Arriva in Italia il romanzo di Ernest J. Gaines che denuncia i processi di disumanizzazione dei condannati al braccio della morte
di Laura Badaracchi
Lo scrittore della Louisiana narra la vicenda di Jefferson, ragazzo nero condannato ingiustamente: per salvarlo davanti alla giuria di bianchi, il suo difensore l’aveva paragonato «a un maiale», a una bestia da soma buona solo per lavorare
Condannato a morte sulla sedia elettrica.
Un verdetto perentorio, che non lascia spiragli alla speranza, anche se l’imputato si è proclamato innocente. Ma due donne non si arrendono al dolore: una è la madre del ventunenne di colore che sta per finire tragicamente i suoi giorni, ed è comprensibile che sia così; l’altra è la zia di Grant Wiggins, un insegnante a sua volta afro-americano, che insegna ai bambini neri della piantagione, in una chiesa adibita a scuola nella Louisiana, sognando di abbandonare il paese e le sue radici. La richiesta al maestro è singolare: non può certo capovolgere la condanna già pronunciata, ma andare a far visita al ragazzo prima dell’esecuzione. «Non voglio che loro uccidano nessun maiale. Voglio che sia un uomo a sedersi sopra quella sedia, un uomo che si regge sui suoi due piedi», domanda la mamma per suo figlio.
Muove da qui Una lezione prima di morire, edito nel ’93 negli Stati Uniti e vincitore del National Book Critics Circle Awarde.
Tradotto finalmente in italiano da Mattioli1885, in uscita domani, il volume è il capolavoro di Ernest James Gaines, classe 1933, candidato al Pulitzer. La vena autobiografica attraversa le pagine in modo delicato: Gaines, nativo della Louisiana, è stato in prima persona testimone di molti episodi di razzismo, che ha subito a sua volta; nella terra delle sue origini è tornato a vivere con la moglie, in una casa costruita nella piantagione dove ha vissuto la sua infanzia. I suoi volumi sono stati tradotti in francese, tedesco, spagnolo, russo e cinese. Un successo planetario fondato sull’autenticità dei racconti, sulla voce dei personaggi che arriva dritta al lettore senza fronzoli. E fa pensare. Non si tratta di dividere il mondo in buoni e cattivi: l’autore evidenzia senza pudore le contraddizioni e le omissioni che caratterizzano bianchi e neri. Wiggins, il maestro, viene coinvolto quasi suo malgrado nella vicenda dall’ostinazione della zia, mentre la madre di Jefferson continua a ripetere come un ritornello: «Non è costretto a farlo». Lui si schermisce, dicendo che ormai il ragazzo «è morto. È solo una questione di settimane, forse un paio di mesi – ma è già morto. Nei ventuno anni passati abbiamo fatto tutto quello che potevamo per Jefferson. Ma adesso è morto. E io non posso resuscitare i morti. Tutto quello che posso fare è cercare di evitare che gli altri finiscano come lui. Ma lui ci ha abbandonati. Non c’è più nulla che io possa fare, nessuno di noi può più farci nulla». Ed è a questa rassegnazione che la madre di Jefferson si ribella: non tanto alla convinzione che «tanto le cose vanno sempre così», che «i diritti dei neri saranno sempre calpestati dai bianchi». Lei vuole restituire dignità al suo ragazzo prima che venga ucciso. Ingiustamente, questo si intuisce fin dalle prime righe e anche dalla lunga requisitoria dell’avvocato difensore.
Che però smentisce in tribunale la 'natura umana' del giovane, definito 'stupido' perché si è trovato in un bar al momento di una sparatoria, in cui sono rimasti uccisi i due ladri e il responsabile del locale.
Sarà accusato di rapina e di omicidio di primo grado.
Così l’avvocato, nel tentativo di salvarlo, arriva a paragonarlo a un maiale, un animale che è inutile uccidere. Rivolgendosi alla giuria, composta da dodici uomini bianchi, lo definisce «un essere fatto per tenere il manico di un aratro, per caricare le vostre balle di cotone, per scavare i vostri fossati, per tagliare la vostra legna, per raccogliere il vostro mais.
Questo è ciò che voi avete davanti, non una persona capace di pianificare un furto o un omicidio». Di razzismo si tratta, ma pure di togliere dignità umana a un condannato a morte, che invece arriverà con coraggio e 'in piedi' agli ultimi istanti, confidando: «Ho camminato diritto».
Una lezione di resistenza, quasi di ostinazione nel difendere la propria intrinseca umanità, oltre che la propria anima. Forse aspirano allo stesso traguardo gli altri detenuti che in tutto il mondo attendono l’esecuzione.
Solo qualche giorno fa, alle 21.13 del 23 settembre è stata uccisa con iniezione letale nel braccio della morte del Greensville Correctional Center, in Virginia, Teresa Lewis, la quarantunenne disabile mentale accusata di duplice omicidio. È la dodicesima donna ad essere giustiziata negli Usa dal ’76, anno in cui è stata reintrodotta la pena capitale; lo scorso anno cinquantadue persone sono state legalmente 'eliminate'. Di fronte a tante altre fini annunciate, la Giornata mondiale contro la pena di morte in programma il 10 ottobre invita a una riflessione, suggerita anche dal libro di Gaines: che diritto hanno alcuni uomini di togliere la vita ad altri? La giustizia pubblica può arrivare a privare per sempre dell’esistenza alcuni detenuti? Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, nel 2009 sono state messe a morte almeno 714 persone in 18 nazioni e condannate a morte almeno 2001 persone in 56 Paesi: un triste computo da cui è esclusa la Cina, dove queste informazioni restano ancora un segreto di Stato.
