di Luca De Biase
«Il web è morto. Lunga vita a internet». Dopo settimane di anticipazioni e discussioni preliminari, è uscito ieri il controverso doppio pezzo di Chris Anderson, direttore di Wired, e Michael Wolff, giornalista di Vanity Fair e fondatore di Newser, un aggregatore di notizie. Si può sorridere del fatto che l'intervento sia uscito sul web, prima che sulla bellissima carta della testata guidata da Anderson.
E si può ironizzare sul fatto che, proprio ieri, sul sito - web - di Newser, campeggiava un banner di OurBlook, con lo slogan «Il giornalismo è morto»: la predilezione per le previsioni allarmanti è generalizzata e non fa prigionieri. In ogni caso, la provocazione di Anderson e Wolff ha una doppia valenza: per gli internettari, la prima parte del titolo attiva l'amigdala, la parte del cervello connessa alla paura, mentre la seconda lancia un po' di dopamina. Perché internet continua la sua corsa innovativa e la campagna per attribuire alla tecnologia TCP/IP il Nobel per la Pace, voluta proprio da Wired, versione italiana.
Ma gli autori osservano che il web sta perdendo quote di traffico rispetto alle altre forme di utilizzo della rete. Sebbene si tenda a dimenticarlo, il web non è che una delle modalità con le quali si usa internet. Il web è un complesso di tecnologie, servizi e contenuti, partiti più o meno 18 anni fa con l'ipertesto di Tim Berners-Lee e il browser di Marc Andreessen: circa 250 milioni di siti e 126 milioni di blog, secondo RoyalPingdom, i negozi come eBay e Amazon, le destinazioni come Wikipedia e Wikileaks, il motore di ricerca di Google e il social network di Facebook. Ma il protocollo internet, molto più antico, è usato anche per la posta elettronica (90mila miliardi di messaggi nel 2009), per lo scambio di file musicali, per vedere la televisione digitale, per telefonare con Skype, per giocare a World of Warcraft, per usare applicazioni con l'iPhone e l'iPad: cose che non si fanno con il web, ma che viaggiano su internet. E che nell'insieme crescono di più del web.
Per Anderson e Wolff, sta vincendo il capitalismo che fa profitti controllando l'innovazione contro l'apertura estrema e ingovernabile del web. Il che avviene perché la rete matura e la sua economia si concentra. Solo il 31% delle pagine viste sul web negli Usa, osserva Wolff citando dati di Compete, erano dei 10 siti più visitati: oggi sono il 75 per cento. La coda del famoso libro di Anderson è sempre lunga, ma la testa si è alzata enormemente.
Spiegare questo non è banale. Si può ipotizzare che il mondo delle applicazioni controllate da aziende come Apple e Facebook abbia un suo modello di business più forte e finisca con l'attrarre più risorse e crescere di più. Oppure si può dire, ricordando il tema lanciato dal Sole 24 Ore con il dibattito www.verità, che sul web non è chiaro come distinguere il grano dal loglio. Il web è una tecnologia orientata alla navigazione veloce ipertestuale più che all'approfondimento: il che apre spazi ad altre interfacce e modalità di utilizzo della rete che portino a concentrare l'attenzione e a svolgere funzioni più dedicate. L'esplosione di applicazioni sviluppate per piattaforme chiuse che le valorizzano più del web aperto è un fenomeno in svolgimento. Generano profitti per le piattaforme che le ospitano e speranze di guadagno per chi le sviluppa. Oltre che servizi potenzialmente più comodi per chi le usa. Per Wolff questo significa che la rete è maturata: «Dopo un lungo viaggio, stiamo arrivando a casa». Come per Ulisse, può darsi che si debba ripartire.
Se i giardini protetti restano spazi ritagliati nell'ambito della rete aperta, garantita dalla neutralità tecnologica di internet che pochissimi mettono in discussione nella rete fissa, l'innovazione dei piccoli sfidanti continuerà a erodere la sicurezza dei grandi incumbent. Se il principio della neutralità della rete fosse abbandonato, come può avvenire nella rete mobile, la dinamica dell'innovazione andrà alla velocità dettata dai grandi operatori. L'equilibrio tra innovazione e profitti è da qualche parte. Ma la sua definizione resterà, ancora per qualche tempo, in discussione.
