Pubblichiamo di seguito un articolo apparso sulla rivista “Jesus”
di Paolo Pegoraro
Sarà papa Benedetto XVI a celebrare la beatificazione di John Henry Newman a conclusione della sua storica visita nel Regno Unito. Si tratterà, infatti, della prima visita di Stato di un Pontefice in terra britannica – quella di Giovanni Paolo II nel 1982 fu una visita pastorale – e culminerà nell’incontro con la Regina Elisabetta II e con il Primate della Comunione anglicana, Rowan Williams. «L’Arcivescovo di Canterbury – commenta il suo Rappresentante presso la Santa Sede, il reverendo David Richardson – la vede come un’opportunità per cementare i legami tra la Santa Sede e il Regno Unito e anche tra la Chiesa Cattolica Romana e altre chiese cristiane in Scozia, in Inghilterra e in Galles». Gli estimatori di Newman sono molti e non solo tra i cattolici. Il suo contributo al rinnovamento della Chiesa d’Inghilterra tramite il Movimento di Oxford è ancora vivo. «Newman – spiega il reverendo Richardson – ha plasmato profondamente la futura evoluzione della teologia anglicana. In primo luogo, ricordandoci la natura divina della Chiesa. Poi radicando e fondando di nuovo il ministero nella successione apostolica. Infine suscitando, insieme a Pusey, una rinascita duratura della teologia patristica nell’anglicanesimo». Tra i suoi ammiratori di lungo corso c’è anche Benedetto XVI che, ancora cardinale, rievocò il proprio personale incontro con l’opera di Newman in occasione del centenario della sua morte (28 aprile 1990). La conclusione – sorprendente, riletta a vent’anni di distanza – tocca un punto molto caro a Ratzinger teologo e pastore: «Il segno caratteristico del grande dottore nella Chiesa mi sembra essere quello che egli non insegna solo con il suo pensiero e i suoi discorsi, ma anche con la sua vita, poiché in lui pensiero e vita si compenetrano e si determinano reciprocamente. Se ciò è vero, allora davvero Newman appartiene ai grandi dottori della Chiesa, perché egli nello stesso tempo tocca il nostro cuore e illumina il nostro pensiero». Questa è, in effetti, la chiave di volta della figura di Newman: una continua osmosi tra pensiero e vita. Proprio come la sua conversione al cattolicesimo, maturata attraverso lo studio e la fedeltà alla coscienza, significò innanzi tutto una mai conclusa conversione dell’intelletto.
John Henry Newman nacque il 21 febbraio 1801 in una famiglia anglicana, ma il suo “fervore evangelico” si accese solo verso i quindici anni quando, durante la prima di molte malattie, lesse alcuni libri calvinisti. Il suo carattere era riservato ma molto amichevole, scrupoloso fino al perfezionismo e non privo di ambizione. Caratteristiche che traspaiono, paradossalmente, quando il giovane Newman consegue la “laurea” con il minimo dei voti: eccesso di studio e aspettative troppo alte lo avevano sfiancato. Un incidente di percorso che finirà con il precludergli la strada per gli studi legali, spingendolo a intraprendere la carriere ecclesiastica: diacono anglicano nel 1824, verrà ordinato sacerdote l’anno seguente. Nel frattempo Newman era anche diventato fellow presso l’Oriel College, il più prestigioso di Oxford, dove fu affascinato dal razionalismo di Richard Whately, futuro arcivescovo anglicano di Dublino, che lo aiutò a sviluppare la propria abilità retorica. Ma l’amicizia con Richard Hurrell Froude, Edward Pusey e John Keble, nonché la morte della sorella minore Mary e altre due gravi malattie, lo convinsero dei limiti di un’impostazione soggettivistica centrata sulla sola eccellenza intellettuale. Proprio dopo l’ultima malattia, che lo colpì durante un viaggio in Sicilia, Newman avvertì di aver ricevuto una missione personale, sconosciuta ma inderogabile. «Non ti chiedo di vedere – scrisse nel suo Diario –, non ti chiedo di sapere, ti chiedo semplicemente di essere messo all’opera». Cominciò così il suo impegno nel Movimento di Oxford, il quale respingeva le ingerenze del governo britannico nella vita ecclesiale e rivalutava la continuità storica tra cattolicesimo e anglicanesimo. Secondo Newman, che attraverso scritti e sermoni fu a lungo il principale esponente del movimento, la Chiesa d’Inghilterra rappresentava una “via media” tra gli eccessi del cattolicesimo romano e gli errori del protestantesimo. Rivoltosi alla patristica per comprendere quello che la Chiesa aveva insegnato semper et ubique, però, il giovane sacerdote entrò in una profonda crisi di coscienza. Studiando la crisi ariana del IV secolo si rese conto che l’ipotesi di una via intermedia non era una soluzione, ma un errore antico. Dove trovare, allora, la vera Chiesa? Newman approfondì le ricerche per altri quattro anni. Prima di concludere il suo studio sulle origini del cristianesimo (Lo sviluppo della dottrina cristiana, 1845) aveva tuttavia deciso: la coscienza gli imponeva di riunirsi alla Chiesa di Roma. «I Padri mi fecero cattolico – ribadirà in seguito, quando s’insinuò un suo imminente ritorno all’anglicanesimo – e io non intendo buttare a terra la scala per la quale sono salito nella Chiesa». Nella notte tra l’8 e il 9 ottobre 1845, il passionista Domenico Barberi – poi beatificato da papa Paolo VI – giunse a Littlemore, il paese dove Newman si era ritirato da vicario della chiesa dell’Università, e accolse la sua lunga confessione. Negli anni successivi furono numerosissimi – si parla di un migliaio – i membri della Chiesa anglicana che imitarono il futuro cardinale.
