di Enzo bianchi
Un’interessante discussione sui barbari ha avuto luogo tra Alessandro Baricco ed Eugenio Scalfari sulle colonne di Repubblica nei giorni scorsi, quasi in concomitanza con gli interrogativi e le polemiche suscitati dalla politica francese di espulsione dei rom e con l’imbarazzante visita di un capo di Stato nordafricano a Roma. L’intersecarsi di questi elementi - un’arguta riflessione che potrebbe restare sul piano della dialettica intellettuale, una drastica misura di polizia che accredita l’equazione immigrati-delinquenti e una preoccupante abdicazione della difesa dei diritti umani di fronte agli interessi economici - mi suggerisce di tornare ad alcune considerazioni che da tempo cerco di approfondire sulla pericolosa china del ritorno alla barbarie che la nostra società ha imboccato da tempo. Sì, la barbarie devasta già il presente.
L’identificazione che Baricco suggerisce dei barbari, presenti e futuri, con quanti cercano il senso in superficie anziché in profondità, e non più con coloro che parlano una lingua incomprensibile, è indubbiamente una trovata stimolante, che tra l’altro conferisce un’accezione positiva - o almeno neutra - al termine barbaro, ma non mi pare regga a un esame più approfondito. E questo non solo per i rilievi mossi da Scalfari, che mette in luce come anche questo muoversi leggeri sulla superficie delle cose sia reso possibile dalla conoscenza di quanto si trova in profondità.
Ritengo infatti che la barbarie - e quando si usa questo sostantivo anziché l’aggettivo «barbaro» l’accezione torna univocamente negativa - non nasca e non emerga dalla sua superficialità, bensì proprio dal lasciar venire in superficie istinti profondi che abitano il cuore umano. Del resto, chi abbia una minima conoscenza del lavoro dei contadini sa bene che quanto cresce sulla superficie così come i frutti che si possono raccogliere sono imprescindibilmente legati con quanto avviene in profondità, con il nutrimento che le radici traggono dal terreno e con il paziente lavoro compiuto sul terreno stesso.
Così gli atteggiamenti esterni, anche quelli apparentemente più superficiali, nascono dal profondo e in questo senso la deriva cui assistiamo appare ancor più drammatica. Se infatti si trattasse solo di eventi epidermici, avrebbero vita effimera e non lascerebbero tracce nel sentimento comune. Invece è come se dall’interiore degli esseri umani fuoriuscissero le infezioni a lungo covate. Cosa è venuto meno, nei singoli e nella collettività, perché alcuni atteggiamenti di cui un tempo ci si vergognava vengano oggi non solo assunti come possibili, ma addirittura additati come esemplari? Perché sentimenti viscerali che eravamo consapevoli di dover domare ora vengono non solo tollerati ma sovente incoraggiati? Com’è possibile fingere di ignorare che nelle società non imbarbarite esistono diritti delle persone in quanto tali, indipendentemente dal loro essere cittadini di un determinato Stato? Cosa è accaduto perché a livello di istituzioni come di mezzi d’informazione si torni a contabilizzare le statistiche della criminalità suddivise per nazionalità o etnie? Il venir meno delle ideologie sembra aver trascinato con sé anche la morte di ogni ideale, la crisi delle motivazioni dell’agire personale e del progettare comune la convivenza: l’interesse particolare, la difesa della tribù, il vantaggio a breve termine, il successo a scapito della giustizia sembrano dettare legge, e ogni appello al senso di responsabilità verso le generazioni future o al debito verso quelle passate è irriso come dabbenaggine.
