di Angelo Panebianco
Nei nove anni trascorsi dall’11 settembre la sfida del radicalismo islamista non è stata sconfitta. È stata fatta solo una disperata, e costosissima, opera di contenimento. Ma la minaccia è sempre lì. Come lo è la volontà di ampia parte del mondo occidentale di non prendere atto della natura del problema. Consideriamo alcuni episodi recenti. Un pazzo esibizionista, Terry Jones, col suo sproposito, poi rientrato, di bruciare il Corano, non dovrebbe fare primavera ma centinaia di migliaia di persone che, in Afghanistan, in Kashmir (almeno 18 persone uccise) e in altri luoghi, fanno della minacciata azione del suddetto pazzo un pretesto per prendersela con i cristiani e l’intero mondo occidentale, fanno primavera, eccome. La «loro» malattia dovrebbe essere, ma non è, il nostro primo argomento di discussione. Oppure prendiamo il caso dei tanti occidentali che vivono sotto scorta perché, avendo manifestato idee contrarie all’Islam, sono minacciati di morte dai fondamentalisti. Non si sono mai visti in giro molti slanci di simpatia per queste persone né molto sdegno morale per la loro condizione. Si teme forse l’accusa di islamofobia? O, ancora, prendiamo il caso del banchiere Thilo Sarrazin. Ha scritto che non desidera vivere in una Germania islamizzata, popolata da islamici che neppure imparano il tedesco. È stato oggetto di linciaggio morale e di provvedimenti punitivi. Perché? Non ha diritto alle sue opinioni? E perché quelle opinioni vengono esorcizzate anziché discusse? Qualche risposta, nel caso dell’Europa, ce la dà il combinato disposto di flussi migratori e di tendenze demografiche. Le comunità islamiche sono in grande crescita. Già oggi l’Islam è qui la seconda religione. Inoltre, il differenziale demografico fra musulmani e non musulmani fa sì che entro pochi decenni, se il trend non si invertirà, la maggioranza dei giovani europei, dai vent’anni in giù, sarà di religione musulmana. Uno dei più prestigiosi missionari italiani, padre Piero Gheddo (come riporta Il Foglio, 10 settembre), parla, come già lo storico Bernard Lewis, di un’Europa alle soglie di un grande cambiamento, sul punto di essere fortemente condizionata, nelle sue leggi e nei suoi costumi, dalle pressioni di comunità islamiche in espansione. Il disagio suscitato dalla crescente presenza islamica spiega il montare di opposti eccessi nelle nostre società: un odio cieco e irragionevole per i musulmani in generale e, insieme, le timidezze, la voglia di fingere di non vedere le prepotenze dei fondamentalisti e il pericolo che rappresentano. La crescita della presenza islamica è un fatto irreversibile. Ma non è stata scritta la parola definitiva su quali rapporti si affermeranno fra musulmani e società europee. Nascerà, come si spera, un Islam «europeo», ove religione e piena accettazione dei princìpi occidentali di convivenza civile riusciranno a convivere? Oppure, prevarranno il rifiuto, la separazione e il conflitto? L’esito dipenderà, almeno in parte, dalle scelte degli europei: dalla loro capacità di valorizzare il ruolo dei leader non fondamentalisti, a scapito dei fondamentalisti, delle comunità musulmane, e dalle regole di convivenza che riusciranno a varare e a fare rispettare.
