di Cesare Cavalleri
Non finisco di sorprendermi, e di ringraziare, per come, con soli 8 euro, si possa disporre di «Saper scegliere», antologia kierkegaardiana a cura di Massimo Jevolella. Sia lode agli Oscar Mondadori che nella collana «Saggezze» offrono selezioni di pensieri attinti alle culture più diverse, da Agostino a Boezio, a Cicerone, Confucio, Gibran, Lao-Tzu, Montaigne, san Paolo, Platone, Plutarco, Tagore, Thoreau (spulciando dall’ordine alfabetico). Jevolella è un insigne arabista, esperto di religioni orientali, talvolta con un pizzico di sincretismo gnostico, che nell’Introduzione riesce a offrire una sintesi esauriente del pensiero di Kierkegaard attinto da «Aut-Aut», «La malattia mortale», «Timore e tremore», ivi antologizzati. La reazione di Kierkegaard (1813-1855) all’invadenza dell’idealismo hegeliano avviene nel segno della valorizzazione della persona e della sua libertà.
All’astrattezza dell’idea, egli contrappone la concretezza esperienziale dell’esistenza. Egli mostra che la vita «estetica», tesa alla ricerca del piacere, della soddisfazione momentanea, conduce inevitabilmente alla disperazione, attraverso la coazione a ripetere (Don Giovanni ne è emblema e vittima). All’opposto, la vita «etica» incomincia quando ci si mette di fronte a una scelta assoluta: «Il mio aut-aut non indica la scelta tra il bene e il male; indica la scelta colla quale ci si sottopone o non ci si sottopone al contrasto di bene e male. Non importa tanto scegliere di volere il bene o il male, quanto di scegliere il fatto di volere». Ancora: «Chi vive esteticamente non fa che vedere ovunque possibilità, queste costituiscono per lui il contenuto del futuro; mentre chi vive eticamente vede dappertutto compiti». Con ciò, Kierkegaard non intende ridurre la vita al senso del dovere, al doverismo. Anzi, chi si mettesse in un rapporto esterno col dovere, commetterebbe lo stesso errore dell’esteta che attende tutto da fuori, e «una vita per il dovere come questa è brutta e assai noiosa. Il vero individuo etico ha una calma e una sicurezza in sé, perché non ha il dovere fuori di sé ma in sé».
Da qui la definizione kierkegaardiana dell’etica: «Essa è ciò per cui l’uomo diventa quello che diventa. Essa non vuole che l’individuo diventi un altro, ma sé stesso: non vuole distruggere l’estetica, ma illuminarla». Con maggior rigore metafisico, Giovanni Paolo II declinava in varie circostanze e applicazioni, l’aforisma: «Uomo, diventa ciò che sei». È il riferimento all’oggettività della natura umana a fornire la chiave della distinzione (e quindi della scelta) fra bene e male, superando ogni relativismo. Ma l’itinerario non è ancora completo. La scelta etica radicale avviene finalmente nel confronto con l’assoluto, con Dio. Con parole di Jevolella: «Tutti i princìpi umani devono cedere di fronte al mistero divino, e il pensiero e la vita stessa devono convertirsi in preghiera, in atto di fede ardente». Kierkegaard giunge a una conclusione a prima vista sorprendente: «Vi sono molte qualità di amore, ma vi è anche un amore col quale amo Dio, e questo ha un’espressione sola nella lingua: il pentimento. Se non l’amo così, non lo amo in modo assoluto con tutto il mio essere più profondo. E se non vi fosse nessun’altra ragione perché l’espressione del mio amore per Dio fosse pentimento, basterebbe il fatto che egli mi ha amato per primo». Cercare di cogliere l’assoluto con la passione del pensiero è lodevole, ma per questa via l’amore per Dio diventerebbe necessario: «Ma non appena amo liberamente, e amo Dio, non posso far altro che pentirmi». Ecco perché Abramo, colui che ha portato fino in fondo «la speranza dell’impossibile», diventa il prototipo del giusto, dell’uomo di fede.
All’astrattezza dell’idea, egli contrappone la concretezza esperienziale dell’esistenza. Egli mostra che la vita «estetica», tesa alla ricerca del piacere, della soddisfazione momentanea, conduce inevitabilmente alla disperazione, attraverso la coazione a ripetere (Don Giovanni ne è emblema e vittima). All’opposto, la vita «etica» incomincia quando ci si mette di fronte a una scelta assoluta: «Il mio aut-aut non indica la scelta tra il bene e il male; indica la scelta colla quale ci si sottopone o non ci si sottopone al contrasto di bene e male. Non importa tanto scegliere di volere il bene o il male, quanto di scegliere il fatto di volere». Ancora: «Chi vive esteticamente non fa che vedere ovunque possibilità, queste costituiscono per lui il contenuto del futuro; mentre chi vive eticamente vede dappertutto compiti». Con ciò, Kierkegaard non intende ridurre la vita al senso del dovere, al doverismo. Anzi, chi si mettesse in un rapporto esterno col dovere, commetterebbe lo stesso errore dell’esteta che attende tutto da fuori, e «una vita per il dovere come questa è brutta e assai noiosa. Il vero individuo etico ha una calma e una sicurezza in sé, perché non ha il dovere fuori di sé ma in sé».
Da qui la definizione kierkegaardiana dell’etica: «Essa è ciò per cui l’uomo diventa quello che diventa. Essa non vuole che l’individuo diventi un altro, ma sé stesso: non vuole distruggere l’estetica, ma illuminarla». Con maggior rigore metafisico, Giovanni Paolo II declinava in varie circostanze e applicazioni, l’aforisma: «Uomo, diventa ciò che sei». È il riferimento all’oggettività della natura umana a fornire la chiave della distinzione (e quindi della scelta) fra bene e male, superando ogni relativismo. Ma l’itinerario non è ancora completo. La scelta etica radicale avviene finalmente nel confronto con l’assoluto, con Dio. Con parole di Jevolella: «Tutti i princìpi umani devono cedere di fronte al mistero divino, e il pensiero e la vita stessa devono convertirsi in preghiera, in atto di fede ardente». Kierkegaard giunge a una conclusione a prima vista sorprendente: «Vi sono molte qualità di amore, ma vi è anche un amore col quale amo Dio, e questo ha un’espressione sola nella lingua: il pentimento. Se non l’amo così, non lo amo in modo assoluto con tutto il mio essere più profondo. E se non vi fosse nessun’altra ragione perché l’espressione del mio amore per Dio fosse pentimento, basterebbe il fatto che egli mi ha amato per primo». Cercare di cogliere l’assoluto con la passione del pensiero è lodevole, ma per questa via l’amore per Dio diventerebbe necessario: «Ma non appena amo liberamente, e amo Dio, non posso far altro che pentirmi». Ecco perché Abramo, colui che ha portato fino in fondo «la speranza dell’impossibile», diventa il prototipo del giusto, dell’uomo di fede.
«Avvenire» del 29 settembre 2010
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