di Andrea Gavosto
La protesta dei precari e il nuovo sistema di formazione iniziale degli insegnanti, presentato recentemente dal ministro Gelmini, propongono due interrogativi sul futuro a lungo termine della scuola italiana. Come riportare il numero di insegnanti a misura delle effettive dimensioni della popolazione scolastica? Come garantire il loro ricambio generazionale?
Negli ultimi 30 anni, l'Italia non ha trovato il coraggio di ridimensionare il proprio corpo docente, nonostante il numero di studenti che entrano ogni anno nella scuola si sia dimezzato. Risultato: pur considerando le specificità del nostro sistema d'istruzione (come l'integrazione dei disabili) oggi il numero degli insegnanti per alunno è nel nostro paese di un terzo superiore alla media Ocse nelle primarie e nelle medie, del 15% nelle superiori. L'eccesso di docenti non ha del resto portato evidenti benefici in termini di bontà degli apprendimenti: è comprensibile che il governo abbia fortemente rallentato gli ingressi nella scuola per liberare risorse da destinare - almeno secondo le dichiarazioni - al miglioramento della qualità.
A scapito, però, dei 229mila precari delle cosiddette "graduatorie a esaurimento", che vedono ridursi le loro legittime aspettative di stabilità, accumulate in anni di formazione e di lavoro in aula, alimentate dalla promessa implicita (e talvolta esplicita) di molti governi che fosse sufficiente "mettersi in fila" e aspettare in media dieci anni per passare in ruolo. Lo scontro è, dunque, fra due esigenze, entrambe fondate.
Ma gli insegnanti italiani sono anche troppo vecchi: la loro età media è, infatti, la più elevata al mondo. Perché abbiamo moltissimi over 50, ma anche perché quelli con meno di 30 anni praticamente non esistono. Sono l'1,4% nella primaria (media Ocse 15,3%), scendono addirittura allo 0,5% nelle medie e nelle superiori (media Ocse rispettivamente 12% e 10,5%).
Supponiamo che il governo - come annunciato - trovi le risorse per fare entrare in ruolo gli attuali 230mila precari, la cui età media è 38 anni. Tutto è bene quel che finisce bene? Purtroppo, no. Con gli attuali trend demografici, ciò significherebbe precludere ancora per 15 anni almeno - una generazione - l'accesso alla scuola alle nuove leve che desiderano intraprendere la professione docente.
Sarebbe bene, invece, avere insegnanti più giovani. Perché la minore differenza d'età e la maggiore familiarità con le nuove tecnologie della conoscenza li faciliterebbe presumibilmente nel compito d'interpretare le esigenze di apprendimento dei loro allievi.
Perché ragionevolmente avrebbero motivazioni elevate, specie se venissero introdotte significative progressioni di carriera e incentivi alla qualità dell'insegnamento. Perché la loro qualità professionale potrebbe essere garantita da una formazione iniziale più rigorosa e selettiva: proprio come si propone di essere quella appena proposta che, rebus sic stantibus, rischia invece di rimanere un contenitore vuoto. Se l'accesso delle nuove leve fosse impedito per altri 15 anni, chi avrebbe ancora il coraggio d'intraprendere la professione di insegnante?
In conclusione, se il corpo docente va ridimensionato e insieme ringiovanito, dalla situazione presente è difficile uscire senza traumi sociali. Realisticamente, il punto è come attenuarli e ripartirli nel modo più equo possibile, realizzando i due obiettivi ed evitando di concentrare sui più giovani (e meno tutelati) i costi di un'operazione comunque non indolore.
Una soluzione praticabile si basa su due passaggi. Sappiamo che, per ragioni anagrafiche, nel prossimo decennio circa 300mila insegnanti andranno in pensione, come confermano anche le stime governative. Il processo andrebbe accelerato con incentivi all'uscita e pre-pensionamenti: nel giro di pochi anni, il numero d'insegnanti potrebbe ritornare a un livello fisiologico, aprendo lo spazio per nuovi ingressi, in particolare in quelle aree disciplinari (matematica, ad esempio) oggi carenti, ma essenziali per il futuro dei ragazzi e del paese. Il costo economico per il sistema pensionistico sarebbe significativo, ma probabilmente inferiore a quello sociale del mancato ricambio generazionale.
Il secondo passaggio è abolire le graduatorie, che regolano l'accesso all'insegnamento per anzianità, passando alla chiamata diretta da parte delle scuole fra gli iscritti a un albo professionale. La scelta fra gli attuali precari e i giovani aspiranti docenti che hanno completato la formazione iniziale andrebbe fatta sulla base delle qualificazioni e capacità, non solo dell'anzianità: i migliori fra i precari - sebbene non tutti - vedrebbero premiate le loro aspettative. Ma, al tempo stesso, non si chiuderebbero le porte della scuola a un'intera generazione di neolaureati.
