Da dieci anni a questa parte è esploso un vero e proprio culto di Filostrato, che si traduce in continue riedizioni della sua opera. Riparare con le parole lo choc dell'immagine sembra il senso ultimo della sua estetica. Un sentiero di lettura sul rapporto degli antichi con il realismo, passando per una riedizione della «Poetica» di Aristotele
di Federico Condello
Si racconta che, dinanzi alla Decapitazione del Battista di Gentile Bellini, Maometto II abbia avanzato una notevole obiezione: al collo mozzo del santo mancavano le tipiche grinze che la pelle assume, di norma, dopo una reale decapitazione. La storiella è narrata, fra gli altri, da Burke nell'Inchiesta sul bello e sul sublime, che biasima lo scarso gusto del turco ma tralascia, per pudore, il seguito: con il sultano che ordina l'immediata decapitazione di un servo per convincere l'artista dei suoi argomenti. L'aneddoto è istruttivo: ed è un monito - più che contro il cattivo gusto - contro un'estetica naturalistica condotta alle sue estreme conseguenze. In forma meno sensazionale, l'aneddotica antica rischia di sortire un effetto analogo: l'uva dipinta da Zeusi capace di ingannare gli uccelli, e il drappo dipinto di Parrasio capace d'ingannare lo stesso Zeusi - che comicamente ingiunge al rivale di levare il drappo e mostrare l'opera, stando al racconto di Plinio - sono così celebri da risultare proverbiali. E a proposito di proverbi, come dimenticare il calzolaio che critica i sandali dipinti da Apelle, Apelle che corregge i sandali, il calzolaio che si spinge fino a criticare la forma dei piedi, e Apelle che forgia il motto sutor, ne ultra crepidam, «calzolaio, fermati al sandalo»? Ce n'è abbastanza per imputare all'antichità intera lo scarso gusto che Burke, non a torto, rimproverava al sultano.
Il mito dell'occhio innocente
Contro un così ingenuo culto del più ingenuo realismo, la contemporaneità sembra poter schierare autorità infinite: da Ernst Gombrich a Nelson Goodman, fino al Lacan del Seminario XI, che sull'insulsa storiella pliniana fornì commenti da par suo; per non citare le pagine di Jakobson nel Realismo nell'arte, quelle di Genette nell'Opera dell'arte o i tentativi del «Gruppo mi» di applicare i tropi della retorica al dominio delle immagini (Trattato del segno visivo, a cura di Migliore, Bruno Mondadori, 2007). Insomma, la contemporaneità sembra poter gridare a una voce: «l'arte non è una copia del mondo reale. Di queste dannate cose basta che ci sia un solo esemplare», come recita la geniale epigrafe - attribuita a Virginia Woolf - che inaugura proprio I linguaggi dell'arte di Goodman. E si sarebbe tentati di opporre agli aneddoti pliniani il buffo caso che, secondo la testimonianza di Cézanne, sarebbe capitato a Courbet: il pittore, impegnato su un paesaggio, si accorge di aver dipinto un oggetto lontano di cui ignora la natura reale; invia perciò un assistente a controllare: «sono fascine», assicura l'assistente al suo ritorno; Courbet contempla il proprio quadro e commenta: «ma guarda, è vero, sono fascine». Niente come le fascine di Courbet sembra allontanarci, di secoli e non di chilometri, dall'uva di Zeusi.
Ma davvero l'estetica antica non seppe andare oltre la nozione di arte come «copia» o «imitazione» - così è reso in genere il greco mimesis - della cosiddetta «realtà» o «natura»? Una certa scolastica indolenza, e una tradizione più che secolare, inducono a crederlo. Quella che il vecchio Hauser della Storia sociale dell'arte descriveva come una lenta conquista, fra VI e V sec. a.C., dell'«illusionismo», finisce per apparire come una pecca originaria dell'estetica antica. Un'estetica che suona ai moderni singolarmente ingenua: come prendere sul serio un Aristotele che, per definire l'arte, se la cava con la trovata dell'«imitazione»?
