La legge approvata in Francia e le sfide per l'Europa
di Giorgio Paolucci
Dall’anno prossimo in Francia diventerà reato indossare il burqa nei luoghi pubblici. È la prima legge in Europa, ma il Belgio prepara un provvedimento analogo e in altri Paesi del continente, tra cui l’Italia, crescono le voci a favore di misure analoghe. C’è chi plaude al rigore transalpino, chi evoca guerre di religione e chi lamenta la discriminazione di una minoranza invocando libertà di espressione.
Va chiarito anzitutto che né il burqa, che copre integralmente il volto femminile, né il niqab, che lascia solo una fessura all’altezza degli occhi, sono prescrizioni religiose musulmane. Non ve n’è traccia nel Corano e neppure nella Sunna, la raccolta di detti di Maometto che è punto di riferimento per molte legislazioni nazionali. Indossarli è una consuetudine diffusa soprattutto negli Stati della penisola arabica e in Afghanistan – dove prevalgono le tendenze salafite che predicano il ritorno alle origini – e negli ambienti del radicalismo sempre più influenti in Europa. Più che di un simbolo religioso, dunque, si deve parlare di un simbolo identitario di carattere ideologico. Non è un caso che il burqa sia stato vietato in Tunisia e in Turchia e che nel novembre del 2009 l’allora rettore dell’università Al-Azhar, Mohammad Sayyed Tantawi – considerato la più alta autorità religiosa in Egitto – abbia sconfessato il niqab dicendo a una studentessa che lo indossava: «È solo una tradizione, non ha nessun legame con l’islam». Né è un caso che proprio ieri, sempre da Al-Azhar, sia arrivato un ammonimento da parte di un membro dei consiglio dei religiosi, Abdel Muti al-Bayyumi: «Voglio mandare un messaggio ai miei fratelli musulmani in Francia e in Europa: il burqa non ha basi nell’islam, io rimango costernato ogni volta che vedo donne musulmane indossarlo. Questo non darà certo una buona impressione della religione musulmana». Più chiaro di così… La decisione del Parlamento francese nasce dall’intenzione di riaffermare un principio fondamentale della cultura occidentale – l’uguaglianza tra l’uomo e la donna – di fronte a quello che viene ritenuto un segno di sottomissione. Da anni la Francia si misura con l’onda lunga del radicalismo islamico che sta facendo proseliti tra gli immigrati delusi dal fallimento delle promesse di égalité e dalla mancata integrazione. È in questi ambienti che si alimenta il germe del fondamentalismo, e il burqa viene eretto a simbolo di una irriducibile alterità identitaria in opposizione ai valori occidentali. Cosa che preoccupa gli stessi ambienti musulmani moderati francesi, che temono l’avanzata delle posizioni più oltranziste all’interno di un 'pianeta' che conta 5 milioni di fedeli.
La legge entrerà in vigore solo nella primavera dell’anno prossimo, dopo un periodo di sperimentazione necessario sia per testarne la reale applicabilità (sono molti i dubbi espressi in proposito dai sindacati di polizia), sia per favorire un’opera di sensibilizzazione da svolgere all’interno delle comunità musulmane, anche da parte dei loro leader religiosi. È dunque una doppia sfida quella che si sta giocando Oltralpe: lo Stato lancia un segnale forte in difesa dei valori repubblicani, ma nello stesso tempo si rende conto che il solo divieto ha il fiato corto e rischia di produrre una radicalizzazione nell’islam francese.
Il dibattito è ovviamente tracimato anche in terra italiana, dove peraltro vige da tempo una normativa di pubblica sicurezza che vieta di indossare in luoghi pubblici indumenti e oggetti che impediscano il riconoscimento del volto. Basterebbe dunque far rispettare in maniera rigorosa questo divieto, anche se c’è chi ritiene necessario un provvedimento legislativo specifico a fronte di un costume che si sta diffondendo in maniera preoccupante e segnala la lunga marcia di certo radicalismo islamico anche alle nostre latitudini. Staremo a vedere. È comunque auspicabile che la discussione rimanga sul piano di una positiva laicità e non degeneri in una guerra di religione. Anche perché, come abbiamo visto, il cuore della vicenda non è di natura religiosa. Si tratta di salvaguardare l’ordine pubblico e di promuovere una cultura che sia insieme di rispetto reciproco, di tutela della dignità della donna e della sua effettiva parità con l’uomo. Senza dimenticare che i divieti si riveleranno realmente efficaci solo se accompagnati da un’opera di educazione che deve coinvolgere le comunità musulmane che hanno messo radici in Italia, nel segno di una cultura autenticamente inclusiva.
