Un gran libro dell’anglista Nadia Fusini rilegge i fantasmi religiosi del teatro elisabettiano e smonta i luoghi comuni
di Nicoletta Tiliacos
Il nichilista è Macbeth, non il Bardo dalle grandi passioni troppo umane. Non è Lutero e odiava i puritani
Per Nadia Fusini, anglista raffinata, scrittrice e traduttrice di Beckett e di Keats e a lungo docente di Filologia shakespeariana alla Sapienza di Roma, quello che ha appena pubblicato è davvero il libro della vita, come dice al Foglio, il frutto di molti anni di tentativi più volte avviati e poi aggirati, “perché le cose a cui teniamo di più sono le più difficili da affrontare”. Il libro si intitola Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare (Mondadori, 495 pagine, 22 euro) e non è soltanto un’interpretazione innamorata dell’opera del Bardo di Stratford-upon-Avon, né semplicemente una nuova declinazione della lettura di Shakespeare come nostro eterno contemporaneo, sulla strada aperta nel Settecento da Samuel Johnson, l’iniziatore della moderna critica shakespeariana.
“Di vita si muore” è innanzitutto un trattato sulle umane passioni rappresentate da un autore strappato alla critica accademica e restituito alla vita per la quale volle scrivere. Anche per questo, spiega al Foglio Fusini, “non ho dato gran rilievo all’eterna questione di ‘chi’ fosse davvero Shakespeare. E’ il nome che diamo a quelle certe opere e tanto basta. Ci sono autori, e Shakespeare è tra questi, che nella loro opera vogliono nascondersi, che non esprimono se stessi ma la vita così come la conoscono. Shakespeare non parteggia e non si identifica, ma coglie la radice delle passioni: non è né Iago né Otello e nemmeno Desdemona”.
Questo atteggiamento è stato a volte interpretato come una forma di nichilismo, di cui l’autore di “Amleto” sarebbe stato consapevole rappresentante. Il critico americano Harold Bloom, per esempio, nel suo saggio su Shakespeare ha scritto che “la vera litania shakespeariana canta variazioni sulla parola ‘nulla’, e la misteriosità del nichilismo ossessiona quasi ogni dramma”. Anche la citatissima considerazione pronunciata da Macbeth nel quinto atto della tragedia che porta il suo nome – “La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena e poi cade nell’oblìo: la storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di foga, e che non significa nulla” – è generalmente presentata come una sintesi della filosofia shakespeariana, nonostante a pronunciarla sia il “mostro” Macbeth, diventato assassino per “passione del potere”, come scrive Fusini. Lei, tuttavia, non concorda con la lettura di Bloom: “L’atteggiamento di Shakespeare è in realtà profondamente politico ed è attraversato da tutte le tensioni della sua epoca. Non dimentichiamo che Macbeth ci viene presentato come un eroe, che solo in seguito diventa malvagio. All’inizio è il grande soldato che ha difeso il re, e sua moglie gli rimprovera di essere ‘troppo pieno del latte dell’umana gentilezza’. Macbeth pensa, analizza, si rende conto che forse non dovrebbe uccidere Duncan, il re di Scozia, ospite nel suo castello e parte della sua stirpe. Macbeth esercita il pensiero e alla fine compie un atto così terribile che gli farà desiderare di non pensare più. Il genio di Shakespeare ci mostra esattamente quell’intervallo nel quale si analizzano e si soppesano il bene e il male. Alla fine si sceglie, e la scelta conta. Shakespeare non è Lutero, non pensa che tutto sia già stabilito, che il graziato e il dannato siano già segnati. Vale per Macbeth e vale per Bruto – spiega ancora Fusini – il fanatico della logica mosso dalla ‘passione della ragione’. Il tema è: come può, un essere nobile, farsi soggiogare dalla passione fino a perdersi? E poi in Shakespeare la punizione c’è, anche se non è divina. E’ umana, prima di tutto autoinflitta”.
“Di vita si muore” è innanzitutto un trattato sulle umane passioni rappresentate da un autore strappato alla critica accademica e restituito alla vita per la quale volle scrivere. Anche per questo, spiega al Foglio Fusini, “non ho dato gran rilievo all’eterna questione di ‘chi’ fosse davvero Shakespeare. E’ il nome che diamo a quelle certe opere e tanto basta. Ci sono autori, e Shakespeare è tra questi, che nella loro opera vogliono nascondersi, che non esprimono se stessi ma la vita così come la conoscono. Shakespeare non parteggia e non si identifica, ma coglie la radice delle passioni: non è né Iago né Otello e nemmeno Desdemona”.