«L'oggetto che ho di fronte» - protesta Goodman - «è un uomo, un fascio di atomi, un complesso di cellule, uno strimpellatore di violino, un amico, un idiota, e molte altre cose ancora. Non posso copiarli tutti insieme». E cosa pensare di quel Platone che rimproverava all'arte e alla poesia di mancare, di almeno tre gradi, «la verità»? L'arte come roba «di terza mano», parafrasava ironicamente Croce. Se poi si ha la pazienza di risalire fino all'età imperiale, si incontrano opere come Le Immagini di Filostrato (II-III sec. d.C.), che con la pedante descrizione dei dipinti esibiti da una presunta pinacoteca dell'epoca sembra incoraggiare una condanna globale dell'estetica antica, vittima di un'illusione realistica tanto epidemica quanto puerile. Sicché i moderni possono avocare a sé i privilegi dell'immaginazione più libera e della fantasia più creativa, conclamato superamento di ogni estetica «imitativa».
Del resto, a sostenere l'ormai scontata demolizione di quello che Gombrich e Goodman chiamavano «il mito dell'occhio innocente», si possono citare, a piacere, gli inganni ottici di Escher, l'illusione di Muller-Lyer, il cubo di Necker, e mille altri paradossi gestaltici: anche per via scientifica, ogni idolo del «realismo imitativo» sembra destinato a crollare. «Dire che un quadro appare come la natura» - scrive ancora Goodman - «spesso significa soltanto che esso appare nel modo in cui la natura è di solito dipinta».
Eppure, ricordava già Jakobson, è difficile trovare un movimento artistico che non si sia definito, in ogni tempo e sotto ogni cielo, più «fedele al reale» di tutti i predecessori. E la nozione di «realismo» - che Auerbach negava recisamente all'antichità classica - è quanto di più ambiguo si possa dare in àmbito estetico, come dimostra, tra l'altro, l'acuto volume di Federico Bertoni, Realismo e letteratura (Einaudi, 2007). Insomma, non è detto che in tema di teoria dell'arte i moderni, i contemporanei e tutti i cultori del «post» - un culto che ha inizio già in età antica, e risorge periodicamente dal Quattrocento in poi - possano vantare privilegi particolari. O meglio: non è detto che certe comode scansioni binarie, centrate sul «prima» e sul «dopo», sul «semplice» e sul «complesso», sul «naturalistico» e sull'«anti-naturalistico», trovino conferma in una seria analisi storica.
Per esempio, che ne è di un'opera apparentemente ingenua come Le immagini di Filostrato, che sembrano voler «riprodurre» in parole mere «riproduzioni» pittoriche della «realtà», se si considera l'ipotesi che la pinacoteca ivi descritta non sia mai realmente esistita? Non se ne ricava una sorta di semiologia alla Barthes, in cui ogni segno non verbale è destinato a passare per forza attraverso le sue (tacite) didascalie verbali? Non siamo addirittura di fronte a un esperimento tipicamente postmoderno di (illusoria) evocazione della «realtà» attraverso la «realtà» (illusoria) di rappresentazioni mai esistite? Filostrato decostruzionista ante litteram: un'ipotesi, in fondo, non meno verosimile di quella (ingenuamente realistica) che ha guidato artisti e poeti, da Tiziano fino a Goethe e ben oltre, alla ricostruzione della «pinacoteca originale» di Filostrato.
Ciò spiega perché, da dieci anni a questa parte, si registri una vera e propria «filostratomania» che ispira continue riedizioni dell'opera, l'ultima delle quali si deve alle cure di Giuseppe Pucci, con la versione di Giovanni Lombardo (Filostrato Maggiore. Pinacoteca, Palermo, Aesthetica, 2010, euro 20,00). E ciò spiega perché proprio da Filostrato muova Jackie Pigeaud nel suo recente Tre fantasie sulla phantasía. Filostrato, Poussin, Winckelmann (trad. di Giovanni Lombardo, Edizioni di Passaggio, 2010, euro 16,00): un libro deliberatamente «fantasista», che nella sua forma di divagazione erudita - fra il dialogo platonico e l'essai estemporaneo - nasconde idee utilissime per chi voglia liberare l'estetica antica dai pregiudizi vulgati. L'analisi che Pigeaud dedica a Filostrato induce a intendere le prolisse «descrizioni» orchestrate dal retore come una sistematica - se è lecita la formula - «elaborazione del thauma»: dove «elaborazione» si intenda nel senso della freudiana Bearbeitung («elaborazione del lutto», «elaborazione secondaria»), e dove il thauma («spettacolo» e «stupore») è l'«impatto» visivo, è l'immagine che capta e instupidisce (stupor). Riparare a parole, e cioè con interminabili catene associative di ordine verbale, lo choc dell'immagine, sembra il senso ultimo dell'estetica che Filostrato teorizza, o meglio realizza: la phantasia - «artigiano ben più saggio della mimesis», scrive altrove il retore - è dunque una virtù dell'artista, ma anche e soprattutto una virtù dell'interprete. Con i dubbi che seguono sulla «realtà» di ciò che si vede e si descrive: il dettaglio di un'ape sul dipinto intitolato Narciso (soggetto non casuale!) è «un'ape vera, tratta in inganno dal dipinto, o siamo noi a ingannarci?». La domanda di Filostrato è un'egregia risposta alla logica semplicistica che si attribuisce a Zeusi. E Pigeaud, nel commentare il Paesaggio con un uomo ucciso da un serpente di Poussin, segue a suo modo l'esempio di Filostrato, con un esercizio associativo che dal XVII secolo riporta al Virgilio delle Georgiche e al Fedro platonico. E infine, nel ripercorrere le orme di Winckelmann, Pigeud ci ricorda che nessun neoclassicismo è semplice come lo si rappresenta, e che comunque le teorie winckelmanniane sono ormai parte integrante dell'«enciclopedia» attraverso cui siamo indotti a verbalizzare - Filostrato insegna - la nostra percezione dell'arte antica.