Un verdetto perentorio, che non lascia spiragli alla speranza, anche se l’imputato si è proclamato innocente. Ma due donne non si arrendono al dolore: una è la madre del ventunenne di colore che sta per finire tragicamente i suoi giorni, ed è comprensibile che sia così; l’altra è la zia di Grant Wiggins, un insegnante a sua volta afro-americano, che insegna ai bambini neri della piantagione, in una chiesa adibita a scuola nella Louisiana, sognando di abbandonare il paese e le sue radici. La richiesta al maestro è singolare: non può certo capovolgere la condanna già pronunciata, ma andare a far visita al ragazzo prima dell’esecuzione. «Non voglio che loro uccidano nessun maiale. Voglio che sia un uomo a sedersi sopra quella sedia, un uomo che si regge sui suoi due piedi», domanda la mamma per suo figlio.
Muove da qui Una lezione prima di morire, edito nel ’93 negli Stati Uniti e vincitore del National Book Critics Circle Awarde.
Tradotto finalmente in italiano da Mattioli1885, in uscita domani, il volume è il capolavoro di Ernest James Gaines, classe 1933, candidato al Pulitzer. La vena autobiografica attraversa le pagine in modo delicato: Gaines, nativo della Louisiana, è stato in prima persona testimone di molti episodi di razzismo, che ha subito a sua volta; nella terra delle sue origini è tornato a vivere con la moglie, in una casa costruita nella piantagione dove ha vissuto la sua infanzia. I suoi volumi sono stati tradotti in francese, tedesco, spagnolo, russo e cinese. Un successo planetario fondato sull’autenticità dei racconti, sulla voce dei personaggi che arriva dritta al lettore senza fronzoli. E fa pensare. Non si tratta di dividere il mondo in buoni e cattivi: l’autore evidenzia senza pudore le contraddizioni e le omissioni che caratterizzano bianchi e neri. Wiggins, il maestro, viene coinvolto quasi suo malgrado nella vicenda dall’ostinazione della zia, mentre la madre di Jefferson continua a ripetere come un ritornello: «Non è costretto a farlo». Lui si schermisce, dicendo che ormai il ragazzo «è morto. È solo una questione di settimane, forse un paio di mesi – ma è già morto. Nei ventuno anni passati abbiamo fatto tutto quello che potevamo per Jefferson. Ma adesso è morto. E io non posso resuscitare i morti. Tutto quello che posso fare è cercare di evitare che gli altri finiscano come lui. Ma lui ci ha abbandonati. Non c’è più nulla che io possa fare, nessuno di noi può più farci nulla». Ed è a questa rassegnazione che la madre di Jefferson si ribella: non tanto alla convinzione che «tanto le cose vanno sempre così», che «i diritti dei neri saranno sempre calpestati dai bianchi». Lei vuole restituire dignità al suo ragazzo prima che venga ucciso. Ingiustamente, questo si intuisce fin dalle prime righe e anche dalla lunga requisitoria dell’avvocato difensore.
Che però smentisce in tribunale la 'natura umana' del giovane, definito 'stupido' perché si è trovato in un bar al momento di una sparatoria, in cui sono rimasti uccisi i due ladri e il responsabile del locale.
Sarà accusato di rapina e di omicidio di primo grado.
Così l’avvocato, nel tentativo di salvarlo, arriva a paragonarlo a un maiale, un animale che è inutile uccidere. Rivolgendosi alla giuria, composta da dodici uomini bianchi, lo definisce «un essere fatto per tenere il manico di un aratro, per caricare le vostre balle di cotone, per scavare i vostri fossati, per tagliare la vostra legna, per raccogliere il vostro mais.
Questo è ciò che voi avete davanti, non una persona capace di pianificare un furto o un omicidio». Di razzismo si tratta, ma pure di togliere dignità umana a un condannato a morte, che invece arriverà con coraggio e 'in piedi' agli ultimi istanti, confidando: «Ho camminato diritto».
Una lezione di resistenza, quasi di ostinazione nel difendere la propria intrinseca umanità, oltre che la propria anima. Forse aspirano allo stesso traguardo gli altri detenuti che in tutto il mondo attendono l’esecuzione.
Solo qualche giorno fa, alle 21.13 del 23 settembre è stata uccisa con iniezione letale nel braccio della morte del Greensville Correctional Center, in Virginia, Teresa Lewis, la quarantunenne disabile mentale accusata di duplice omicidio. È la dodicesima donna ad essere giustiziata negli Usa dal ’76, anno in cui è stata reintrodotta la pena capitale; lo scorso anno cinquantadue persone sono state legalmente 'eliminate'. Di fronte a tante altre fini annunciate, la Giornata mondiale contro la pena di morte in programma il 10 ottobre invita a una riflessione, suggerita anche dal libro di Gaines: che diritto hanno alcuni uomini di togliere la vita ad altri? La giustizia pubblica può arrivare a privare per sempre dell’esistenza alcuni detenuti? Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, nel 2009 sono state messe a morte almeno 714 persone in 18 nazioni e condannate a morte almeno 2001 persone in 56 Paesi: un triste computo da cui è esclusa la Cina, dove queste informazioni restano ancora un segreto di Stato.
Dopo la condanna, in Virginia, di Teresa Lewis, una quarantunenne disabile mentale come il Jefferson di Gaines, la Giornata mondiale contro la pena di morte in programma il prossimo 10 ottobre rinnova l’interrogativo: fino a dove può spingersi la «giustizia»?
«Avvenire» del 28 settembre 2010
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