Ordinato sacerdote cattolico a Roma, Newman entrò nell’Ordine degli oratoriani di san Filippo Neri, che dovette ricordargli i college di Oxford. Rientrò in Inghilterra senza immaginare il calvario di disprezzo e sospetto che lo attendeva. Nel recente volume John Henry Newman. Una biografia spirituale (Lindau 2010), Roderick Strange – rettore del Pontificio Collegio Beda di Roma –sottolinea opportunamente una caratteristica della sua santità: la fedeltà nonostante le numerose sconfitte e delusioni. Nel 1851 Newman fu coinvolto nel processo contro Giacinto Achilli, un ex domenicano che attaccava il cattolicesimo da parte evangelica. Newman si fece voce del cardinal Nicholas Wiseman, riportando contro Achilli alcune accuse di molestie documentate anni addietro. Ma poiché Wiseman aveva smarrito il carteggio delle prove, Newman fu citato per diffamazione e incontrò la pubblica riprovazione. Nello stesso anno i vescovi irlandesi lo contattarono perché diventasse rettore di una nuova università cattolica in Irlanda; nel 1858, però, Newman si dimise per divergenze di visioni e tornò all’Oratorio di Birmingham. L’anno prima i vescovi inglesi lo avevano incaricato di supervisionare la nuova traduzione della Bibbia. Newman vi si dedicò a lungo con proverbiale acribia, ma il progetto fu annullato. Nel 1859 gli venne affidata la direzione della rivista cattolica «The Rambler». Ne produsse un solo numero, perché il suo articolo sul ruolo dei laici nella Chiesa (On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine) fu criticato da Roma. Mai sopiti sospetti nei confronti della sua conversione si erano riaccesi. Newman si offrì di chiarire il proprio punto di vista e gli vennero inviate, tramite il cardinal Wiseman, una serie di domande che, tuttavia, non gli furono mai recapitate. E mentre Newman dava per risolta la questione, a Roma cresceva il discredito nei suoi confronti. Solo otto anni dopo, quando il confratello e amico Ambrose St John si recò in visita in Vaticano, l’incidente fu chiarito. Non è difficile immaginare che il morale di Newman fosse a terra. Così, quando un articolo lo tacciò di “disinteresse verso la verità”, egli si sentì in dovere di scrivere una vibrante storia delle sue opinioni religiose. E l’Apologia pro vita sua (1865) riuscì nell’intento: ne ripristinò la stima e l’autorevolezza, e gli riguadagnò vent’anni di amicizie perdute da parte anglicana. Ma un’ultima prova lo attendeva. Gli fu affidato il compito di fondare una missione oratoriana a Oxford, cosa che alcuni cattolici – compreso l’arcivescovo di Westminster, il cardinale Henry Manning – non vedevano di buon occhio. Fu stabilito in segreto che, alla fondazione dell’oratorio, Newman non potesse andarci a vivere. Ed egli, in silenzio, come suo solito, si ritirò.