Contro un così ingenuo culto del più ingenuo realismo, la contemporaneità sembra poter schierare autorità infinite: da Ernst Gombrich a Nelson Goodman, fino al Lacan del Seminario XI, che sull'insulsa storiella pliniana fornì commenti da par suo; per non citare le pagine di Jakobson nel Realismo nell'arte, quelle di Genette nell'Opera dell'arte o i tentativi del «Gruppo mi» di applicare i tropi della retorica al dominio delle immagini (Trattato del segno visivo, a cura di Migliore, Bruno Mondadori, 2007). Insomma, la contemporaneità sembra poter gridare a una voce: «l'arte non è una copia del mondo reale. Di queste dannate cose basta che ci sia un solo esemplare», come recita la geniale epigrafe - attribuita a Virginia Woolf - che inaugura proprio I linguaggi dell'arte di Goodman. E si sarebbe tentati di opporre agli aneddoti pliniani il buffo caso che, secondo la testimonianza di Cézanne, sarebbe capitato a Courbet: il pittore, impegnato su un paesaggio, si accorge di aver dipinto un oggetto lontano di cui ignora la natura reale; invia perciò un assistente a controllare: «sono fascine», assicura l'assistente al suo ritorno; Courbet contempla il proprio quadro e commenta: «ma guarda, è vero, sono fascine». Niente come le fascine di Courbet sembra allontanarci, di secoli e non di chilometri, dall'uva di Zeusi.
Ma davvero l'estetica antica non seppe andare oltre la nozione di arte come «copia» o «imitazione» - così è reso in genere il greco mimesis - della cosiddetta «realtà» o «natura»? Una certa scolastica indolenza, e una tradizione più che secolare, inducono a crederlo. Quella che il vecchio Hauser della Storia sociale dell'arte descriveva come una lenta conquista, fra VI e V sec. a.C., dell'«illusionismo», finisce per apparire come una pecca originaria dell'estetica antica. Un'estetica che suona ai moderni singolarmente ingenua: come prendere sul serio un Aristotele che, per definire l'arte, se la cava con la trovata dell'«imitazione»?
«L'oggetto che ho di fronte» - protesta Goodman - «è un uomo, un fascio di atomi, un complesso di cellule, uno strimpellatore di violino, un amico, un idiota, e molte altre cose ancora. Non posso copiarli tutti insieme». E cosa pensare di quel Platone che rimproverava all'arte e alla poesia di mancare, di almeno tre gradi, «la verità»? L'arte come roba «di terza mano», parafrasava ironicamente Croce. Se poi si ha la pazienza di risalire fino all'età imperiale, si incontrano opere come Le Immagini di Filostrato (II-III sec. d.C.), che con la pedante descrizione dei dipinti esibiti da una presunta pinacoteca dell'epoca sembra incoraggiare una condanna globale dell'estetica antica, vittima di un'illusione realistica tanto epidemica quanto puerile. Sicché i moderni possono avocare a sé i privilegi dell'immaginazione più libera e della fantasia più creativa, conclamato superamento di ogni estetica «imitativa».
Del resto, a sostenere l'ormai scontata demolizione di quello che Gombrich e Goodman chiamavano «il mito dell'occhio innocente», si possono citare, a piacere, gli inganni ottici di Escher, l'illusione di Muller-Lyer, il cubo di Necker, e mille altri paradossi gestaltici: anche per via scientifica, ogni idolo del «realismo imitativo» sembra destinato a crollare. «Dire che un quadro appare come la natura» - scrive ancora Goodman - «spesso significa soltanto che esso appare nel modo in cui la natura è di solito dipinta».