Quando, ormai alcuni anni fa, additavo come autentica emergenza non la sicurezza o l’immigrazione, ma piuttosto la sopravvivenza della nostra stessa civiltà, in via di smarrimento, non mi auguravo certo di essere confermato nei miei timori. Eppure, non ci si rende conto che ferendo la dignità di una persona - povero, immigrato, debole o straniero che sia - si ferisce l’intera condizione umana, così come, specularmente, il salvare una sola vita significa mettere in salvo l’umanità. È vero che i problemi complessi suscitati dalla globalizzazione non possono essere affrontati e risolti dai singoli e nemmeno da uno Stato da solo, ma ciò di cui c’è bisogno non è una semplice alleanza strategica, ma un soprassalto di consapevolezza del nostro esistere solo in rapporto con gli altri. Perché la barbarie inizia quando alle persone manca il senso, l’orientamento, il significato delle loro esistenze: l’insignificanza della vita, del lavoro, della convivenza non traccia cammino ma genera barbarie.
Solo se ciascuno riscopre in sé e nel suo «prossimo» un vicino che non ci è dato di scegliere, la profonda natura di essere umano, solo se si intraprende quotidianamente un’opera di autentica umanizzazione di se stessi e dell’altro, solo se si aiuta l’essere umano a essere tale sarà possibile condividere un futuro migliore. Il «noi» senza «gli altri» è totalmente depersonalizzato e l’umanizzazione non è possibile se non si rinuncia all’alternativa individuo-società attraverso il progetto di una communitas in cui la responsabilità è innanzitutto responsabilità verso l’altro. Responsabilità che nasce dall’atto umano del credere: nell’altro, nella terra, nel domani.
Ed è dal profondo, dal cuore dell’uomo che bisogna ripartire, perché senza vita interiore, senza spessore etico nessuna pianta potrà sopravvivere: né il fiore leggiadro che rallegra gli occhi e profuma la vita, né l’albero rigoglioso che nutre con i suoi frutti abbondanti. Da lì, dall’interiorità di essere umani degni di tal nome potrà trarre linfa anche una rinnovata coesione della nostra società: una coesione non ideologica, ma tesa all’ideale di giustizia, uguaglianza, solidarietà sarà in grado di raccogliere la sfida della post-modernità e di leggere e interpretare i fenomeni epocali cui ci troviamo confrontati in modo «sensato», cioè orientato a una spiegazione che è già principio di soluzione. Per tutti ci sono solo segmenti di senso nello spazio della conoscenza; per alcuni e nello spazio della convinzione ci può essere anche il senso dei sensi o il senso ultimo. Grazie alle sorgenti profonde dell’umanità sarà possibile fermare la barbarie che avanza come il deserto.
L’identificazione che Baricco suggerisce dei barbari, presenti e futuri, con quanti cercano il senso in superficie anziché in profondità, e non più con coloro che parlano una lingua incomprensibile, è indubbiamente una trovata stimolante, che tra l’altro conferisce un’accezione positiva - o almeno neutra - al termine barbaro, ma non mi pare regga a un esame più approfondito. E questo non solo per i rilievi mossi da Scalfari, che mette in luce come anche questo muoversi leggeri sulla superficie delle cose sia reso possibile dalla conoscenza di quanto si trova in profondità.
Ritengo infatti che la barbarie - e quando si usa questo sostantivo anziché l’aggettivo «barbaro» l’accezione torna univocamente negativa - non nasca e non emerga dalla sua superficialità, bensì proprio dal lasciar venire in superficie istinti profondi che abitano il cuore umano. Del resto, chi abbia una minima conoscenza del lavoro dei contadini sa bene che quanto cresce sulla superficie così come i frutti che si possono raccogliere sono imprescindibilmente legati con quanto avviene in profondità, con il nutrimento che le radici traggono dal terreno e con il paziente lavoro compiuto sul terreno stesso.