Pensiero e vita: in questo binomio si ritrovano molte caratteristiche di Newman. La sua attenzione per una formazione globale degli studenti, ad esempio, come si legge ne L’idea di università: l’educazione dev’essere una “introduzione alla realtà totale”, intuizione poi ripresa da don Giussani. Pensiero e vita. Newman non fu uno studioso arido. Scrisse narrativa (Callista, 1855), compose poesia (Il sogno di Gerontius, 1865), e le sue opere influirono profondamente su autori come Hilaire Belloc, Gilbert K. Chesterton, fino a J.R.R. Tolkien e Bruce Marshall. È anche per questo che, nella recente udienza ai vescovi dell’Inghilterra e del Galles, papa Benedetto XVI lo ha additato a modello: «Grandi scrittori e comunicatori della sua statura e della sua integrità sono necessari nella Chiesa oggi e spero che la devozione a lui ispirerà molti a seguirne le orme». Pensiero e vita, ancora una volta. Nella sua famosa Grammatica dell’assenso (1870) Newman ricordò che la fede è un atto personale che non si esaurisce nella sola comprensione razionale, perché è soprattutto obbedienza alla retta coscienza. Ribadì più volte come, attraverso i suoi sermoni, non desiderasse conquistare il raziocinio delle persone senza averne anche toccato il cuore, aprendo uno spazio alla grazia. «Stabilisco come canone fondamentale – dirà – che un sermone per essere efficace deve essere imperfetto». Quando papa Leone XIII lo creò cardinale, il 15 maggio 1879, Newman scelse significativamente come suo motto Cor ad cor loquitur, “il cuore parla al cuore”. Anche poco prima di ricevere la porpora vi furono nei suoi confronti ostruzionismi e incomprensioni, ma il cappello cardinalizio dissipò infine le ombre che per troppo tempo avevano oscurato la sua figura. Newman visse altri undici anni; morì nel suo letto il 11 agosto 1890. Ex umbris et imaginibus in veritatem, recita l’epitaffio da lui stesso composto: dalle ombre e dalle immagini – finalmente – alla verità.
John Henry Newman nacque il 21 febbraio 1801 in una famiglia anglicana, ma il suo “fervore evangelico” si accese solo verso i quindici anni quando, durante la prima di molte malattie, lesse alcuni libri calvinisti. Il suo carattere era riservato ma molto amichevole, scrupoloso fino al perfezionismo e non privo di ambizione. Caratteristiche che traspaiono, paradossalmente, quando il giovane Newman consegue la “laurea” con il minimo dei voti: eccesso di studio e aspettative troppo alte lo avevano sfiancato. Un incidente di percorso che finirà con il precludergli la strada per gli studi legali, spingendolo a intraprendere la carriere ecclesiastica: diacono anglicano nel 1824, verrà ordinato sacerdote l’anno seguente. Nel frattempo Newman era anche diventato fellow presso l’Oriel College, il più prestigioso di Oxford, dove fu affascinato dal razionalismo di Richard Whately, futuro arcivescovo anglicano di Dublino, che lo aiutò a sviluppare la propria abilità retorica. Ma l’amicizia con Richard Hurrell Froude, Edward Pusey e John Keble, nonché la morte della sorella minore Mary e altre due gravi malattie, lo convinsero dei limiti di un’impostazione soggettivistica centrata sulla sola eccellenza intellettuale. Proprio dopo l’ultima malattia, che lo colpì durante un viaggio in Sicilia, Newman avvertì di aver ricevuto una missione personale, sconosciuta ma inderogabile. «Non ti chiedo di vedere – scrisse nel suo Diario –, non ti chiedo di sapere, ti chiedo semplicemente di essere messo all’opera». Cominciò così il suo impegno nel Movimento di Oxford, il quale respingeva le ingerenze del governo britannico nella vita ecclesiale e rivalutava la continuità storica tra cattolicesimo e anglicanesimo. Secondo Newman, che attraverso scritti e sermoni fu a lungo il principale esponente del movimento, la Chiesa d’Inghilterra rappresentava una “via media” tra gli eccessi del cattolicesimo romano e gli errori del protestantesimo. Rivoltosi alla patristica per comprendere quello che la Chiesa aveva insegnato semper et ubique, però, il giovane sacerdote entrò in una profonda crisi di coscienza. Studiando la crisi ariana del IV secolo si rese conto che l’ipotesi di una via intermedia non era una soluzione, ma un errore antico. Dove trovare, allora, la vera Chiesa? Newman approfondì le ricerche per altri quattro anni. Prima di concludere il suo studio sulle origini del cristianesimo (Lo sviluppo della dottrina cristiana, 1845) aveva tuttavia deciso: la coscienza gli imponeva di riunirsi alla Chiesa di Roma. «I Padri mi fecero cattolico – ribadirà in seguito, quando s’insinuò un suo imminente ritorno all’anglicanesimo – e io non intendo buttare a terra la scala per la quale sono salito nella Chiesa». Nella notte tra l’8 e il 9 ottobre 1845, il passionista Domenico Barberi – poi beatificato da papa Paolo VI – giunse a Littlemore, il paese dove Newman si era ritirato da vicario della chiesa dell’Università, e accolse la sua lunga confessione. Negli anni successivi furono numerosissimi – si parla di un migliaio – i membri della Chiesa anglicana che imitarono il futuro cardinale.
