L'Italia che fa sempre meno figli
di Gian Carlo Blangiardo
Il dato ufficiale più recente parla di 60 milioni e 402mila residenti a fine marzo 2010, mentre il censimento del 2001 ne conteggiava 'solo' 57 milioni.
Come interpretare allora, alla luce della forte crescita osservata in questi anni, le previsioni di stazionarietà o persino di regresso demografico che abitualmente ricorrono negli scenari prospettati per il futuro? La risposta è semplice: il forte contributo netto delle migrazioni dall’estero ha fatto momentaneamente accantonare – senza peraltro fornire una cura efficace e risolutiva – la debolezza di una dinamica naturale che già oggi è eloquentemente documentata dal sorpasso delle morti sulle nascite: un surplus di circa 20mila unità (secondo i dati del 2009) che potrebbe persino arrivare a 300mila nell’arco di qualche decennio.
Non possiamo dimenticare che da più di trent’anni si afferma da più parti – e si argomenta con dati oggettivi e inconfutabili – l’incapacità della popolazione italiana di garantirsi un adeguato ricambio generazionale. Ed è anche bene ricordare che sono al pari di vecchia data sia l’analisi delle cause che stanno alla base dei ritardi e delle cadute nelle scelte riproduttive degli italiani, sia l’identificazione delle terapie con cui si potrebbe guarire (o almeno attenuare) il malessere demografico di un Paese in cui le statistiche dicono che si desiderano in media 2,2 figli per coppia, ma se ne fanno solo 1,4.
Così, anche senza dover scomodare il catastrofismo di coloro che – forse più per provocazione che per effetto di una visione realistica – vanno ventilando la prospettiva di «solo dieci milioni di italiani che vedranno la prossima fine secolo» (come ha fatto il Wall Street Journal), basta prendere in esame le più recenti valutazioni Istat per rendersi conto di come, in assenza di segnali di ripresa della fecondità, il nostro Paese è destinato a scendere a 56 milioni di residenti nel 2051. E ciò pur in presenza di consistenti apporti netti sul fronte delle migrazioni internazionali, tali da favorire una parallela crescita della componente straniera sino a circa 9 milioni (equivalenti a 16 stranieri ogni 100 residenti).
Ma a ben vedere non è solo il calo numerico degli abitanti ad alimentare le preoccupazioni per l’inverno demografico che ci attende, sono piuttosto le modalità con cui tale calo andrà concretizzandosi. Accettare passivamente un’ulteriore discesa dalle circa 600mila nascite annue di oggi alle 400mila che vengono prospettate dai modelli di previsione – qualora non dovesse accrescersi il livello di fecondità – significa rinunciare a investire adeguatamente nel capitale umano, e quindi nel futuro del Paese. D’altra parte, teorizzare che il sostegno alla natalità offerto dall’immigrazione sia sufficiente ad arrestare, o persino ad invertire, le tendenze in atto non fa che alimentare pericolose illusioni che rischiano di impedire, o quanto meno ritardare, le necessarie azioni di intervento.
Se è vero che il contributo delle nascite provenienti dalla popolazione straniera resta importante e merita piena valorizzazione, non si può infatti ignorare che anche su questo fronte emergono evidenti segnali di adattamento dei progetti di sviluppo familiare alle difficoltà che s’incontrano nell’essere genitori oggi in Italia. I dati ufficiali mostrano infatti come tra gli stranieri residenti il livello di fecondità sia rapidamente sceso da una media di 2,50 figli per donna nel 2006 a solo 2,05 nel 2009. In definitiva si ha l’impressione che il tempo degli scenari e delle analisi che per molti anni hanno alimentato il dibattito sul destino demografico dell’Italia del XXI secolo sia finalmente concluso. È il momento di passare dalla diagnosi alla terapia, impegnandosi in politiche adeguate a favore della maternità e della famiglia. Una strategia che va attuata con celerità ed efficacia, se non vogliamo che ciò che oggi si configura solo come un esercizio accademico – o al più come un’utile provocazione – si trasformi in un’amara realtà per le generazioni del futuro.