E si può ironizzare sul fatto che, proprio ieri, sul sito - web - di Newser, campeggiava un banner di OurBlook, con lo slogan «Il giornalismo è morto»: la predilezione per le previsioni allarmanti è generalizzata e non fa prigionieri. In ogni caso, la provocazione di Anderson e Wolff ha una doppia valenza: per gli internettari, la prima parte del titolo attiva l'amigdala, la parte del cervello connessa alla paura, mentre la seconda lancia un po' di dopamina. Perché internet continua la sua corsa innovativa e la campagna per attribuire alla tecnologia TCP/IP il Nobel per la Pace, voluta proprio da Wired, versione italiana.
Ma gli autori osservano che il web sta perdendo quote di traffico rispetto alle altre forme di utilizzo della rete. Sebbene si tenda a dimenticarlo, il web non è che una delle modalità con le quali si usa internet. Il web è un complesso di tecnologie, servizi e contenuti, partiti più o meno 18 anni fa con l'ipertesto di Tim Berners-Lee e il browser di Marc Andreessen: circa 250 milioni di siti e 126 milioni di blog, secondo RoyalPingdom, i negozi come eBay e Amazon, le destinazioni come Wikipedia e Wikileaks, il motore di ricerca di Google e il social network di Facebook. Ma il protocollo internet, molto più antico, è usato anche per la posta elettronica (90mila miliardi di messaggi nel 2009), per lo scambio di file musicali, per vedere la televisione digitale, per telefonare con Skype, per giocare a World of Warcraft, per usare applicazioni con l'iPhone e l'iPad: cose che non si fanno con il web, ma che viaggiano su internet. E che nell'insieme crescono di più del web.
Per Anderson e Wolff, sta vincendo il capitalismo che fa profitti controllando l'innovazione contro l'apertura estrema e ingovernabile del web. Il che avviene perché la rete matura e la sua economia si concentra. Solo il 31% delle pagine viste sul web negli Usa, osserva Wolff citando dati di Compete, erano dei 10 siti più visitati: oggi sono il 75 per cento. La coda del famoso libro di Anderson è sempre lunga, ma la testa si è alzata enormemente.
Spiegare questo non è banale. Si può ipotizzare che il mondo delle applicazioni controllate da aziende come Apple e Facebook abbia un suo modello di business più forte e finisca con l'attrarre più risorse e crescere di più. Oppure si può dire, ricordando il tema lanciato dal Sole 24 Ore con il dibattito www.verità, che sul web non è chiaro come distinguere il grano dal loglio. Il web è una tecnologia orientata alla navigazione veloce ipertestuale più che all'approfondimento: il che apre spazi ad altre interfacce e modalità di utilizzo della rete che portino a concentrare l'attenzione e a svolgere funzioni più dedicate. L'esplosione di applicazioni sviluppate per piattaforme chiuse che le valorizzano più del web aperto è un fenomeno in svolgimento. Generano profitti per le piattaforme che le ospitano e speranze di guadagno per chi le sviluppa. Oltre che servizi potenzialmente più comodi per chi le usa. Per Wolff questo significa che la rete è maturata: «Dopo un lungo viaggio, stiamo arrivando a casa». Come per Ulisse, può darsi che si debba ripartire.
Se i giardini protetti restano spazi ritagliati nell'ambito della rete aperta, garantita dalla neutralità tecnologica di internet che pochissimi mettono in discussione nella rete fissa, l'innovazione dei piccoli sfidanti continuerà a erodere la sicurezza dei grandi incumbent. Se il principio della neutralità della rete fosse abbandonato, come può avvenire nella rete mobile, la dinamica dell'innovazione andrà alla velocità dettata dai grandi operatori. L'equilibrio tra innovazione e profitti è da qualche parte. Ma la sua definizione resterà, ancora per qualche tempo, in discussione.
«Il Sole 24 Ore» del 18 agosto 2010
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