05 luglio 2007

Virilio: ritornare alla parola

Il massmediologo francese mette in guardia: «Necessario è il verbo, mettiamo un freno al dilagare dell’immagine, altrimenti il domani sarà segnato da paure, da nuovi totalitarismi. E anche l’arte e l’estetica moriranno»
di Antonio Giorgi
«Torniamo al verbo, alla parola. Mettiamo un freno al dilagare e al predominio asfissiante dell'immagine, altrimenti il domani sarà segnato da paure incontrollabili, dal rischio di nuovi totalitarismi, dalla prospettiva di sanguinose guerre civili». Conversare con Paul Virilio è sempre uno stimolante esercizio di approfondimento e verifica della realtà che circonda l'uomo metropolitano di oggi. Filosofo, politologo, urbanista e mass-mediologo lo studioso francese è oggi uno dei più raffinati interpreti della cultura transalpina moderna; nel suo buen retiro della Rochelle, ai bordi dell'Atlantico, dove si è appartato al termine di una intesa carriera parigina, si è dato l'impegno di vivere da cittadino del mondo indifferente alle lusinghe anche sotterranee del nazionalismo, consapevole che la globalizzazione «va vissuta con i suoi rischi ma anche con le sue speranze». Scrive molto, Virilio. Il suo ultimo saggio L'Art à perte de vue (pubblicato in Italia da Raffaello Cortina con il titolo L'arte dell'accecamento, pagine 104, euro 8,50) è una articolata denuncia dei mali indotti dalla ricorrente sovraesposizione mass-mediatica, dove il sensibile è diventato il fotosensibile, l'obiettività una teleobiettività. «È accaduto - lamenta l'autore del pamphlet - ciò che era inevitabile, abbiamo disappreso l'arte di vedere».
Affermazione paradossale, la sua. Non è questa la stagione dell'immagine? Non viviamo sommersi dalla realtà fotografica e da quella catodica?
«Appunto. Anneghiamo nelle immagini della tv, ma la parallela restrizione del campo ottico al solo teleschermo induce una perdita della lateralità. È come se avessimo il glaucoma, ci manca la percezione della sconfinata realtà che sta a lato del televisore, o anche del telescopio, o del telefonino, o del computer. Lo schermo rimpiazza l'orizzonte, e per contro il nostro orizzonte è limitato allo schermo. Ci illudiamo di vedere tutto, invece l'occhio non scorge quasi nulla».
Con quali conseguenze, dirette e indirette?
«Si parla sempre di obiettività, nel campo dell'informazione la si invoca a proposito e a sproposito, ma ormai stiamo transitando dall'obiettività alla teleobiettività, nel senso che la visione lontana nasconde quella vicina con imponenti ricadute sulla intersoggettività. La prospettiva del tempo reale presentata dallo schermo tv domina e vela la prospettiva dello spazio reale della vita, che ha fondato l'arte contemporanea. Intendiamoci, questa dominanza non coinvolge solo la rappresentazione artistica, non è unicamente un fatto estetico. Ne viene coinvolta la natura. Ne è toccata perfino la politica. Non ci rendiamo conto che la politica di questi anni è sempre più interconnessa al fattore paura?»
Nel senso che il potere nelle sue articolazioni sfrutta paure private e collettive per liberarsi dai lacci del controllo democratico e agire con mano libera?
«Anche. Infatti siamo passati dall'epoca della dissuasione militare - che si reggeva sull'equilibrio del terrore degli ultimi decenni del secolo scorso - alla stagione della dissuasione civile che trae alimento da infinite paure, non solo quella terroristica dopo l'11 settembre. Pensiamo alla paura di perdere il lavoro in epoca di globalizzazione, alla paura dell'emigrazione (io sono figlio di emigrati italiani, tengo a dirlo) e a tutti gli altri timori e incubi che agitano i nostri sonni. La paura è diventata il cuore del politico, cioè di tutto quanto è politico. Non è più un fatto individuale, perché allora puoi reagire con il coraggio. La paura si è fatta collettiva, e puoi solo subirla come la subivo io quando ero ragazzo durante la guerra. Ha svariati nomi: globalizzazione, delocalizzazione produttiva, disoccupazione, perdita della casa, inflazione, arrivo massiccio degli stranieri... Tutte le paure però convergono, sicché agli incubi della guerra fredda sono subentrate le angosce di una condizione generalizzata che definisco di panico fred do».
In questo orizzonte fosco riesce a cogliere elementi capaci di alimentare la speranza di un futuro migliore? Oppure l'avvenire dell'umanità è segnato?
«Alla disperazione non bisogna mai cedere. Trovo molto bella quell'affermazione di Churchill che dipingeva l'ottimista come un uomo che sa vedere una opportunità in ogni calamità. Io sono cristiano praticante, fervente, convertito da adulto; si figuri se posso vivere senza speranza. La stessa globalizzazione ne racchiude vari alcuni germi, non neghiamolo».
Quale vuol essere allora il messaggio autentico che proporre il suo saggio sull'accecamento massmediatico della società contemporanea?
«Mentre l'arte di vedere è diventata una vittima della modernità non posso non sottolineare che vedere e sapere erano i principi attorno ai quali si articolava la ricerca scientifica e la speculazione culturale dopo il secolo dei lumi. Vedere e potere assumono identica valenza nel XXI secolo, ora che siamo passati dal telescopio di Galileo e di Newton alla tele-percezione politica. Non dimentichiamo che se le società totalitarie hanno tentato di imporre politiche pan-ottiche, di per sé massificanti, anche la società globale che si annuncia possiede i mezzi audio e televisivi che possono indurla a ripetere errori costati cari all'umanità. Dunque il problema non è la gestione più o meno centralizzata della visione planetaria in chiave di Weltanschaung, ma l'affermazione di una nuova filosofia della tele-visione del mondo capace - grazie alla corretta interpretazione della realtà vicina e lontana - di far sopravvivere la democrazia e ricostruire un clima generale di pace civile. Dietro la più parte delle paure c'è la minaccia della guerra. Civile, non tradizionale. Civile, e pertanto più tragica».
La scuola, l'università, la cultura che apporto possono offrire al superamento della cecità provocata dal dilagare dell'immagine?
«Questi tre soggetti devono battersi per il ritorno al ve rbo, alla parola. La politica, "il politico" è fondato sulla parola, sul verbo, sulla scrittura. È sempre stato così, dalla polis greca al mondo contemporaneo. Quando, come rischia di accadere oggi, l'immagine istantanea trionfa sul verbo, è la tirannide. Tirannide del tempo reale, tirannide mediatica, dell'ubiquità, dell'immediatezza cronologica. La democrazia soffoca e si impone la babele, confusione di lingue e di immagini. Mentre l'immagine domina e la fa da padrona assoluta, la parola cade in una condizione di sudditanza e nascono i guai. Tocca a noi far vincere il verbo».
«Avvenire» del 23 maggio 2007

Nessun commento: