di Tommy Cappellini
Oggigiorno la scienza ha due volti: uno glamour e mediatico, che sovente finisce sui settimanali popolari e che ci spiega, per esempio, come il possesso di un certo gene sia indice di un inevitabile destino di infedeltà coniugale o perché, per via di certe proteine, sia nata prima la gallina e dopo l’uovo. L’altro volto, invece, rimane nell’ombra. Poco frequentato, difficile ed elitario, parla una lingua tutta sua: è un mondo fatto di silenziosi laboratori di ricerca, prestigiose riviste scientifiche internazionali, esperimenti che durano anni. Di quest’ultimo parla Laurent Ségalat in La scienza malata? Come la burocrazia soffoca la ricerca (Raffaello Cortina, pagg. 160, euro 13,50). La notizia è che questi due volti della scienza si assomigliano sempre di più.
Il quadro tracciato da Ségalat - genetista e direttore di ricerca al Centre National de la Recherche Scientifique - è allarmante: nonostante le «disfunzioni» che l’autore racconta riguardino solo una piccola fetta del mondo della ricerca, esse «cominciano a contarsi troppo numerose» e ci segnalano che «l’istituzione della scienza è malata».
Dapprima il pamphlet di Ségalat si concentra sul mondo delle riviste scientifiche, che i ricercatori usano per mettere a parte i loro colleghi delle scoperte conseguite. Sono pubblicazioni in forte crescita: ogni anno 1,5 milioni di articoli scientifici vengono pubblicati su circa 16mila riviste, con un aumento annuo del 5 per cento (del 9 per cento in biologia e sanità). Dal 25 al 45 per cento di questi articoli non viene più ripreso e citato da altri, cioè «muore» (sempre che, prima, sia stato letto. Il numero medio di citazioni raccolte da un articolo scientifico si chiama «impact factor» ed è su questo parametro che si conteggia il loro successo, non sul numero di lettori). A «scremare» questo oceano di articoli ci sono, per ogni grande disciplina scientifica, una manciata di riviste prestigiose che creano un collo di bottiglia artificiale e che basano la loro autorevolezza più che altro su una storia qualche volta vecchia di un secolo e mezzo (ad ogni modo la loro pubblicazione, oggi, è sempre digitale). Purtroppo, però, sono queste celebri riviste a raccogliere il maggior numero di errori: in biologia, per esempio, le quattro riviste più conosciute totalizzano da sole il 20 per cento degli articoli ritirati per «errori conclamati».
Perché ciò accade? Una delle ragioni, ben poco scientifica, è l’approssimazione, sia del ricercatore che scrive l’articolo sia della redazione che dovrebbe controllarlo. Uno studio del 2005 apparso su Nature ha mostrato come un terzo dei ricercatori americani si prendeva «alcune libertà nei confronti delle regole deontologiche», mentre il saggio di Ségalat racconta nei dettagli come le redazioni scientifiche - con tempi stretti e poco spazio a disposizione - tendano a non spaccare il capello in quattro nelle verifiche (nel 2002 si scoprì che il fisico Jan Hendrik Schön aveva «taroccato» nei due anni precedenti otto suoi articoli apparsi su Science e sette su Nature).
A questo si aggiunga la lotta darwiniana dei ricercatori che va sotto il motto «publish or perish», pubblica o muori. Spesso uno dei pochi metodi a disposizione per verificare la produttività di un ricercatore (e magari concedergli un finanziamento) è quello di valutare le sue pubblicazioni, che non devono scendere sotto una certa frequenza e che dovrebbero - si spera - essere scientificamente inattaccabili. Però, scrive Ségalat, «se un po’ di competizione fa bene alla ricerca pubblica, la curva “produttività della ricerca -livello di competizione per l’attribuzione delle risorse” è una curva a campana. Esiste una soglia nel livello di competizione oltre la quale la ricerca crea più effetti nefasti che effetti positivi».
Qui entra in gioco l’altro grande ring su cui si sfidano i ricercatori: non più il combattimento per pubblicare, ma per avere i finanziamenti. È un gatto che si morde la coda. Niente finanziamenti, niente ricerche. Cioè nessun articolo e zero finanziamenti... «Tutto ciò - commenta Ségalat - ha dato vita a una nuova tipologia di ricercatori, spesso di successo, che potremmo definire del tipo “take the money and run”. Questo ricercatore cavalca le ultime parole chiave alla moda, è ben introdotto presso gli editori di riviste scientifiche, è abile a prendere in corsa il treno dei progetti collaborativi a grande budget. La scienza lo preoccupa decisamente meno del suo avvenire. Il suo percorso scientifico sembra una corsa di Bugs Bunny, un salto a destra, un passo a sinistra». E quando non sta telefonando per prenotare la propria presenza ai congressi, questo ricercatore passa gran parte del suo tempo tra le scartoffie: richieste di finanziamento, report per il controllo dell'efficienza del laboratorio, della qualità della ricerca, degli obiettivi raggiunti o da raggiungere. E la scienza? Domani, forse.
Il quadro tracciato da Ségalat - genetista e direttore di ricerca al Centre National de la Recherche Scientifique - è allarmante: nonostante le «disfunzioni» che l’autore racconta riguardino solo una piccola fetta del mondo della ricerca, esse «cominciano a contarsi troppo numerose» e ci segnalano che «l’istituzione della scienza è malata».
Dapprima il pamphlet di Ségalat si concentra sul mondo delle riviste scientifiche, che i ricercatori usano per mettere a parte i loro colleghi delle scoperte conseguite. Sono pubblicazioni in forte crescita: ogni anno 1,5 milioni di articoli scientifici vengono pubblicati su circa 16mila riviste, con un aumento annuo del 5 per cento (del 9 per cento in biologia e sanità). Dal 25 al 45 per cento di questi articoli non viene più ripreso e citato da altri, cioè «muore» (sempre che, prima, sia stato letto. Il numero medio di citazioni raccolte da un articolo scientifico si chiama «impact factor» ed è su questo parametro che si conteggia il loro successo, non sul numero di lettori). A «scremare» questo oceano di articoli ci sono, per ogni grande disciplina scientifica, una manciata di riviste prestigiose che creano un collo di bottiglia artificiale e che basano la loro autorevolezza più che altro su una storia qualche volta vecchia di un secolo e mezzo (ad ogni modo la loro pubblicazione, oggi, è sempre digitale). Purtroppo, però, sono queste celebri riviste a raccogliere il maggior numero di errori: in biologia, per esempio, le quattro riviste più conosciute totalizzano da sole il 20 per cento degli articoli ritirati per «errori conclamati».
Perché ciò accade? Una delle ragioni, ben poco scientifica, è l’approssimazione, sia del ricercatore che scrive l’articolo sia della redazione che dovrebbe controllarlo. Uno studio del 2005 apparso su Nature ha mostrato come un terzo dei ricercatori americani si prendeva «alcune libertà nei confronti delle regole deontologiche», mentre il saggio di Ségalat racconta nei dettagli come le redazioni scientifiche - con tempi stretti e poco spazio a disposizione - tendano a non spaccare il capello in quattro nelle verifiche (nel 2002 si scoprì che il fisico Jan Hendrik Schön aveva «taroccato» nei due anni precedenti otto suoi articoli apparsi su Science e sette su Nature).
A questo si aggiunga la lotta darwiniana dei ricercatori che va sotto il motto «publish or perish», pubblica o muori. Spesso uno dei pochi metodi a disposizione per verificare la produttività di un ricercatore (e magari concedergli un finanziamento) è quello di valutare le sue pubblicazioni, che non devono scendere sotto una certa frequenza e che dovrebbero - si spera - essere scientificamente inattaccabili. Però, scrive Ségalat, «se un po’ di competizione fa bene alla ricerca pubblica, la curva “produttività della ricerca -livello di competizione per l’attribuzione delle risorse” è una curva a campana. Esiste una soglia nel livello di competizione oltre la quale la ricerca crea più effetti nefasti che effetti positivi».
Qui entra in gioco l’altro grande ring su cui si sfidano i ricercatori: non più il combattimento per pubblicare, ma per avere i finanziamenti. È un gatto che si morde la coda. Niente finanziamenti, niente ricerche. Cioè nessun articolo e zero finanziamenti... «Tutto ciò - commenta Ségalat - ha dato vita a una nuova tipologia di ricercatori, spesso di successo, che potremmo definire del tipo “take the money and run”. Questo ricercatore cavalca le ultime parole chiave alla moda, è ben introdotto presso gli editori di riviste scientifiche, è abile a prendere in corsa il treno dei progetti collaborativi a grande budget. La scienza lo preoccupa decisamente meno del suo avvenire. Il suo percorso scientifico sembra una corsa di Bugs Bunny, un salto a destra, un passo a sinistra». E quando non sta telefonando per prenotare la propria presenza ai congressi, questo ricercatore passa gran parte del suo tempo tra le scartoffie: richieste di finanziamento, report per il controllo dell'efficienza del laboratorio, della qualità della ricerca, degli obiettivi raggiunti o da raggiungere. E la scienza? Domani, forse.
«Il Giornale» del 21 settembre 2010
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