Eppure, ricordava già Jakobson, è difficile trovare un movimento artistico che non si sia definito, in ogni tempo e sotto ogni cielo, più «fedele al reale» di tutti i predecessori. E la nozione di «realismo» - che Auerbach negava recisamente all'antichità classica - è quanto di più ambiguo si possa dare in àmbito estetico, come dimostra, tra l'altro, l'acuto volume di Federico Bertoni, Realismo e letteratura (Einaudi, 2007). Insomma, non è detto che in tema di teoria dell'arte i moderni, i contemporanei e tutti i cultori del «post» - un culto che ha inizio già in età antica, e risorge periodicamente dal Quattrocento in poi - possano vantare privilegi particolari. O meglio: non è detto che certe comode scansioni binarie, centrate sul «prima» e sul «dopo», sul «semplice» e sul «complesso», sul «naturalistico» e sull'«anti-naturalistico», trovino conferma in una seria analisi storica.
Per esempio, che ne è di un'opera apparentemente ingenua come Le immagini di Filostrato, che sembrano voler «riprodurre» in parole mere «riproduzioni» pittoriche della «realtà», se si considera l'ipotesi che la pinacoteca ivi descritta non sia mai realmente esistita? Non se ne ricava una sorta di semiologia alla Barthes, in cui ogni segno non verbale è destinato a passare per forza attraverso le sue (tacite) didascalie verbali? Non siamo addirittura di fronte a un esperimento tipicamente postmoderno di (illusoria) evocazione della «realtà» attraverso la «realtà» (illusoria) di rappresentazioni mai esistite? Filostrato decostruzionista ante litteram: un'ipotesi, in fondo, non meno verosimile di quella (ingenuamente realistica) che ha guidato artisti e poeti, da Tiziano fino a Goethe e ben oltre, alla ricostruzione della «pinacoteca originale» di Filostrato.
Ciò spiega perché, da dieci anni a questa parte, si registri una vera e propria «filostratomania» che ispira continue riedizioni dell'opera, l'ultima delle quali si deve alle cure di Giuseppe Pucci, con la versione di Giovanni Lombardo (Filostrato Maggiore. Pinacoteca, Palermo, Aesthetica, 2010, euro 20,00). E ciò spiega perché proprio da Filostrato muova Jackie Pigeaud nel suo recente Tre fantasie sulla phantasía. Filostrato, Poussin, Winckelmann (trad. di Giovanni Lombardo, Edizioni di Passaggio, 2010, euro 16,00): un libro deliberatamente «fantasista», che nella sua forma di divagazione erudita - fra il dialogo platonico e l'essai estemporaneo - nasconde idee utilissime per chi voglia liberare l'estetica antica dai pregiudizi vulgati. L'analisi che Pigeaud dedica a Filostrato induce a intendere le prolisse «descrizioni» orchestrate dal retore come una sistematica - se è lecita la formula - «elaborazione del thauma»: dove «elaborazione» si intenda nel senso della freudiana Bearbeitung («elaborazione del lutto», «elaborazione secondaria»), e dove il thauma («spettacolo» e «stupore») è l'«impatto» visivo, è l'immagine che capta e instupidisce (stupor). Riparare a parole, e cioè con interminabili catene associative di ordine verbale, lo choc dell'immagine, sembra il senso ultimo dell'estetica che Filostrato teorizza, o meglio realizza: la phantasia - «artigiano ben più saggio della mimesis», scrive altrove il retore - è dunque una virtù dell'artista, ma anche e soprattutto una virtù dell'interprete. Con i dubbi che seguono sulla «realtà» di ciò che si vede e si descrive: il dettaglio di un'ape sul dipinto intitolato Narciso (soggetto non casuale!) è «un'ape vera, tratta in inganno dal dipinto, o siamo noi a ingannarci?». La domanda di Filostrato è un'egregia risposta alla logica semplicistica che si attribuisce a Zeusi. E Pigeaud, nel commentare il Paesaggio con un uomo ucciso da un serpente di Poussin, segue a suo modo l'esempio di Filostrato, con un esercizio associativo che dal XVII secolo riporta al Virgilio delle Georgiche e al Fedro platonico. E infine, nel ripercorrere le orme di Winckelmann, Pigeud ci ricorda che nessun neoclassicismo è semplice come lo si rappresenta, e che comunque le teorie winckelmanniane sono ormai parte integrante dell'«enciclopedia» attraverso cui siamo indotti a verbalizzare - Filostrato insegna - la nostra percezione dell'arte antica.
