«C’è stata una forte riduzione delle morti materne, ma i parti chirurgici in Italia restano davvero troppi. Anche per noi medici esiste un’emergenza educativa e una scarsa cultura della nascita spontanea Quando una paziente vuole il bisturi in realtà chiede di essere ascoltata»
di Daniela Pozzoli
E dire che l’Italia, secondo quanto scriveva ad aprile la rivista scientifica Lancet, è ai primi posti della classifica stilata dal 1980 al 2008 dei Paesi in cui si partorisce con meno problemi.
Un dato che fa però a pugni con gli ultimi drammatici casi di Messina, Roma, Policoro (Matera) e Padova in cui la madre o il neonato ci hanno rimesso la vita.
Ma questo bollettino di guerra delle sale parto come si concilia con il rassicurante raffronto dell’Italia con gli altri Paesi dove la mortalità materna è ben più alta (nel Regno Unito sono 8 i decessi ogni 100mila parti, negli Usa sono passati da 12 a 17 ogni 100mila)? E quel ricorso eccessivo ai parti cesarei ritenuti «più sicuri» di quelli vaginali (sono il 38%, contro la raccomandazione dell’Oms di non superare la soglia del 15%)? L’abbiamo chiesto a Patrizia Vergani, professore associato di Ostetricia e ginecologica all’Università Milano-Bicocca, direttore dell’area ostetrica dell’Ospedale San Gerardo di Monza e tra i più convinti sostenitori del parto naturale.
«In Italia c’è stata una riduzione delle morti materne: siamo passati in dieci anni dai 7 decessi ogni 100mila nati ai 3,9 decessi ogni 100mila. Anche il 'Progetto Europeristat' del 2004, in cui statistici di tutta Europa analizzavano dati di mortalità su mamme e bambini, dava l’Italia ai minimi storici. È infine di maggio il 'Progetto Ccm' dell’Istituto superiore di sanità sulle cause di mortalità materna: anche questo offre dati simili, ma aggiunge qualcosa di nuovo: in Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia ha rilevato che 'la sottostima di mortalità risulta pari al 75% rispetto al dato nazionale rilevato attraverso i certificati di morte dell’Istat'.
Questo perché i certificati Istat non sono in grado di rilevare il fenomeno in maniera appropriata: per morte materna non si intende solo il decesso di una donna durante la gravidanza ma anche entro 42 giorni dal suo termine. Molte tromboembolie (prima causa di morte insieme alla emorragie), avvengono anche molti giorni dopo il parto. Risulta così che nelle regioni ci sono dati più alti rispetto a quelli nazionali, con il nord e la Toscana che contano 8 morti ogni 100mila nati, il Lazio (13 per 100mila) e la Sicilia (22 morti per 100mila nati vivi)».
Cosa si potrebbe fare per rilevare meglio i dati?
«Andrebbe introdotto il sistema di sorveglianza (confindential enquired) che esiste in altri Paesi in cui si tengono d’occhio le donne fino a 42 giorni dopo il parto. Tra Nord e Centro-Sud ci sono differenze elevate: negli ospedali più piccoli (meno di 500 parti l’anno) e con minori capacità di far fronte all’emergenza si preferisce ricorrere al bisturi».
L’alto numero di cesarei non dovrebbe garantire maggiore sicurezza?
«Non c’è alcuna relazione tra parto sicuro e taglio cesareo. Il cesareo andrebbe riservato a gravidanze più complicate, patologiche. L’obbligo esiste in caso di condizioni assolute come la placenta previa che comporta rischi di emorragia. Parlo di casi reali, perché si fa presto a ricorrere al bisturi quando non c’è la volontà di migliorare l’assistenza al parto naturale. La paziente 'sana' col cesareo è a rischio emorragie, lacerazione di tessuti, episodi trombo-embolici...».
E il bambino? Corre meno rischi?
«È vero, i cesarei hanno ridotto i casi di paralisi cerebrale infantile, ma non è aumentando gli interventi chirurgici che si cancellano del tutto. Anche dove il ricorso al cesareo, come al Nord, è del 20%, l’incidenza di paralisi cerebrale infantile resta uguale a quella dell’istituto del Sud dove i cesarei sono 6 su 10».
Perché allora se ne fanno così tanti?
«Negli ospedali con piccole maternità, un’organizzazione fragile e minori capacità di far fronte all’emergenza si preferisce il cesareo, arrivando sino al 49% dei parti. Mentre sopra i 2.500 parti abbiamo il 31% degli interventi. Dove l’organizzazione del lavoro è efficace e sono presenti oltre all’ostetricia la terapia intensiva neonatale l’incidenza è minore».
Lei cosa propone alle pazienti che chiedono il cesareo?
«Alla donna in preda all’angoscia del parto vanno garantite analgesia contro il dolore, assistenza uno a uno con l’ostetrica più tutte le altre modalità che possiamo offrire.