Va chiarito anzitutto che né il burqa, che copre integralmente il volto femminile, né il niqab, che lascia solo una fessura all’altezza degli occhi, sono prescrizioni religiose musulmane. Non ve n’è traccia nel Corano e neppure nella Sunna, la raccolta di detti di Maometto che è punto di riferimento per molte legislazioni nazionali. Indossarli è una consuetudine diffusa soprattutto negli Stati della penisola arabica e in Afghanistan – dove prevalgono le tendenze salafite che predicano il ritorno alle origini – e negli ambienti del radicalismo sempre più influenti in Europa. Più che di un simbolo religioso, dunque, si deve parlare di un simbolo identitario di carattere ideologico. Non è un caso che il burqa sia stato vietato in Tunisia e in Turchia e che nel novembre del 2009 l’allora rettore dell’università Al-Azhar, Mohammad Sayyed Tantawi – considerato la più alta autorità religiosa in Egitto – abbia sconfessato il niqab dicendo a una studentessa che lo indossava: «È solo una tradizione, non ha nessun legame con l’islam». Né è un caso che proprio ieri, sempre da Al-Azhar, sia arrivato un ammonimento da parte di un membro dei consiglio dei religiosi, Abdel Muti al-Bayyumi: «Voglio mandare un messaggio ai miei fratelli musulmani in Francia e in Europa: il burqa non ha basi nell’islam, io rimango costernato ogni volta che vedo donne musulmane indossarlo. Questo non darà certo una buona impressione della religione musulmana». Più chiaro di così… La decisione del Parlamento francese nasce dall’intenzione di riaffermare un principio fondamentale della cultura occidentale – l’uguaglianza tra l’uomo e la donna – di fronte a quello che viene ritenuto un segno di sottomissione. Da anni la Francia si misura con l’onda lunga del radicalismo islamico che sta facendo proseliti tra gli immigrati delusi dal fallimento delle promesse di égalité e dalla mancata integrazione. È in questi ambienti che si alimenta il germe del fondamentalismo, e il burqa viene eretto a simbolo di una irriducibile alterità identitaria in opposizione ai valori occidentali. Cosa che preoccupa gli stessi ambienti musulmani moderati francesi, che temono l’avanzata delle posizioni più oltranziste all’interno di un 'pianeta' che conta 5 milioni di fedeli.
La legge entrerà in vigore solo nella primavera dell’anno prossimo, dopo un periodo di sperimentazione necessario sia per testarne la reale applicabilità (sono molti i dubbi espressi in proposito dai sindacati di polizia), sia per favorire un’opera di sensibilizzazione da svolgere all’interno delle comunità musulmane, anche da parte dei loro leader religiosi. È dunque una doppia sfida quella che si sta giocando Oltralpe: lo Stato lancia un segnale forte in difesa dei valori repubblicani, ma nello stesso tempo si rende conto che il solo divieto ha il fiato corto e rischia di produrre una radicalizzazione nell’islam francese.
Il dibattito è ovviamente tracimato anche in terra italiana, dove peraltro vige da tempo una normativa di pubblica sicurezza che vieta di indossare in luoghi pubblici indumenti e oggetti che impediscano il riconoscimento del volto. Basterebbe dunque far rispettare in maniera rigorosa questo divieto, anche se c’è chi ritiene necessario un provvedimento legislativo specifico a fronte di un costume che si sta diffondendo in maniera preoccupante e segnala la lunga marcia di certo radicalismo islamico anche alle nostre latitudini. Staremo a vedere. È comunque auspicabile che la discussione rimanga sul piano di una positiva laicità e non degeneri in una guerra di religione. Anche perché, come abbiamo visto, il cuore della vicenda non è di natura religiosa. Si tratta di salvaguardare l’ordine pubblico e di promuovere una cultura che sia insieme di rispetto reciproco, di tutela della dignità della donna e della sua effettiva parità con l’uomo. Senza dimenticare che i divieti si riveleranno realmente efficaci solo se accompagnati da un’opera di educazione che deve coinvolgere le comunità musulmane che hanno messo radici in Italia, nel segno di una cultura autenticamente inclusiva.
«Avvenire» del 16 settembre 2010
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