di Giuseppe Conte
Non ho mai curato o posseduto un giardino, ma ne ho attraversato tanti, e sempre con diverse emozioni, passando dalla meraviglia estatica al senso di pace profonda, dall’abbandono quasi ipnotico al desiderio di riprodurre nel linguaggio tutti quei colori e quelle forme senza voce. Ci sono giardini che si propongono come una limpida, geometrica architettura vegetale.
Altri che imitano con una forza sinfonica il paesaggio. Ma in entrambi i casi, i giardini occidentali sono quasi impensabili senza statue e decorazioni che integrino nello spazio naturale l’immagine dell’uomo. In certi giardini orientali, e penso soprattutto a quelli che mi è capitato di visitare in Iran, mi ha colpito il rapporto più stretto con l’acqua che scorre: non solo fontane, ma canali e ruscelli. E mi ha colpito l’assoluta mancanza di sculture antropomorfe. Lì un giardino è innanzitutto un ricordo dell’oasi, e specchia il tempo che passa, come le carovane nel deserto, e l’approdo mistico all’eternità. Frutto di arte in se stesso, il giardino ispira pittori e poeti da sempre. Vecchio, provato dai lutti familiari, Claude Monet rivolge l’occhio, quell’occhio formidabile che era la sintesi di tutto il suo essere, alle ninfee del giardino della sua casa di Giverny.
E le dipinge con colori ora vividi ora appannati, in un movimento lento e inarrestabile. Torbide e luminose, come spesso le nostre anime. Giuseppe Ungaretti, anche lui vecchio e ferito dalla vita, dovette vedere con lo stesso spirito la mimosa rifiorita in un giardino a febbraio che tornava a inquadrarsi nella sua finestra, e a ricordargli che la morte non ha regno che sopra l’apparenza.
Troviamo giardini magici nel Tasso, giardini allegorici in Blake.
La letteratura, quando parla d’amore, di conoscenza, di Dio, ha il giardino nel suo Dna. Pensiamo al Cantico dei Cantici, dove ricorrono immagini come queste: «Sei un orto chiuso, sorella mia, sposa,/ sorgente chiusa, fonte sigillata,/ boschetto di melograni i tuoi germogli [….] Fontana di giardini,/ zampillo d’acqua viva,/ limpido ruscello che viene dal Libano». Immagini che sono alle fondamenta in egual misura di tanta poesia d’Occidente e di Oriente. Credo che le nostre città congestionate dal traffico e da un oramai violento culto di tutto ciò che è merce e materia dovrebbero ripensare e rivalorizzare i propri giardini. Come oasi di arte, di quiete, di bellezza, di meditazione, di contatto con il continuo miracolo della vita e della morte. Il giardino è il simbolo di un Eden perduto, che niente potrà ridare all’uomo.
Nondimeno, l’uomo tende a riprodurlo, e a rifarne un momento di lievità e di innocenza. Lo riproducevano i monaci nei chiostri dei loro conventi, gli islamici nel cortile in mezzo alle loro case. In un giardino, si respira non soltanto l’ossigeno del verde e il profumo delle corolle: si respira il soffio di un mistero. Che qualcuno può chiamare il soffio di Dio. Per San Giovanni della Croce Dio stesso è un giardino, dove l’anima, «la sposa», trova infine la sua dimora. E il camposanto non è essenzialmente un giardino? Certe notti serene a me è sembrato un giardino anche il cielo tutto pieno di stelle.
Altri che imitano con una forza sinfonica il paesaggio. Ma in entrambi i casi, i giardini occidentali sono quasi impensabili senza statue e decorazioni che integrino nello spazio naturale l’immagine dell’uomo. In certi giardini orientali, e penso soprattutto a quelli che mi è capitato di visitare in Iran, mi ha colpito il rapporto più stretto con l’acqua che scorre: non solo fontane, ma canali e ruscelli. E mi ha colpito l’assoluta mancanza di sculture antropomorfe. Lì un giardino è innanzitutto un ricordo dell’oasi, e specchia il tempo che passa, come le carovane nel deserto, e l’approdo mistico all’eternità. Frutto di arte in se stesso, il giardino ispira pittori e poeti da sempre. Vecchio, provato dai lutti familiari, Claude Monet rivolge l’occhio, quell’occhio formidabile che era la sintesi di tutto il suo essere, alle ninfee del giardino della sua casa di Giverny.
E le dipinge con colori ora vividi ora appannati, in un movimento lento e inarrestabile. Torbide e luminose, come spesso le nostre anime. Giuseppe Ungaretti, anche lui vecchio e ferito dalla vita, dovette vedere con lo stesso spirito la mimosa rifiorita in un giardino a febbraio che tornava a inquadrarsi nella sua finestra, e a ricordargli che la morte non ha regno che sopra l’apparenza.
Troviamo giardini magici nel Tasso, giardini allegorici in Blake.
La letteratura, quando parla d’amore, di conoscenza, di Dio, ha il giardino nel suo Dna. Pensiamo al Cantico dei Cantici, dove ricorrono immagini come queste: «Sei un orto chiuso, sorella mia, sposa,/ sorgente chiusa, fonte sigillata,/ boschetto di melograni i tuoi germogli [….] Fontana di giardini,/ zampillo d’acqua viva,/ limpido ruscello che viene dal Libano». Immagini che sono alle fondamenta in egual misura di tanta poesia d’Occidente e di Oriente. Credo che le nostre città congestionate dal traffico e da un oramai violento culto di tutto ciò che è merce e materia dovrebbero ripensare e rivalorizzare i propri giardini. Come oasi di arte, di quiete, di bellezza, di meditazione, di contatto con il continuo miracolo della vita e della morte. Il giardino è il simbolo di un Eden perduto, che niente potrà ridare all’uomo.
Nondimeno, l’uomo tende a riprodurlo, e a rifarne un momento di lievità e di innocenza. Lo riproducevano i monaci nei chiostri dei loro conventi, gli islamici nel cortile in mezzo alle loro case. In un giardino, si respira non soltanto l’ossigeno del verde e il profumo delle corolle: si respira il soffio di un mistero. Che qualcuno può chiamare il soffio di Dio. Per San Giovanni della Croce Dio stesso è un giardino, dove l’anima, «la sposa», trova infine la sua dimora. E il camposanto non è essenzialmente un giardino? Certe notti serene a me è sembrato un giardino anche il cielo tutto pieno di stelle.
«Avvenire» del 12 settembre 2010
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