Ma anche per noi ginecologi esiste ormai una vera 'emergenza educativa' e una scarsa cultura del parto spontaneo. Quando una paziente mi chiede il cesareo senza motivo in realtà esprime una domanda di relazione, un bisogno di essere ascoltata, davanti al quale non posso far finta di niente».
Un dato che fa però a pugni con gli ultimi drammatici casi di Messina, Roma, Policoro (Matera) e Padova in cui la madre o il neonato ci hanno rimesso la vita.
Ma questo bollettino di guerra delle sale parto come si concilia con il rassicurante raffronto dell’Italia con gli altri Paesi dove la mortalità materna è ben più alta (nel Regno Unito sono 8 i decessi ogni 100mila parti, negli Usa sono passati da 12 a 17 ogni 100mila)? E quel ricorso eccessivo ai parti cesarei ritenuti «più sicuri» di quelli vaginali (sono il 38%, contro la raccomandazione dell’Oms di non superare la soglia del 15%)? L’abbiamo chiesto a Patrizia Vergani, professore associato di Ostetricia e ginecologica all’Università Milano-Bicocca, direttore dell’area ostetrica dell’Ospedale San Gerardo di Monza e tra i più convinti sostenitori del parto naturale.
«In Italia c’è stata una riduzione delle morti materne: siamo passati in dieci anni dai 7 decessi ogni 100mila nati ai 3,9 decessi ogni 100mila. Anche il 'Progetto Europeristat' del 2004, in cui statistici di tutta Europa analizzavano dati di mortalità su mamme e bambini, dava l’Italia ai minimi storici. È infine di maggio il 'Progetto Ccm' dell’Istituto superiore di sanità sulle cause di mortalità materna: anche questo offre dati simili, ma aggiunge qualcosa di nuovo: in Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia ha rilevato che 'la sottostima di mortalità risulta pari al 75% rispetto al dato nazionale rilevato attraverso i certificati di morte dell’Istat'.
Questo perché i certificati Istat non sono in grado di rilevare il fenomeno in maniera appropriata: per morte materna non si intende solo il decesso di una donna durante la gravidanza ma anche entro 42 giorni dal suo termine. Molte tromboembolie (prima causa di morte insieme alla emorragie), avvengono anche molti giorni dopo il parto. Risulta così che nelle regioni ci sono dati più alti rispetto a quelli nazionali, con il nord e la Toscana che contano 8 morti ogni 100mila nati, il Lazio (13 per 100mila) e la Sicilia (22 morti per 100mila nati vivi)».
Cosa si potrebbe fare per rilevare meglio i dati?
«Andrebbe introdotto il sistema di sorveglianza (confindential enquired) che esiste in altri Paesi in cui si tengono d’occhio le donne fino a 42 giorni dopo il parto. Tra Nord e Centro-Sud ci sono differenze elevate: negli ospedali più piccoli (meno di 500 parti l’anno) e con minori capacità di far fronte all’emergenza si preferisce ricorrere al bisturi».
L’alto numero di cesarei non dovrebbe garantire maggiore sicurezza?
«Non c’è alcuna relazione tra parto sicuro e taglio cesareo. Il cesareo andrebbe riservato a gravidanze più complicate, patologiche. L’obbligo esiste in caso di condizioni assolute come la placenta previa che comporta rischi di emorragia. Parlo di casi reali, perché si fa presto a ricorrere al bisturi quando non c’è la volontà di migliorare l’assistenza al parto naturale. La paziente 'sana' col cesareo è a rischio emorragie, lacerazione di tessuti, episodi trombo-embolici...».
E il bambino? Corre meno rischi?
«È vero, i cesarei hanno ridotto i casi di paralisi cerebrale infantile, ma non è aumentando gli interventi chirurgici che si cancellano del tutto. Anche dove il ricorso al cesareo, come al Nord, è del 20%, l’incidenza di paralisi cerebrale infantile resta uguale a quella dell’istituto del Sud dove i cesarei sono 6 su 10».
Perché allora se ne fanno così tanti?
«Negli ospedali con piccole maternità, un’organizzazione fragile e minori capacità di far fronte all’emergenza si preferisce il cesareo, arrivando sino al 49% dei parti. Mentre sopra i 2.500 parti abbiamo il 31% degli interventi. Dove l’organizzazione del lavoro è efficace e sono presenti oltre all’ostetricia la terapia intensiva neonatale l’incidenza è minore».
Lei cosa propone alle pazienti che chiedono il cesareo?
«Alla donna in preda all’angoscia del parto vanno garantite analgesia contro il dolore, assistenza uno a uno con l’ostetrica più tutte le altre modalità che possiamo offrire.
Ma anche per noi ginecologi esiste ormai una vera 'emergenza educativa' e una scarsa cultura del parto spontaneo. Quando una paziente mi chiede il cesareo senza motivo in realtà esprime una domanda di relazione, un bisogno di essere ascoltata, davanti al quale non posso far finta di niente».
«Avvenire» del 16 settembre 2010
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