Una famiglia di concetti
Ma la realtà dell'estetica antica non si rivela meno complessa se si ritorna a Platone e Aristotele. La Poetica si può ora leggere nell'impegnata traduzione con commento di Daniele Guastini (Roma, Carocci, 2010, euro 25,00), attentissima a recuperare la pregnanza filosofica di termini che la consuetudine, dal Rinascimento a noi, ha ridotto a slogan. Primo fra tutti il disputato mimesis-imitazione: le lezioni del formalismo, dello strutturalismo e di Ricoeur non sono passate invano, su un testo che troppo a lungo si è inteso come manifesto del «naturalismo» più rudimentale. Per un panorama ancor più ampio, è benvenuta l'edizione italiana dell'Estetica della mimesis di Stephen Halliwell (a cura di Lombardo, trad. di Guastini e Maimone Ansaldo Patti, Aesthetica, 2009, euro 40,00), che è ad oggi il più importante tentativo di tracciare una storia, filologicamente fondata, di idee che animano da secoli il dibattito sull'arte. Se ne ricava la sicura dimostrazione che mimesis, al pari di tanti altri rischiosi termini-ombrello, ha coperto, nell'antichità come in età moderna, concezioni disparate e talora opposte. Mimesis non è un concetto, ma una «famiglia di concetti»: e poco importa se essa accomuna in apparenza Platone al suo nemico Aristotele, Plotino a Lessing o Goethe a Barthes. Croce riconosceva all'estetica antica appena qualche «granello di verità». Halliwell mostra come i «granelli» - veri o no - siano innumerevoli, e spesso confusi: con vertiginose anticipazioni di idee solitamente datate al XVII sec., e con una generale, riuscitissima demolizione del pregiudizio che attribuisce all'estetica antica una diffusa inclinazione a cadere, per via «mimetica», nel trabocchetto dell'arte come «copia del reale». Un dipinto potrà anche ingannare l'ape, ma non ha mai ingannato - se non per retorica finzione - Filostrato; e così l'arte non ha mai ingannato i primi teorici della mimesis. È davvero ingenuo chi crede ingenui i vecchi classici.
Ma la realtà dell'estetica antica non si rivela meno complessa se si ritorna a Platone e Aristotele. La Poetica si può ora leggere nell'impegnata traduzione con commento di Daniele Guastini (Roma, Carocci, 2010, euro 25,00), attentissima a recuperare la pregnanza filosofica di termini che la consuetudine, dal Rinascimento a noi, ha ridotto a slogan. Primo fra tutti il disputato mimesis-imitazione: le lezioni del formalismo, dello strutturalismo e di Ricoeur non sono passate invano, su un testo che troppo a lungo si è inteso come manifesto del «naturalismo» più rudimentale. Per un panorama ancor più ampio, è benvenuta l'edizione italiana dell'Estetica della mimesis di Stephen Halliwell (a cura di Lombardo, trad. di Guastini e Maimone Ansaldo Patti, Aesthetica, 2009, euro 40,00), che è ad oggi il più importante tentativo di tracciare una storia, filologicamente fondata, di idee che animano da secoli il dibattito sull'arte. Se ne ricava la sicura dimostrazione che mimesis, al pari di tanti altri rischiosi termini-ombrello, ha coperto, nell'antichità come in età moderna, concezioni disparate e talora opposte. Mimesis non è un concetto, ma una «famiglia di concetti»: e poco importa se essa accomuna in apparenza Platone al suo nemico Aristotele, Plotino a Lessing o Goethe a Barthes. Croce riconosceva all'estetica antica appena qualche «granello di verità». Halliwell mostra come i «granelli» - veri o no - siano innumerevoli, e spesso confusi: con vertiginose anticipazioni di idee solitamente datate al XVII sec., e con una generale, riuscitissima demolizione del pregiudizio che attribuisce all'estetica antica una diffusa inclinazione a cadere, per via «mimetica», nel trabocchetto dell'arte come «copia del reale». Un dipinto potrà anche ingannare l'ape, ma non ha mai ingannato - se non per retorica finzione - Filostrato; e così l'arte non ha mai ingannato i primi teorici della mimesis. È davvero ingenuo chi crede ingenui i vecchi classici.
«Il Manifesto» del 15 settembre 2010
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