Così gli atteggiamenti esterni, anche quelli apparentemente più superficiali, nascono dal profondo e in questo senso la deriva cui assistiamo appare ancor più drammatica. Se infatti si trattasse solo di eventi epidermici, avrebbero vita effimera e non lascerebbero tracce nel sentimento comune. Invece è come se dall’interiore degli esseri umani fuoriuscissero le infezioni a lungo covate. Cosa è venuto meno, nei singoli e nella collettività, perché alcuni atteggiamenti di cui un tempo ci si vergognava vengano oggi non solo assunti come possibili, ma addirittura additati come esemplari? Perché sentimenti viscerali che eravamo consapevoli di dover domare ora vengono non solo tollerati ma sovente incoraggiati? Com’è possibile fingere di ignorare che nelle società non imbarbarite esistono diritti delle persone in quanto tali, indipendentemente dal loro essere cittadini di un determinato Stato? Cosa è accaduto perché a livello di istituzioni come di mezzi d’informazione si torni a contabilizzare le statistiche della criminalità suddivise per nazionalità o etnie? Il venir meno delle ideologie sembra aver trascinato con sé anche la morte di ogni ideale, la crisi delle motivazioni dell’agire personale e del progettare comune la convivenza: l’interesse particolare, la difesa della tribù, il vantaggio a breve termine, il successo a scapito della giustizia sembrano dettare legge, e ogni appello al senso di responsabilità verso le generazioni future o al debito verso quelle passate è irriso come dabbenaggine.
Quando, ormai alcuni anni fa, additavo come autentica emergenza non la sicurezza o l’immigrazione, ma piuttosto la sopravvivenza della nostra stessa civiltà, in via di smarrimento, non mi auguravo certo di essere confermato nei miei timori. Eppure, non ci si rende conto che ferendo la dignità di una persona - povero, immigrato, debole o straniero che sia - si ferisce l’intera condizione umana, così come, specularmente, il salvare una sola vita significa mettere in salvo l’umanità. È vero che i problemi complessi suscitati dalla globalizzazione non possono essere affrontati e risolti dai singoli e nemmeno da uno Stato da solo, ma ciò di cui c’è bisogno non è una semplice alleanza strategica, ma un soprassalto di consapevolezza del nostro esistere solo in rapporto con gli altri. Perché la barbarie inizia quando alle persone manca il senso, l’orientamento, il significato delle loro esistenze: l’insignificanza della vita, del lavoro, della convivenza non traccia cammino ma genera barbarie.
Solo se ciascuno riscopre in sé e nel suo «prossimo» un vicino che non ci è dato di scegliere, la profonda natura di essere umano, solo se si intraprende quotidianamente un’opera di autentica umanizzazione di se stessi e dell’altro, solo se si aiuta l’essere umano a essere tale sarà possibile condividere un futuro migliore. Il «noi» senza «gli altri» è totalmente depersonalizzato e l’umanizzazione non è possibile se non si rinuncia all’alternativa individuo-società attraverso il progetto di una communitas in cui la responsabilità è innanzitutto responsabilità verso l’altro. Responsabilità che nasce dall’atto umano del credere: nell’altro, nella terra, nel domani.
Ed è dal profondo, dal cuore dell’uomo che bisogna ripartire, perché senza vita interiore, senza spessore etico nessuna pianta potrà sopravvivere: né il fiore leggiadro che rallegra gli occhi e profuma la vita, né l’albero rigoglioso che nutre con i suoi frutti abbondanti. Da lì, dall’interiorità di essere umani degni di tal nome potrà trarre linfa anche una rinnovata coesione della nostra società: una coesione non ideologica, ma tesa all’ideale di giustizia, uguaglianza, solidarietà sarà in grado di raccogliere la sfida della post-modernità e di leggere e interpretare i fenomeni epocali cui ci troviamo confrontati in modo «sensato», cioè orientato a una spiegazione che è già principio di soluzione. Per tutti ci sono solo segmenti di senso nello spazio della conoscenza; per alcuni e nello spazio della convinzione ci può essere anche il senso dei sensi o il senso ultimo. Grazie alle sorgenti profonde dell’umanità sarà possibile fermare la barbarie che avanza come il deserto.
«La Stampa» del 5 settembre 2010
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