E dipenderà anche dal loro impegno nel fronteggiare la sfida militare del radicalismo islamico nei molti luoghi in cui si manifesta. Poiché si ha a che fare con un sistema di vasi comunicanti, se il radicalismo islamico dovesse collezionare sconfitte nei vari angoli del mondo, ciò avrebbe effetti positivi sugli orientamenti prevalenti nelle comunità musulmane europee (fra i giovani, soprattutto). Così come effetti di segno contrario, negativi, avrebbero le vittorie del radicalismo islamico. Bisognerebbe però sbarazzarsi della tesi minimalista che molti hanno adottato in Occidente (e che contribuisce a spiegare, ad esempio, il tiepido appoggio europeo all’impegno Nato in Afghanistan): la tesi secondo la quale una minaccia globale non esiste, essendo i vari conflitti in cui opera il radicalismo islamico figli solo di circostanze e situazioni locali. Per cui serie sconfitte occidentali in Afghanistan, in Medio Oriente o nel Corno d’Africa non avrebbero implicazioni altro che per l’Afghanistan, il Medio Oriente o il Corno d’Africa. Le cose non stanno così. Non c’è differenza fra quanto accade oggi e quanto è accaduto in altre vicende del passato, dalle lotte fra cattolici e protestanti nell’Europa del XVI secolo allo scontro globale fra comunisti e anticomunisti nel XX secolo. Quei conflitti traevano sempre nutrimento da circostanze locali fra loro diversissime, ma erano poi unificati da ideologie comuni e da solidarietà transnazionali che si concretizzavano in appoggi, finanziamenti, flussi di combattenti da un luogo all’altro. E dalla presenza di vaste reti di simpatizzanti. Non c’è incompatibilità, oggi come in passato, fra le ragioni locali dei vari conflitti e gli scopi sovrannazionali delle ideologie che li connettono. Un’Europa che trova comodo abbracciare la tesi minimalista non è, a sua volta, di grande aiuto per una America, già indebolita dalla crisi, guidata da un’Amministrazione che si mostra sempre più oscillante e incerta, priva di una salda strategia ai fini del contenimento dell’islamismo radicale. Eppure, almeno un’occasione per discutere seriamente di islam e Europa e delle complesse ramificazioni del problema, gli europei potrebbero ora coglierla. L’occasione dovrebbe essere rappresentata dai negoziati con la Turchia (dopo il referendum, vinto dal partito islamico al potere, sulle modifiche della Costituzione). La Turchia dei prossimi anni ci servirà forse a scoprire il grado di compatibilità fra liberaldemocrazia e islam. L’abbandono dei tratti più autoritari dell’eredità di Ataturk (il ridimensionamento del ruolo politico dei militari) aprirà la strada a una conciliazione piena fra islam e democrazia? O la democratizzazione sarà la levatrice di nuove forme di islamismo autoritario? Il test ci riguarda da vicino. Per l’importanza geopolitica della Turchia. Ma anche per ciò che potrà dirci sui futuri rapporti fra le democrazia europee e le comunità musulmane.
E dipenderà anche dal loro impegno nel fronteggiare la sfida militare del radicalismo islamico nei molti luoghi in cui si manifesta. Poiché si ha a che fare con un sistema di vasi comunicanti, se il radicalismo islamico dovesse collezionare sconfitte nei vari angoli del mondo, ciò avrebbe effetti positivi sugli orientamenti prevalenti nelle comunità musulmane europee (fra i giovani, soprattutto). Così come effetti di segno contrario, negativi, avrebbero le vittorie del radicalismo islamico. Bisognerebbe però sbarazzarsi della tesi minimalista che molti hanno adottato in Occidente (e che contribuisce a spiegare, ad esempio, il tiepido appoggio europeo all’impegno Nato in Afghanistan): la tesi secondo la quale una minaccia globale non esiste, essendo i vari conflitti in cui opera il radicalismo islamico figli solo di circostanze e situazioni locali. Per cui serie sconfitte occidentali in Afghanistan, in Medio Oriente o nel Corno d’Africa non avrebbero implicazioni altro che per l’Afghanistan, il Medio Oriente o il Corno d’Africa. Le cose non stanno così. Non c’è differenza fra quanto accade oggi e quanto è accaduto in altre vicende del passato, dalle lotte fra cattolici e protestanti nell’Europa del XVI secolo allo scontro globale fra comunisti e anticomunisti nel XX secolo. Quei conflitti traevano sempre nutrimento da circostanze locali fra loro diversissime, ma erano poi unificati da ideologie comuni e da solidarietà transnazionali che si concretizzavano in appoggi, finanziamenti, flussi di combattenti da un luogo all’altro. E dalla presenza di vaste reti di simpatizzanti. Non c’è incompatibilità, oggi come in passato, fra le ragioni locali dei vari conflitti e gli scopi sovrannazionali delle ideologie che li connettono. Un’Europa che trova comodo abbracciare la tesi minimalista non è, a sua volta, di grande aiuto per una America, già indebolita dalla crisi, guidata da un’Amministrazione che si mostra sempre più oscillante e incerta, priva di una salda strategia ai fini del contenimento dell’islamismo radicale. Eppure, almeno un’occasione per discutere seriamente di islam e Europa e delle complesse ramificazioni del problema, gli europei potrebbero ora coglierla. L’occasione dovrebbe essere rappresentata dai negoziati con la Turchia (dopo il referendum, vinto dal partito islamico al potere, sulle modifiche della Costituzione). La Turchia dei prossimi anni ci servirà forse a scoprire il grado di compatibilità fra liberaldemocrazia e islam. L’abbandono dei tratti più autoritari dell’eredità di Ataturk (il ridimensionamento del ruolo politico dei militari) aprirà la strada a una conciliazione piena fra islam e democrazia? O la democratizzazione sarà la levatrice di nuove forme di islamismo autoritario? Il test ci riguarda da vicino. Per l’importanza geopolitica della Turchia. Ma anche per ciò che potrà dirci sui futuri rapporti fra le democrazia europee e le comunità musulmane.
«Corriere della Sera» del 14 settembre 2010
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