Questo atteggiamento è stato a volte interpretato come una forma di nichilismo, di cui l’autore di “Amleto” sarebbe stato consapevole rappresentante. Il critico americano Harold Bloom, per esempio, nel suo saggio su Shakespeare ha scritto che “la vera litania shakespeariana canta variazioni sulla parola ‘nulla’, e la misteriosità del nichilismo ossessiona quasi ogni dramma”. Anche la citatissima considerazione pronunciata da Macbeth nel quinto atto della tragedia che porta il suo nome – “La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena e poi cade nell’oblìo: la storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di foga, e che non significa nulla” – è generalmente presentata come una sintesi della filosofia shakespeariana, nonostante a pronunciarla sia il “mostro” Macbeth, diventato assassino per “passione del potere”, come scrive Fusini. Lei, tuttavia, non concorda con la lettura di Bloom: “L’atteggiamento di Shakespeare è in realtà profondamente politico ed è attraversato da tutte le tensioni della sua epoca. Non dimentichiamo che Macbeth ci viene presentato come un eroe, che solo in seguito diventa malvagio. All’inizio è il grande soldato che ha difeso il re, e sua moglie gli rimprovera di essere ‘troppo pieno del latte dell’umana gentilezza’. Macbeth pensa, analizza, si rende conto che forse non dovrebbe uccidere Duncan, il re di Scozia, ospite nel suo castello e parte della sua stirpe. Macbeth esercita il pensiero e alla fine compie un atto così terribile che gli farà desiderare di non pensare più. Il genio di Shakespeare ci mostra esattamente quell’intervallo nel quale si analizzano e si soppesano il bene e il male. Alla fine si sceglie, e la scelta conta. Shakespeare non è Lutero, non pensa che tutto sia già stabilito, che il graziato e il dannato siano già segnati. Vale per Macbeth e vale per Bruto – spiega ancora Fusini – il fanatico della logica mosso dalla ‘passione della ragione’. Il tema è: come può, un essere nobile, farsi soggiogare dalla passione fino a perdersi? E poi in Shakespeare la punizione c’è, anche se non è divina. E’ umana, prima di tutto autoinflitta”.
Le tragedie segnano per Nadia Fusini quello che lei definisce, “facendo il verso al ‘momento machiavelliano’ di cui parlava in un bellissimo saggio lo storico John Pocock, il ‘momento shakespeariano’. Vale a dire gli anni a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, il periodo più straordinario vissuto dall’Inghilterra. Un periodo di grandissimo dinamismo, in cui l’inglese è ancora una lingua non codificata. Un momento segnato però da una terribile incertezza legata al tema dell’autorità e del suo fondamento”. Non a caso i drammi shakespeariani hanno “tutti a che fare con un padre, reale o metaforico. Bruto che uccide Cesare, Amleto che deve vendicare il padre assassinato, Macbeth che fa fuori il re Duncan, Re Lear che è quasi una caricatura, perché si spoglia dell’autorità ma vuole mantenerne la funzione… E’ come se Shakespeare mettesse in scena le grandi questioni che saranno di lì a poco poste filosoficamente da Hobbes: come si fa a ordinare la città degli uomini, e in nome di che cosa?”.
E tutto questo avviene “mentre sul trono c’è una donna, Elisabetta I. Una donna che non fa figli, oltretutto, e il cui regno si avvia alla fine. Si scompone e si altera, in quegli anni, l’idea patriarcale del potere, la catena di trasmissione ‘Dio-re-padre’. E’ qualcosa di profondamente disorientante, che Shakespeare sa rappresentare come nessun altro”.
Alcuni valori, però, resistono: “Gli ultimi lavori di Shakespeare non sono più tragedie ma tragicommedie, nelle quali si riafferma la possibilità di un agire sensato lasciando spazio alla pietà, alla comprensione, all’amore-carità, al perdono. In questo mondo tutto umano deve pur esserci la possibilità di vivere, deve pur esistere qualche ordine provvisorio. Umano, se non divino”. Il personaggio di Cordelia, la figlia devota di Re Lear, per Fusini già “prefigura questa soluzione. All’epoca, il pubblico non accettava la sua morte, e giravano versioni della tragedia in cui Cordelia sopravviveva e si sposava con Edgar, il figlio del Conte di Gloucester”. A essere esaltato, negli ultimi drammi “è soprattutto il perdono. Shakespeare in pratica riscrive l’Otello nel Racconto d’inverno, dove la vicenda del re gelosissimo che vuole far uccidere la moglie sospettata di adulterio si risolve in lieto fine. Shakespeare, lo sappiamo, odiava i puritani. Shylock, il mercante di Venezia, non è ebreo ma in realtà è disegnato con tutti i tratti del puritano, così attento alla contabilità dell’anima, e in ‘Misura per misura’, al personaggio di Angelo è attribuito l’aggettivo ‘precise’, puntiglioso, minutamente attento alle sottigliezze. Qualcosa da disprezzare”.