Come interpretare allora, alla luce della forte crescita osservata in questi anni, le previsioni di stazionarietà o persino di regresso demografico che abitualmente ricorrono negli scenari prospettati per il futuro? La risposta è semplice: il forte contributo netto delle migrazioni dall’estero ha fatto momentaneamente accantonare – senza peraltro fornire una cura efficace e risolutiva – la debolezza di una dinamica naturale che già oggi è eloquentemente documentata dal sorpasso delle morti sulle nascite: un surplus di circa 20mila unità (secondo i dati del 2009) che potrebbe persino arrivare a 300mila nell’arco di qualche decennio.
Non possiamo dimenticare che da più di trent’anni si afferma da più parti – e si argomenta con dati oggettivi e inconfutabili – l’incapacità della popolazione italiana di garantirsi un adeguato ricambio generazionale. Ed è anche bene ricordare che sono al pari di vecchia data sia l’analisi delle cause che stanno alla base dei ritardi e delle cadute nelle scelte riproduttive degli italiani, sia l’identificazione delle terapie con cui si potrebbe guarire (o almeno attenuare) il malessere demografico di un Paese in cui le statistiche dicono che si desiderano in media 2,2 figli per coppia, ma se ne fanno solo 1,4.
Così, anche senza dover scomodare il catastrofismo di coloro che – forse più per provocazione che per effetto di una visione realistica – vanno ventilando la prospettiva di «solo dieci milioni di italiani che vedranno la prossima fine secolo» (come ha fatto il Wall Street Journal), basta prendere in esame le più recenti valutazioni Istat per rendersi conto di come, in assenza di segnali di ripresa della fecondità, il nostro Paese è destinato a scendere a 56 milioni di residenti nel 2051. E ciò pur in presenza di consistenti apporti netti sul fronte delle migrazioni internazionali, tali da favorire una parallela crescita della componente straniera sino a circa 9 milioni (equivalenti a 16 stranieri ogni 100 residenti).
Ma a ben vedere non è solo il calo numerico degli abitanti ad alimentare le preoccupazioni per l’inverno demografico che ci attende, sono piuttosto le modalità con cui tale calo andrà concretizzandosi. Accettare passivamente un’ulteriore discesa dalle circa 600mila nascite annue di oggi alle 400mila che vengono prospettate dai modelli di previsione – qualora non dovesse accrescersi il livello di fecondità – significa rinunciare a investire adeguatamente nel capitale umano, e quindi nel futuro del Paese. D’altra parte, teorizzare che il sostegno alla natalità offerto dall’immigrazione sia sufficiente ad arrestare, o persino ad invertire, le tendenze in atto non fa che alimentare pericolose illusioni che rischiano di impedire, o quanto meno ritardare, le necessarie azioni di intervento.
Se è vero che il contributo delle nascite provenienti dalla popolazione straniera resta importante e merita piena valorizzazione, non si può infatti ignorare che anche su questo fronte emergono evidenti segnali di adattamento dei progetti di sviluppo familiare alle difficoltà che s’incontrano nell’essere genitori oggi in Italia. I dati ufficiali mostrano infatti come tra gli stranieri residenti il livello di fecondità sia rapidamente sceso da una media di 2,50 figli per donna nel 2006 a solo 2,05 nel 2009. In definitiva si ha l’impressione che il tempo degli scenari e delle analisi che per molti anni hanno alimentato il dibattito sul destino demografico dell’Italia del XXI secolo sia finalmente concluso. È il momento di passare dalla diagnosi alla terapia, impegnandosi in politiche adeguate a favore della maternità e della famiglia. Una strategia che va attuata con celerità ed efficacia, se non vogliamo che ciò che oggi si configura solo come un esercizio accademico – o al più come un’utile provocazione – si trasformi in un’amara realtà per le generazioni del futuro.
«Avvenire» dell'8 settembre 2010
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