Una necessaria riflessione
di Francesco D’Agostino
Chi può negare che da anni esista in Italia una tragica emergenza carceraria? Le cifre parlano da sole: se nel 1975 i detenuti erano 30mila, nel 2008 avevano raggiunto i 57mila, nel 2009 si è toccata la quota di 60mila e, ora, siamo poco sotto i 70mila L’affollamento delle carceri ha raggiunto in Emilia Romagna il picco del 186,4 per cento; il tasso di suicidi, tra i detenuti (è tornato a rilevarlo un recente documento del Comitato Nazionale per la Bioetica), è sette volte superiore rispetto al tasso suicidario della popolazione generale; i percorsi di reinserimento sociale di chi abbia scontato una pena detentiva sono praticamente inesistenti. I grandi quotidiani nazionali non omettono certo di divulgare queste notizie, ma - tranne qualche rara eccezione, e Avvenire è tra queste - , lo fanno con stanchezza, ritenendole con ogni probabilità di ben poco interesse per la maggior parte dei lettori.
Probabilmente è vero: l’opinione pubblica italiana, che è generalmente ben consapevole che la situazione carceraria del nostro Paese è terribile, ha assunto da tempo nei confronti di questo problema un atteggiamento di rassegnazione, come se si fosse definitivamente convinta che il problema è insolubile e che ogni tentativo di modificare le cose può, sì, produrre qualche benefico effetto in situazioni circoscritte, ma in una prospettiva generale va considerato assolutamente velleitario. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: se dal trattamento dei detenuti possiamo trarre un’indicazione in merito al livello di civiltà di un Paese e alla sua capacità di rispettare i diritti umani, la situazione italiana è sconfortante.
Non usciremo certo da questa situazione continuando a stracciarci le vesti, a moltiplicare le denuncie, a promuovere inutili manifestazioni di protesta, a invocare sempre più fondi per costruire nuove carceri (come se non si sapesse da tempo che quanto più aumentano i posti in carcere, tanto più aumenta la popolazione carceraria!). Dobbiamo prendere atto che è del tutto vano strumentalizzare politicamente questo problema, che non è politico, ma strutturale e che concerne non le modalità di applicazione delle pene, ma la loro stessa natura. È giunta l’ora di dire apertamente qualcosa che a molti continua ad apparire politicamente scorretto e cioè che il paradigma penalistico moderno, inventato nel Settecento nel contesto dell’illuminismo giuridico, è miserevolmente fallito, dopo essere stato sottoposto a un’accanita sperimentazione, durata per ben due secoli. È fallita la sua ingenua pretesa di poter trasformare il carcere, da ciò che storicamente è sempre stato, cioè il luogo di detenzione di soggetti socialmente pericolosi, in un luogo di rieducazione e di reinserimento sociale dei criminali.
Solo se saremo in grado di ammettere questo fallimento, potremo trovare il coraggio di metterci alla ricerca di nuove modalità punitive, da pensare come forme di sanzione primaria e non come mere (e spesso ipocrite) alternative alla sanzione carceraria. Non sto certo auspicando il ritorno a forme vendicatorie di pena criminale, oltre tutto incompatibili col rispetto dei diritti umani fondamentali, ma a nuove modalità di punire i reati, colpendo il rango e il ruolo sociale del colpevole, imponendogli forme socialmente utili di lavoro coercitivo o ridando spessore e rendendo effettuali forme di sanzione, come quelle pecuniarie, alle quali oggi è relativamente semplice sottrarsi. In una società, come quella moderna, nella quale la persona identifica sempre di più se stessa attraverso la funzione sociale che ricopre, un intervento mirato su questo livello può, del tutto indipendentemente dalla limitazione della libertà personale, attivare forme di afflittività adeguate a punire un’amplissima gamma di reati.
Il carcere, nelle sue forme attuative più severe, dovrebbe essere la pena residuale per criminali ad altissima pericolosità e per coloro che, condannati a scontare giuste sanzioni non detentive, cercassero di sottrarsi ad esse.
Utopie, astrazioni? Queste sono le eterne obiezioni di coloro che non riescono a pensare al nuovo e si ancorano spasmodicamente a un’esperienza che ritengono consolidata e 'moderna', senza accorgersi che la'modernità’ si è liquefatta sotto i nostri occhi e che non può più essere invocata per difendere l’indifendibile.
Probabilmente è vero: l’opinione pubblica italiana, che è generalmente ben consapevole che la situazione carceraria del nostro Paese è terribile, ha assunto da tempo nei confronti di questo problema un atteggiamento di rassegnazione, come se si fosse definitivamente convinta che il problema è insolubile e che ogni tentativo di modificare le cose può, sì, produrre qualche benefico effetto in situazioni circoscritte, ma in una prospettiva generale va considerato assolutamente velleitario. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: se dal trattamento dei detenuti possiamo trarre un’indicazione in merito al livello di civiltà di un Paese e alla sua capacità di rispettare i diritti umani, la situazione italiana è sconfortante.
Non usciremo certo da questa situazione continuando a stracciarci le vesti, a moltiplicare le denuncie, a promuovere inutili manifestazioni di protesta, a invocare sempre più fondi per costruire nuove carceri (come se non si sapesse da tempo che quanto più aumentano i posti in carcere, tanto più aumenta la popolazione carceraria!). Dobbiamo prendere atto che è del tutto vano strumentalizzare politicamente questo problema, che non è politico, ma strutturale e che concerne non le modalità di applicazione delle pene, ma la loro stessa natura. È giunta l’ora di dire apertamente qualcosa che a molti continua ad apparire politicamente scorretto e cioè che il paradigma penalistico moderno, inventato nel Settecento nel contesto dell’illuminismo giuridico, è miserevolmente fallito, dopo essere stato sottoposto a un’accanita sperimentazione, durata per ben due secoli. È fallita la sua ingenua pretesa di poter trasformare il carcere, da ciò che storicamente è sempre stato, cioè il luogo di detenzione di soggetti socialmente pericolosi, in un luogo di rieducazione e di reinserimento sociale dei criminali.
Solo se saremo in grado di ammettere questo fallimento, potremo trovare il coraggio di metterci alla ricerca di nuove modalità punitive, da pensare come forme di sanzione primaria e non come mere (e spesso ipocrite) alternative alla sanzione carceraria. Non sto certo auspicando il ritorno a forme vendicatorie di pena criminale, oltre tutto incompatibili col rispetto dei diritti umani fondamentali, ma a nuove modalità di punire i reati, colpendo il rango e il ruolo sociale del colpevole, imponendogli forme socialmente utili di lavoro coercitivo o ridando spessore e rendendo effettuali forme di sanzione, come quelle pecuniarie, alle quali oggi è relativamente semplice sottrarsi. In una società, come quella moderna, nella quale la persona identifica sempre di più se stessa attraverso la funzione sociale che ricopre, un intervento mirato su questo livello può, del tutto indipendentemente dalla limitazione della libertà personale, attivare forme di afflittività adeguate a punire un’amplissima gamma di reati.
Il carcere, nelle sue forme attuative più severe, dovrebbe essere la pena residuale per criminali ad altissima pericolosità e per coloro che, condannati a scontare giuste sanzioni non detentive, cercassero di sottrarsi ad esse.
Utopie, astrazioni? Queste sono le eterne obiezioni di coloro che non riescono a pensare al nuovo e si ancorano spasmodicamente a un’esperienza che ritengono consolidata e 'moderna', senza accorgersi che la'modernità’ si è liquefatta sotto i nostri occhi e che non può più essere invocata per difendere l’indifendibile.
«Avvenire» del 26 agosto 2010
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