Ordinato sacerdote cattolico a Roma, Newman entrò nell’Ordine degli oratoriani di san Filippo Neri, che dovette ricordargli i college di Oxford. Rientrò in Inghilterra senza immaginare il calvario di disprezzo e sospetto che lo attendeva. Nel recente volume John Henry Newman. Una biografia spirituale (Lindau 2010), Roderick Strange – rettore del Pontificio Collegio Beda di Roma –sottolinea opportunamente una caratteristica della sua santità: la fedeltà nonostante le numerose sconfitte e delusioni. Nel 1851 Newman fu coinvolto nel processo contro Giacinto Achilli, un ex domenicano che attaccava il cattolicesimo da parte evangelica. Newman si fece voce del cardinal Nicholas Wiseman, riportando contro Achilli alcune accuse di molestie documentate anni addietro. Ma poiché Wiseman aveva smarrito il carteggio delle prove, Newman fu citato per diffamazione e incontrò la pubblica riprovazione. Nello stesso anno i vescovi irlandesi lo contattarono perché diventasse rettore di una nuova università cattolica in Irlanda; nel 1858, però, Newman si dimise per divergenze di visioni e tornò all’Oratorio di Birmingham. L’anno prima i vescovi inglesi lo avevano incaricato di supervisionare la nuova traduzione della Bibbia. Newman vi si dedicò a lungo con proverbiale acribia, ma il progetto fu annullato. Nel 1859 gli venne affidata la direzione della rivista cattolica «The Rambler». Ne produsse un solo numero, perché il suo articolo sul ruolo dei laici nella Chiesa (On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine) fu criticato da Roma. Mai sopiti sospetti nei confronti della sua conversione si erano riaccesi. Newman si offrì di chiarire il proprio punto di vista e gli vennero inviate, tramite il cardinal Wiseman, una serie di domande che, tuttavia, non gli furono mai recapitate. E mentre Newman dava per risolta la questione, a Roma cresceva il discredito nei suoi confronti. Solo otto anni dopo, quando il confratello e amico Ambrose St John si recò in visita in Vaticano, l’incidente fu chiarito. Non è difficile immaginare che il morale di Newman fosse a terra. Così, quando un articolo lo tacciò di “disinteresse verso la verità”, egli si sentì in dovere di scrivere una vibrante storia delle sue opinioni religiose. E l’Apologia pro vita sua (1865) riuscì nell’intento: ne ripristinò la stima e l’autorevolezza, e gli riguadagnò vent’anni di amicizie perdute da parte anglicana. Ma un’ultima prova lo attendeva. Gli fu affidato il compito di fondare una missione oratoriana a Oxford, cosa che alcuni cattolici – compreso l’arcivescovo di Westminster, il cardinale Henry Manning – non vedevano di buon occhio. Fu stabilito in segreto che, alla fondazione dell’oratorio, Newman non potesse andarci a vivere. Ed egli, in silenzio, come suo solito, si ritirò.
Pensiero e vita: in questo binomio si ritrovano molte caratteristiche di Newman. La sua attenzione per una formazione globale degli studenti, ad esempio, come si legge ne L’idea di università: l’educazione dev’essere una “introduzione alla realtà totale”, intuizione poi ripresa da don Giussani. Pensiero e vita. Newman non fu uno studioso arido. Scrisse narrativa (Callista, 1855), compose poesia (Il sogno di Gerontius, 1865), e le sue opere influirono profondamente su autori come Hilaire Belloc, Gilbert K. Chesterton, fino a J.R.R. Tolkien e Bruce Marshall. È anche per questo che, nella recente udienza ai vescovi dell’Inghilterra e del Galles, papa Benedetto XVI lo ha additato a modello: «Grandi scrittori e comunicatori della sua statura e della sua integrità sono necessari nella Chiesa oggi e spero che la devozione a lui ispirerà molti a seguirne le orme». Pensiero e vita, ancora una volta. Nella sua famosa Grammatica dell’assenso (1870) Newman ricordò che la fede è un atto personale che non si esaurisce nella sola comprensione razionale, perché è soprattutto obbedienza alla retta coscienza. Ribadì più volte come, attraverso i suoi sermoni, non desiderasse conquistare il raziocinio delle persone senza averne anche toccato il cuore, aprendo uno spazio alla grazia. «Stabilisco come canone fondamentale – dirà – che un sermone per essere efficace deve essere imperfetto». Quando papa Leone XIII lo creò cardinale, il 15 maggio 1879, Newman scelse significativamente come suo motto Cor ad cor loquitur, “il cuore parla al cuore”. Anche poco prima di ricevere la porpora vi furono nei suoi confronti ostruzionismi e incomprensioni, ma il cappello cardinalizio dissipò infine le ombre che per troppo tempo avevano oscurato la sua figura. Newman visse altri undici anni; morì nel suo letto il 11 agosto 1890. Ex umbris et imaginibus in veritatem, recita l’epitaffio da lui stesso composto: dalle ombre e dalle immagini – finalmente – alla verità.
«Zenit.org» agosto 2010
Nessun commento:
Posta un commento