Un testo fondamentale per capire le ragioni della politica. E quelle della Chiesa
di Piero Ignazi
Dopo aver volteggiato con ironia flaianesca sui grandi vizi e le piccole virtù del mondo politico e culturale di noi "post-italiani" Edmondo Berselli ci lascia in eredità un saggio ("L'economia giusta", in uscita con Einaudi) di grande profondità su origini e possibili esiti della crisi globale. È un saggio dove Berselli "mette in ordine" le riflessioni sviluppate in più di vent'anni di frequentazione, in varie vesti, delle stanze del Mulino. Oggetto della sua critica tagliente e senza sconti è il neoliberismo. Fin dalle pagine iniziali si fustigano gli entusiastici sostenitori di quel modello economico e sociale ivi compresi gli apologeti convertiti, dal blairismo deteriore al Neue Mitte schroederiano fino al confusionismo mentale della sinistra italiana. Ce ne hanno raccontate di favole, ma ora il re è nudo. A incominciare dall'idea che abbassando le tasse, riducendo i salari reali, tagliando il welfare, deregolando e lasciando briglie sciolte alla finanza a "far soldi con i soldi", ci fosse una bengodi dietro l'angolo. E invece era una colossale presa in giro. Con un finale amarissimo perché mentre qualcuno continua a guadagnarci molti, moltissimi hanno perso posizioni, che non sono più recuperabili. Questo è il nodo: la distribuzione del reddito si è spaventosamente squilibrata, spinta dalla hybris individualista e dallo svaporamento dell'etica e della responsabilità borghese.
"È stata una tensione fortissima nella distribuzione del reddito a provocare la torsione che ha strappato con violenza inusitata norme e abitudini", scrive Berselli. Quando oggi la retribuzione di un dirigente arriva ad essere 400 (quattrocento!) volte il salario medio di un operaio mentre negli anni Settanta era al massimo 30-40 volte superiore, ciò significa che le basi sulle quali si è costruita la prosperità dell'Occidente - l'innalzamento progressivo dei livelli di reddito delle fasce più basse e il sentimento di far parte tutti di una stessa società - sono saltate. Eppure, se si guarda alle radici culturali e alla storia recente dell'Europa si intravede una via d'uscita. Lungo due sentieri. Diversi ma intrecciati. Uno ritorna sulle virtù del modello di capitalismo "renano" contrapposto a quello "anglosassone". Riprendendo un celebre saggio di Michel Albert pubblicato dal Mulino nel lontano 1991 - e non a caso commentato da Romano Prodi nello stesso numero della rivista - Berselli ricorda i vantaggi di un'economia pensata sulla produzione e sul lungo periodo e non sulla "nevrosi finanziaria" della realizzazione di profitti a breve termine; una economia di integrazione virtuosa tra mercato e welfare, e di regole certe, a presidio delle quali sta, incontestata e riconosciuta, la potestà statale. Mutatis mutandis sono i pilastri dell'economia sociale di mercato, sui quali tuttora poggia il sistema tedesco. Quindi, conclude Berselli, una alternativa c'è. Ed è vieppiù rafforzata se si imbocca il secondo percorso, tanto più persuasivo in quanto proviene da lidi lontani dal discorso politico-economico contingente: è quello indicato dalle due più recenti encicliche papali sulla "questione sociale", come si sarebbe detto un tempo. La "Centesimus Annus" di Karol Wojtyla e, soprattutto, la "Caritas in veritate" di Joseph Ratzinger rappresentano un atto di accusa incalzante all'economia neoliberista (e, implicitamente, all'afasia socialdemocratica).
Nell'enciclica di Benedetto XVI si legge infatti che "la Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l'importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, (...) Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell'equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare". L'invocazione della dignità umana, della "giusta mercede", della solidarietà e addirittura del "capitale sociale" suonano come una condanna senza scampo della protervia dei tanti Gekko della finanzia ipercreativa e dell'inettitudine dei pallidi dirigenti di una sinistra incapace di articolare un progetto alternativo coerente. Leggendo le pagine così lucide e nette di questo saggio postumo forse qualcuno potrà scuotersi dal torpore intellettuale e politico che lo ha portato prima ad essere succube dell'egemonia neoliberista e neoconservatrice, e ora a balbettare di fronte alla disinvoltura populista. E, magari, si ricorderà delle virtù del modello renano che contempera giustizia sociale e responsabilità collettiva dell'impresa.
"È stata una tensione fortissima nella distribuzione del reddito a provocare la torsione che ha strappato con violenza inusitata norme e abitudini", scrive Berselli. Quando oggi la retribuzione di un dirigente arriva ad essere 400 (quattrocento!) volte il salario medio di un operaio mentre negli anni Settanta era al massimo 30-40 volte superiore, ciò significa che le basi sulle quali si è costruita la prosperità dell'Occidente - l'innalzamento progressivo dei livelli di reddito delle fasce più basse e il sentimento di far parte tutti di una stessa società - sono saltate. Eppure, se si guarda alle radici culturali e alla storia recente dell'Europa si intravede una via d'uscita. Lungo due sentieri. Diversi ma intrecciati. Uno ritorna sulle virtù del modello di capitalismo "renano" contrapposto a quello "anglosassone". Riprendendo un celebre saggio di Michel Albert pubblicato dal Mulino nel lontano 1991 - e non a caso commentato da Romano Prodi nello stesso numero della rivista - Berselli ricorda i vantaggi di un'economia pensata sulla produzione e sul lungo periodo e non sulla "nevrosi finanziaria" della realizzazione di profitti a breve termine; una economia di integrazione virtuosa tra mercato e welfare, e di regole certe, a presidio delle quali sta, incontestata e riconosciuta, la potestà statale. Mutatis mutandis sono i pilastri dell'economia sociale di mercato, sui quali tuttora poggia il sistema tedesco. Quindi, conclude Berselli, una alternativa c'è. Ed è vieppiù rafforzata se si imbocca il secondo percorso, tanto più persuasivo in quanto proviene da lidi lontani dal discorso politico-economico contingente: è quello indicato dalle due più recenti encicliche papali sulla "questione sociale", come si sarebbe detto un tempo. La "Centesimus Annus" di Karol Wojtyla e, soprattutto, la "Caritas in veritate" di Joseph Ratzinger rappresentano un atto di accusa incalzante all'economia neoliberista (e, implicitamente, all'afasia socialdemocratica).
Nell'enciclica di Benedetto XVI si legge infatti che "la Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l'importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, (...) Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell'equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare". L'invocazione della dignità umana, della "giusta mercede", della solidarietà e addirittura del "capitale sociale" suonano come una condanna senza scampo della protervia dei tanti Gekko della finanzia ipercreativa e dell'inettitudine dei pallidi dirigenti di una sinistra incapace di articolare un progetto alternativo coerente. Leggendo le pagine così lucide e nette di questo saggio postumo forse qualcuno potrà scuotersi dal torpore intellettuale e politico che lo ha portato prima ad essere succube dell'egemonia neoliberista e neoconservatrice, e ora a balbettare di fronte alla disinvoltura populista. E, magari, si ricorderà delle virtù del modello renano che contempera giustizia sociale e responsabilità collettiva dell'impresa.
«L'Espresso» del 10 settembre 2010
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