di Alessandro Gnocchi
Il galateo innanzi tutto. Tra scrittori, il problema dell’etichetta è molto sentito. O meglio. Difficile trovare un autore pronto a ribadire in pubblico i giudizi taglienti sui colleghi volentieri dispensati lontano da orecchie indiscrete.
Per questo ha destato stupore il giudizio di Ken Follett, intervistato l’altro ieri dal Tg1 in occasione dell’uscita per Mondadori de La caduta dei giganti, su Umberto Eco: «Mi hanno paragonato a Umberto Eco? Un parallelo nato dal Nome della rosa, romanzo ambientato nel Medioevo, che ha un lungo pezzo centrale molto descrittivo e noioso. Io invece cerco di evitare di annoiare mortalmente i lettori. A Eco preferisco Dan Brown». E voilà. Sistemato l’unico bestseller italiano capace di conquistare il mercato mondiale negli ultimi decenni.
Follett, paragonato ad altri casi, è stato cortese. Di solito, quando lo scrittore mette da parte le buone maniere, volano gli stracci. Il massimo specialista nella polemica senza esclusione di colpi bassi è forse il Premio Nobel per la letteratura V.S. Naipaul, un caratteraccio, come si è visto di recente al Festival di Mantova (scocciato da domande cui non intendeva rispondere, ha abbandonato il palco. D’altronde tempo fa aveva detto durante un’altra kermesse letteraria: «Le persone che vanno ai festival sono incredibilmente brutte»). Riassumo brevemente le mazzate riservate a grandi del passato. James Joyce: «Un uomo di immaginazione tanto ridotta, che registra la vita attorno a lui coi modi della vecchia narrativa». E.M. Forster: «Un odioso truffatore». Henry James: «Il peggior scrittore del mondo». Jane Austen: «Inutile». Thomas Hardy: «Insopportabile». Ernest Hemingway: «Così occupato a essere americano che non sapeva nemmeno dove stava». E passo allo scambio di cortesie con due contemporanei. Il primo è un altro Nobel, il poeta caraibico Derek Walcott: un uomo di talento, dice Naipaul, ma appartenente alla «tradizione del lamento», «della rabbia contro i bianchi», uno che ricorre «alle solite idee sui neri, sul mare di sofferenza, sempre disponibili, in cui può ritrovarsi». Risposta (per le rime) di Walcott: «Sei un roditore attempato che continua a far soldi come un vecchio commediante», e per chiarire il concetto: «Naipaul è uno scrittore finito». Carezze in confronto ai colpi bassi tra Naipaul e Paul Theroux, grande scrittore di viaggi definito «un autore di guide per poveri». Theroux lì per lì non si scompose poi vergò L’ombra di sir Vidia (Naipaul, ndr) dove metteva in luce il carattere narcisista, elitario, razzista e misogino del rivale. In quanto all’opera letteraria, molti libri del Nobel sarebbero «illeggibili e stupidi».
Naipaul è forse imbattibile. Ma anche Gore Vidal, patriarca delle lettere a stelle e strisce, sa essere cattivo. Celebre il giudizio sull’Arcobaleno della gravità, capolavoro di Thomas Pynchon, re del postmoderno: «Sospetto che l’energia necessaria per leggerlo sia maggiore di quella occorsa a Pynchon per scriverlo». Annosa la questione fra Norman Mailer e Tom Wolfe. Mailer: «C’è qualcosa di stupido in un uomo che porta solo abiti bianchi, soprattutto se vive a New York». Wolfe replica piccato alle critiche sartoriali: «Il capobranco è quello a cui tutti cercano di mordere il sedere». Mailer: «Il fatto che ti sanguini il sedere non significa che sei il capobranco». E questo fu solo l’inizio di una faida che coinvolse anche John Updike e John Irving. Tra le nuove leve, promette bene Jonathan Franzen, autore delle Correzioni e del recentissimo Freedom. Per lui sentire le parole «Philip Roth» è come sventolare un drappo rosso davanti agli occhi di un toro: «Detesto l’autore di Pastorale Americana, perché non è affatto uno scrittore di talento e nei suoi libri parla soltanto di se stesso, non avendo nient’altro da raccontare». Sufficiente? No. «Tranne se stesso e suo padre, egli odia democraticamente tutti, uomini e donne, vecchi e bambini. Invece di pensare in modo ossessivo a vincere il Nobel, farebbe meglio a scrivere libri migliori».
In Italia tutto è molto soft. La repubblica delle lettere è meno vasta e più prudente. Si ricorda un incontro televisivo Busi-Bellezza. Il poeta Bellezza: «Tu sei una puttana che vende i suoi libri». Il narratore Busi: «Imbecille, ma chi sei?». Lo stesso Busi, su Dagospia, ha parlato di Gomorra come di un «romanzo di cassetta», e non è sembrato un complimento. Il match recente più saporito l’hanno offerto Tiziano Scarpa e Antonio Scurati, subito dopo il Premio Strega che ha visto prevalere il primo di un solo voto. Scurati secondo Scarpa: «Un autore pop» costruito «attraverso una strategia propagandistica e pubblicitaria che va avanti da anni». Scarpa secondo Scurati: «Un sintomo della degenerazione della società intellettuale italiana», «il simbolo della categoria del marginale fotti e chiagni, di chi ha parlato per anni in nome degli esclusi e ha poi sfruttato l’emarginazione per trarne un beneficio personale». Sintetizzando: «Un buffone di corte 2.0». È rimasto un dubbio: chi sarà mai il buffone di corte 1.0, cioè il modello originale.
Infine una cattiveria sottile che interessa i tre autori italiani più grandi. Francesco Petrarca, interpellato su Dante Alighieri, disse a Giovanni Boccaccio: «Mai letta la Commedia». Salvo citarla a piene mani in tutte le sue opere in volgare. Altri tempi, altro stile.