Nel suo libro, Fusini mette un forte accento sul “fantasma del teatro religioso popolare che vive nelle tragedie shakespeariane. Le rappresentazioni medievali della Passione del Cristo sofferente tornano per esempio nel Re Lear. Sono l’uomo del dolore, gli fa dire Shakespeare, e il vecchio Re che porta in braccio il corpo di Cordelia uccisa è la Pietà rovesciata, un padre con la figlia invece della Madonna con il figlio. Non c’è la fede ma certamente la sua eco, nelle immagini che la devozione popolare ha trasformato in ‘fotogrammi’ evocativi”.
A voler indicare il sommo talento di Shakespeare, la sua appassionata esegeta indica infine “la sua capacità di mostrare la ferita umana. La vita, l’esperienza, il desiderio sono cose che rendono vulnerabili, che fanno patire. Shakespeare quella ferita sa mostrarla, non curarla, ma il fatto che non dia ricette non ne fa uno scettico. Shakespeare mostra quanto può essere ricca e sfaccettata l’avventura umana”.
E tutto questo avviene “mentre sul trono c’è una donna, Elisabetta I. Una donna che non fa figli, oltretutto, e il cui regno si avvia alla fine. Si scompone e si altera, in quegli anni, l’idea patriarcale del potere, la catena di trasmissione ‘Dio-re-padre’. E’ qualcosa di profondamente disorientante, che Shakespeare sa rappresentare come nessun altro”.
Alcuni valori, però, resistono: “Gli ultimi lavori di Shakespeare non sono più tragedie ma tragicommedie, nelle quali si riafferma la possibilità di un agire sensato lasciando spazio alla pietà, alla comprensione, all’amore-carità, al perdono. In questo mondo tutto umano deve pur esserci la possibilità di vivere, deve pur esistere qualche ordine provvisorio. Umano, se non divino”. Il personaggio di Cordelia, la figlia devota di Re Lear, per Fusini già “prefigura questa soluzione. All’epoca, il pubblico non accettava la sua morte, e giravano versioni della tragedia in cui Cordelia sopravviveva e si sposava con Edgar, il figlio del Conte di Gloucester”. A essere esaltato, negli ultimi drammi “è soprattutto il perdono. Shakespeare in pratica riscrive l’Otello nel Racconto d’inverno, dove la vicenda del re gelosissimo che vuole far uccidere la moglie sospettata di adulterio si risolve in lieto fine. Shakespeare, lo sappiamo, odiava i puritani. Shylock, il mercante di Venezia, non è ebreo ma in realtà è disegnato con tutti i tratti del puritano, così attento alla contabilità dell’anima, e in ‘Misura per misura’, al personaggio di Angelo è attribuito l’aggettivo ‘precise’, puntiglioso, minutamente attento alle sottigliezze. Qualcosa da disprezzare”.
Nel suo libro, Fusini mette un forte accento sul “fantasma del teatro religioso popolare che vive nelle tragedie shakespeariane. Le rappresentazioni medievali della Passione del Cristo sofferente tornano per esempio nel Re Lear. Sono l’uomo del dolore, gli fa dire Shakespeare, e il vecchio Re che porta in braccio il corpo di Cordelia uccisa è la Pietà rovesciata, un padre con la figlia invece della Madonna con il figlio. Non c’è la fede ma certamente la sua eco, nelle immagini che la devozione popolare ha trasformato in ‘fotogrammi’ evocativi”.
A voler indicare il sommo talento di Shakespeare, la sua appassionata esegeta indica infine “la sua capacità di mostrare la ferita umana. La vita, l’esperienza, il desiderio sono cose che rendono vulnerabili, che fanno patire. Shakespeare quella ferita sa mostrarla, non curarla, ma il fatto che non dia ricette non ne fa uno scettico. Shakespeare mostra quanto può essere ricca e sfaccettata l’avventura umana”.
«Il Foglio» del 19 settembre 2010
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