ci riguarda tutti: «Certe cose, farle o vederle fare è la stessa colpa». O ancora il grande tema della responsabilità personale, del non-diritto a coinvolgere altri nel proprio progetto suicida: «Negli occhi di Nicola Bastìu aveva letto la determinazione di chi cerca disperatamente non la pace, ma un complice».
«Se mi chiedeste di morire, io non sarei capace di uccidervi solo perché è quello che volete», la condanna Maria, figlia adottiva della accabadora, quando scopre che sua madre ha ucciso Nicola («Io non vi conosco. La persona che conosco non entra di notte nelle case a soffocare gli storpi con i cuscini»). Ma nel finale, di fronte alla madre in agonia ormai da mesi, a sua volta proverà la tentazione di porre fine a quella lenta «decomposizione senza morte»...
«Non è un libro sull’eutanasia, anche perché non credo che l’eutanasia e l’accabadura abbiano qualcosa in comune», chiarisce l’autrice pungolata dalla stampa: «Questa – aggiunge – sorge in un contesto di fortissimi legami comunitari, mentre l’eutanasia è esattamente il contrario, un’espressione della nostra personale solitudine, del nostro essere abbandonati a noi stessi o alle nostre famiglie, che da sole non sono in grado di sostenere il peso di un’agonia». Nel romanzo tutto questo emerge nitido, almeno se si rinuncia a «leggere per analogia anche le cose che analoghe non sarebbero». L’ha ben spiegato ancora la Murgia agli studenti di un liceo: «Sicuramente non voglio che il libro sia usato come raffronto con il presente: non può servire da giustificazione per nessuna opinione sull’argomento eutanasia». Ma la strumentalizzazione continua.
In realtà il romanzo è troppo profondo e vero per essere utilizzato – da una parte o dall’altra – a fini ideologici.
Semplicemente perché da tali fini è lontano anni luce. La giovane autrice non sentenzia, semmai attraverso i travagli dei personaggi e le loro opposte pulsioni porta alla luce le tante facce dell’immenso tema della vita e dei suoi due estremi: la nascita e la morte.
Tutto scrive, insomma, fuorché un romanzo «sull’eutanasia». E se evita di dare giudizi morali, il suo alla fine è un libro altamente morale. Che racconta (tra molte altre cose) i chiari e gli scuri: il senso di impotenza di fronte alla malattia di una persona amata ma anche il dovere naturale (come un patto non scritto) di assisterla e curarla, il diritto di vivere o quello di morire quando l’ora è giunta, la libertà di autodeterminarci e la soglia che all’uomo non è dato oltrepassare. Davanti alla quale anche un’accabadora si ferma.
La accabadora, dallo spagnolo «acabàr», porre fine, è una figura che si perde nella leggenda, ma che nell’idioma sardo ha lasciato segni indelebili (Sa ’e s’accabadora ti dian! è l’augurio di morte). Espressione di una società ancora primitiva, l’anziana sciamana era convocata dai parenti al capezzale del morente solo come ultima spiaggia, quando le altre pratiche avevano fallito (tra queste l’estrema unzione che, 'imprigionando' l’anima, si pensava ne potesse ritardare il trapasso); e comunque solo quando la vita era alla fine («Maledetti voi tutti presenti», inorridisce nel romanzo la accabadora quando si accorge che un vecchio per cui l’hanno chiamata ha ancora un filo di voce: «Sai benissimo che tuo padre non è morente, non è nemmeno vicino al suo giorno», grida, perché nemmeno una accabadora decide della vita e della morte di un uomo, ma entra in scena solo quando Dio ha già stabilito l’ultima ora).
Il rituale, peraltro, era drammatico. Il morente veniva finito con un colpo di bastone alla nuca, oppure soffocato con la mano o un cuscino. Ma all’origine non c’era il desiderio di porre termine a una sofferenza (mai si sarebbe praticato su un disabile o su un malato, seppure grave!), quanto quello di riconoscere il peccato commesso dal morente e rompere il circolo magico che ne impediva la dipartita. Eppure alla accabadora del romanzo il giovane Nicola chiede di morire solo perché, senza una gamba, la sua vita gli appare indegna. «Se basta una gamba a fare l’uomo – gli oppone la donna –, allora ogni tavolo è più uomo di te». È il mito odierno della «perfezione» (odierno, ma già di Sparta, o della razza ariana), ed è uno dei tanti nervi che questo libro porta allo scoperto. Insieme al mal di vivere di chi non tollera un’esistenza dimezzata: «Io preferirei morire dieci volte da vivo che vivere anche solo dieci anni come uno che è morto», sostiene un personaggio ...
Ma c’è anche, netto, il senso dell’illecito: «Prega che il Signore faccia cadere su di te la cosa che mi chiedi, che non è benedetta, e nemmeno necessaria», dice la vecchia a Nicola prima di cedere alla sua richiesta. E il rifiuto di ogni ipocrita silenzio, perché il peso morale di talune scelte ci riguarda tutti: «Certe cose, farle o vederle fare è la stessa colpa». O ancora il grande tema della responsabilità personale, del non-diritto a coinvolgere altri nel proprio progetto suicida: «Negli occhi di Nicola Bastìu aveva letto la determinazione di chi cerca disperatamente non la pace, ma un complice».
«Se mi chiedeste di morire, io non sarei capace di uccidervi solo perché è quello che volete», la condanna Maria, figlia adottiva della accabadora, quando scopre che sua madre ha ucciso Nicola («Io non vi conosco. La persona che conosco non entra di notte nelle case a soffocare gli storpi con i cuscini»). Ma nel finale, di fronte alla madre in agonia ormai da mesi, a sua volta proverà la tentazione di porre fine a quella lenta «decomposizione senza morte»...
«Non è un libro sull’eutanasia, anche perché non credo che l’eutanasia e l’accabadura abbiano qualcosa in comune», chiarisce l’autrice pungolata dalla stampa: «Questa – aggiunge – sorge in un contesto di fortissimi legami comunitari, mentre l’eutanasia è esattamente il contrario, un’espressione della nostra personale solitudine, del nostro essere abbandonati a noi stessi o alle nostre famiglie, che da sole non sono in grado di sostenere il peso di un’agonia». Nel romanzo tutto questo emerge nitido, almeno se si rinuncia a «leggere per analogia anche le cose che analoghe non sarebbero». L’ha ben spiegato ancora la Murgia agli studenti di un liceo: «Sicuramente non voglio che il libro sia usato come raffronto con il presente: non può servire da giustificazione per nessuna opinione sull’argomento eutanasia». Ma la strumentalizzazione continua.
«Avvenire» del 13 settembre 2010
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