Per questo ha destato stupore il giudizio di Ken Follett, intervistato l’altro ieri dal Tg1 in occasione dell’uscita per Mondadori de La caduta dei giganti, su Umberto Eco: «Mi hanno paragonato a Umberto Eco? Un parallelo nato dal Nome della rosa, romanzo ambientato nel Medioevo, che ha un lungo pezzo centrale molto descrittivo e noioso. Io invece cerco di evitare di annoiare mortalmente i lettori. A Eco preferisco Dan Brown». E voilà. Sistemato l’unico bestseller italiano capace di conquistare il mercato mondiale negli ultimi decenni.
Follett, paragonato ad altri casi, è stato cortese. Di solito, quando lo scrittore mette da parte le buone maniere, volano gli stracci. Il massimo specialista nella polemica senza esclusione di colpi bassi è forse il Premio Nobel per la letteratura V.S. Naipaul, un caratteraccio, come si è visto di recente al Festival di Mantova (scocciato da domande cui non intendeva rispondere, ha abbandonato il palco. D’altronde tempo fa aveva detto durante un’altra kermesse letteraria: «Le persone che vanno ai festival sono incredibilmente brutte»). Riassumo brevemente le mazzate riservate a grandi del passato. James Joyce: «Un uomo di immaginazione tanto ridotta, che registra la vita attorno a lui coi modi della vecchia narrativa». E.M. Forster: «Un odioso truffatore». Henry James: «Il peggior scrittore del mondo». Jane Austen: «Inutile». Thomas Hardy: «Insopportabile». Ernest Hemingway: «Così occupato a essere americano che non sapeva nemmeno dove stava». E passo allo scambio di cortesie con due contemporanei. Il primo è un altro Nobel, il poeta caraibico Derek Walcott: un uomo di talento, dice Naipaul, ma appartenente alla «tradizione del lamento», «della rabbia contro i bianchi», uno che ricorre «alle solite idee sui neri, sul mare di sofferenza, sempre disponibili, in cui può ritrovarsi». Risposta (per le rime) di Walcott: «Sei un roditore attempato che continua a far soldi come un vecchio commediante», e per chiarire il concetto: «Naipaul è uno scrittore finito». Carezze in confronto ai colpi bassi tra Naipaul e Paul Theroux, grande scrittore di viaggi definito «un autore di guide per poveri». Theroux lì per lì non si scompose poi vergò L’ombra di sir Vidia (Naipaul, ndr) dove metteva in luce il carattere narcisista, elitario, razzista e misogino del rivale. In quanto all’opera letteraria, molti libri del Nobel sarebbero «illeggibili e stupidi».
Naipaul è forse imbattibile. Ma anche Gore Vidal, patriarca delle lettere a stelle e strisce, sa essere cattivo. Celebre il giudizio sull’Arcobaleno della gravità, capolavoro di Thomas Pynchon, re del postmoderno: «Sospetto che l’energia necessaria per leggerlo sia maggiore di quella occorsa a Pynchon per scriverlo». Annosa la questione fra Norman Mailer e Tom Wolfe. Mailer: «C’è qualcosa di stupido in un uomo che porta solo abiti bianchi, soprattutto se vive a New York». Wolfe replica piccato alle critiche sartoriali: «Il capobranco è quello a cui tutti cercano di mordere il sedere». Mailer: «Il fatto che ti sanguini il sedere non significa che sei il capobranco». E questo fu solo l’inizio di una faida che coinvolse anche John Updike e John Irving. Tra le nuove leve, promette bene Jonathan Franzen, autore delle Correzioni e del recentissimo Freedom. Per lui sentire le parole «Philip Roth» è come sventolare un drappo rosso davanti agli occhi di un toro: «Detesto l’autore di Pastorale Americana, perché non è affatto uno scrittore di talento e nei suoi libri parla soltanto di se stesso, non avendo nient’altro da raccontare». Sufficiente? No. «Tranne se stesso e suo padre, egli odia democraticamente tutti, uomini e donne, vecchi e bambini. Invece di pensare in modo ossessivo a vincere il Nobel, farebbe meglio a scrivere libri migliori».
In Italia tutto è molto soft. La repubblica delle lettere è meno vasta e più prudente. Si ricorda un incontro televisivo Busi-Bellezza. Il poeta Bellezza: «Tu sei una puttana che vende i suoi libri». Il narratore Busi: «Imbecille, ma chi sei?». Lo stesso Busi, su Dagospia, ha parlato di Gomorra come di un «romanzo di cassetta», e non è sembrato un complimento. Il match recente più saporito l’hanno offerto Tiziano Scarpa e Antonio Scurati, subito dopo il Premio Strega che ha visto prevalere il primo di un solo voto. Scurati secondo Scarpa: «Un autore pop» costruito «attraverso una strategia propagandistica e pubblicitaria che va avanti da anni». Scarpa secondo Scurati: «Un sintomo della degenerazione della società intellettuale italiana», «il simbolo della categoria del marginale fotti e chiagni, di chi ha parlato per anni in nome degli esclusi e ha poi sfruttato l’emarginazione per trarne un beneficio personale». Sintetizzando: «Un buffone di corte 2.0». È rimasto un dubbio: chi sarà mai il buffone di corte 1.0, cioè il modello originale.
Infine una cattiveria sottile che interessa i tre autori italiani più grandi. Francesco Petrarca, interpellato su Dante Alighieri, disse a Giovanni Boccaccio: «Mai letta la Commedia». Salvo citarla a piene mani in tutte le sue opere in volgare. Altri tempi, altro stile.
«Il Giornale» del 25 settembre 2010
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