Negli ultimi 30 anni, l'Italia non ha trovato il coraggio di ridimensionare il proprio corpo docente, nonostante il numero di studenti che entrano ogni anno nella scuola si sia dimezzato. Risultato: pur considerando le specificità del nostro sistema d'istruzione (come l'integrazione dei disabili) oggi il numero degli insegnanti per alunno è nel nostro paese di un terzo superiore alla media Ocse nelle primarie e nelle medie, del 15% nelle superiori. L'eccesso di docenti non ha del resto portato evidenti benefici in termini di bontà degli apprendimenti: è comprensibile che il governo abbia fortemente rallentato gli ingressi nella scuola per liberare risorse da destinare - almeno secondo le dichiarazioni - al miglioramento della qualità.
A scapito, però, dei 229mila precari delle cosiddette "graduatorie a esaurimento", che vedono ridursi le loro legittime aspettative di stabilità, accumulate in anni di formazione e di lavoro in aula, alimentate dalla promessa implicita (e talvolta esplicita) di molti governi che fosse sufficiente "mettersi in fila" e aspettare in media dieci anni per passare in ruolo. Lo scontro è, dunque, fra due esigenze, entrambe fondate.
Ma gli insegnanti italiani sono anche troppo vecchi: la loro età media è, infatti, la più elevata al mondo. Perché abbiamo moltissimi over 50, ma anche perché quelli con meno di 30 anni praticamente non esistono. Sono l'1,4% nella primaria (media Ocse 15,3%), scendono addirittura allo 0,5% nelle medie e nelle superiori (media Ocse rispettivamente 12% e 10,5%).
Supponiamo che il governo - come annunciato - trovi le risorse per fare entrare in ruolo gli attuali 230mila precari, la cui età media è 38 anni. Tutto è bene quel che finisce bene? Purtroppo, no. Con gli attuali trend demografici, ciò significherebbe precludere ancora per 15 anni almeno - una generazione - l'accesso alla scuola alle nuove leve che desiderano intraprendere la professione docente.
Sarebbe bene, invece, avere insegnanti più giovani. Perché la minore differenza d'età e la maggiore familiarità con le nuove tecnologie della conoscenza li faciliterebbe presumibilmente nel compito d'interpretare le esigenze di apprendimento dei loro allievi.
Perché ragionevolmente avrebbero motivazioni elevate, specie se venissero introdotte significative progressioni di carriera e incentivi alla qualità dell'insegnamento. Perché la loro qualità professionale potrebbe essere garantita da una formazione iniziale più rigorosa e selettiva: proprio come si propone di essere quella appena proposta che, rebus sic stantibus, rischia invece di rimanere un contenitore vuoto. Se l'accesso delle nuove leve fosse impedito per altri 15 anni, chi avrebbe ancora il coraggio d'intraprendere la professione di insegnante?
In conclusione, se il corpo docente va ridimensionato e insieme ringiovanito, dalla situazione presente è difficile uscire senza traumi sociali. Realisticamente, il punto è come attenuarli e ripartirli nel modo più equo possibile, realizzando i due obiettivi ed evitando di concentrare sui più giovani (e meno tutelati) i costi di un'operazione comunque non indolore.
Una soluzione praticabile si basa su due passaggi. Sappiamo che, per ragioni anagrafiche, nel prossimo decennio circa 300mila insegnanti andranno in pensione, come confermano anche le stime governative. Il processo andrebbe accelerato con incentivi all'uscita e pre-pensionamenti: nel giro di pochi anni, il numero d'insegnanti potrebbe ritornare a un livello fisiologico, aprendo lo spazio per nuovi ingressi, in particolare in quelle aree disciplinari (matematica, ad esempio) oggi carenti, ma essenziali per il futuro dei ragazzi e del paese. Il costo economico per il sistema pensionistico sarebbe significativo, ma probabilmente inferiore a quello sociale del mancato ricambio generazionale.
Il secondo passaggio è abolire le graduatorie, che regolano l'accesso all'insegnamento per anzianità, passando alla chiamata diretta da parte delle scuole fra gli iscritti a un albo professionale. La scelta fra gli attuali precari e i giovani aspiranti docenti che hanno completato la formazione iniziale andrebbe fatta sulla base delle qualificazioni e capacità, non solo dell'anzianità: i migliori fra i precari - sebbene non tutti - vedrebbero premiate le loro aspettative. Ma, al tempo stesso, non si chiuderebbero le porte della scuola a un'intera generazione di neolaureati.
«Il Sole 24 Ore» del 21 settembre 2010
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