Nel «cortile» dove s’incontrano credenti e non l’esperienza della bellezza può disporre a «pregare»
di Vittorio Possenti
La bellezza nutre profondamente le nostre vite. È un pane senza di cui non potremmo continuare ad esistere: alimenta, sorregge, dà vita e speranza. La verità, il bene, la bellezza e perfino Dio si gustano in modo analogo a come si gusta una vivanda: il significato del gustare qualcosa si estende dall’ambito sensibile a quello spirituale. Inoltre tale verbo include un terzo significato traslato; il sapere come intelligenza, senno, sapienza, per cui il sapiente è colui che conosce, che ha gustato il sapore dell’essere, nel suo aspetto gioioso ed in quello deludente («Ecce in pace amaritudo mea amarissima»: il salmista ha gustato l’amarezza dell’esistenza). Il brutto uccide, infligge tristezza e depressione. L’uomo, anche quello di oggi così frettoloso e poco contemplativo, ha una profonda sete di bellezza, spesso inappagata da quanto a prima vista ci assedia. Invece la bellezza fa uscire da noi stessi, comunica una scossa che ci trasporta oltre il quotidiano e risveglia, aprendo nuove dimensioni. Noi siamo nella gioia se viviamo in un mondo in cui la bellezza naturale e quella creata dall’uomo si congiungono (Roger Scruton). Un mondo in cui esistono cose belle è un mondo che rende possibile accettare di esistere, e sperare in una meta al di là di quanto appare. L’arte e la bellezza operano una correzione del mondo che noi avvertiamo come manchevole, imperfetto, transitorio, e perfino sfigurato. La glorificazione della bruttezza e del cattivo gusto che da tempo accompagna il nostro cammino di uomini postmoderni è un segnale di declino verso il disumano, verso ciò che sfigura l’uomo. Dobbiamo reagire a questa deriva educandoci esteticamente e moralmente. Se è vero che Dio nella città secolare appare lontano, diventa ancor più necessario inseguire il bello e farne qualcosa la cui fruizione ricordi a che cosa siamo destinati. Ci rammemori che nel sensibile è presente un richiamo all’oltre, all’aldilà del mondo, a ciò che ora appare in enigma ma che poi verrà: un tema che segna un filo rosso dai Greci a noi. Già nel Simposio platonico incontriamo la profonda affinità tra la bellezza e il divino: «Mentre il brutto discorda rispetto a tutto ciò che è divino, il bello è con esso d’accordo». Analogamente Edgar Allan Poe, per il quale l’arte e la poesia non sono un semplice apprezzamento della Bellezza che è di fronte a noi, ma uno sforzo quasi selvaggio di raggiungere la Bellezza che è al di sopra di noi. «Ispirati da un’estatica prescienza delle glorie oltre la tomba, lottiamo per raggiungere una parte di quella Amabilità i cui elementi stessi, forse, appartengono all’eternità sola. E così, quando per opera della Poesia ci troviamo sciolti in lacrime, non piangiamo allora per eccesso di piacere, ma per un certo dolore, petulante e impaziente, per la nostra incapacità di afferrare ora, interamente, qui sulla terra, una volta per sempre, quelle gioie divine ed estatiche, delle quali attraverso la poesia o attraverso la musica non attingiamo che visioni brevi e imprecise » (The Poetic Principle). A Poe fa eco Charles Baudelaire: «È esso, è questo immortale istinto del bello che ci fa considerare la terra ed i suoi spettacoli come un riflesso, come una corrispondenza del cielo » (L’Art romantique). Nella bellezza finita vi è dunque un presagio dell’infinito, un rinvio costante dell’una all’altro, di cui dice meravigliosamente una poesia di William Blake: «Vedere un mondo in un granello di sabbia / E il cielo in un fiore selvaggio / Tenere l’infinito nel palmo delle tue mani / E l’eternità in un’ora». L’arte può evangelizzare, operando nel cortile dei gentili. «Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di 'cortile dei gentili' dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero». Con queste parole Benedetto XVI apre grandi orizzonti e tocca un nodo sensibile della situazione spirituale di oggi. Il tempio antico doveva essere casa di preghiera per tutti i popoli, secondo la parola di Isaia ripresa da Gesù (Mc 11, 17), che sgomberò l’atrio del tempio da affaristi inopportuni in modo che i gentili proprio lì potessero pregare l’unico Dio. Altrettanto deve fare la Chiesa nel rispondere alla ricerca di Dio nella nostra epoca secolarizzata e scientistica: aprire cioè un nuovo versante di attenzione verso agnostici ed atei, per i quali Dio è lontano, estraneo, irrilevante. Ora nel cortile dei gentili largo spazio dovrebbe essere destinato ad attivare l’esperienza del bello che conduce ad ammirare e, distogliendo lo sguardo dal deforme e dal negativo, dispone a pregare. Secondo Tommaso d’Aquino la bellezza è denotata da tre caratteri: integritas, consonantia, claritas (integrità, armonia, chiarità). L’integrità dell’intuizione artistica, l’armonia o consonanza delle parti nel tutto, e la claritas che è il risplendere di una forma su una materia ben proporzionata sono sempre e dovunque gli immortali caratteri della Bellezza. Essi depongono in noi anche un appello all’integrità morale, a quella armonia delle parti che conduce all’equilibrio, a quella chiarità di luce che richiama l’irraggiamento del bene.
Da Platone a Poe, da Baudelaire a Blake, non si contano gli esempi di quanti hanno colto il nesso profondo tra la gioia estetica e la forza morale
«Avvenire» del 29 settembre 2010
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