A colloquio con l’autore della “Storia naturale dei giganti”: il mondo è diventato troppo serio, ci sfugge la nostra limitatezza
di Bruno Ventavoli
Alabastro tirava sassi contro i monaci distraendo le loro preghiere. Urgano se ne intendeva di matematica. C'era chi annientava eserciti e chi aspirava alla vita borghese con tanto di moglie (orribile e molesta). Questi sono i giganti, figure fantastiche della letteratura cavalleresca del Rinascimento, poi estinti come un sogno troppo grande e troppo fragile per stare al passo con il mondo furbesco a razionale. Ci pensa Ermanno Cavazzoni, uno dei più eterodossi scrittori italiani, a restituir loro vita nella Storia naturale dei giganti (Guanda), un meraviglioso catalogo di omaccioni, con le gesta, i costumi alimentari, i pasticci che combinavano, le vergini che rapivano senza saper bene che farsene.
Cavazzoni insegna estetica all’Università di Bologna, ha lavorato con musicisti e registi, ha scherzato con Vite brevi di idioti e pure con i santi della Leggenda aurea di Jacopo da Varazze, seguendo sempre un personale itinerario sul filo del paradosso. «Per tutto il tempo che ho dedicato a scrivere nella mia vita dovrei essere miliardario - dice -. E invece su per giù sono un cittadino della fascia media di reddito, o medio-bassa vista la ricchezza generale che c'è. Ma non sono pentito». Tra le molte cose della sua vita, ha studiato anche i poemi cavallereschi. Ed è lì che stavolta ha smarrito il senno, perché per scrivere ci vuole sempre un pizzico di follia. «Mi sento un po' come Don Chisciotte, talmente esaltato dai poemi che ho letto, da partire lancia in resta per farli rivivere, perché mi dispiace siano scomparsi».
La Storia naturale dei giganti si può leggere come una dottissima enciclopedia. Come ogni saggio che si rispetti è munita di un preciso e ironico indice delle fonti, dagli inevitabili Pulci e Ariosto, ai sorprendenti Cassio da Narni, a Dragoncino da Fano, ma anche Lenin, Keynes, o Lombroso. «Ho un rapporto contrastato con le note del mondo accademico. Da una parte le adoro. Penso alle grandi edizioni critiche dei testi, con quella meravigliosa esibizione di sapere e erudizione. Dall'altro mi fanno sorridere. Nei saggi che si preparano per i concorsi viene assunta una lingua assurda, zeppa di formule vuote come il burocratese dei ministeri. Sembra il latino di Azzeccagarbugli, inventato per darsi credibilità. Le scienze forti non hanno paura di scherzare sui termini, parlano di "stringhe", di "Big bang", che in fondo è solo un grande botto. Nel campo delle scienze umane, che sono poco scientifiche, c'è invece il timore massimo dell'ironia. E così nascono i termini della semiologia, tipo "gli attanti", che sembrano seri e invece sono solo suoni un po' inutili».
La Storia naturale dei giganti si può leggere anche come un romanzo, perché lo scrittore Cavazzoni si sdoppia in un alter ego che racconta l'accanimento maniacale dello studioso, tutto dedito alla stesura del trattato sui giganti, ma anche distratto da una bizzosa Monica, che gli spiega le sue gesta amatorie, insinuandogli nella mente pensieri impudichi e furiose gelosie. «Quando pubblichi un saggio accademico bisogna eliminare tutto ciò che riguarda l'io. Si parla in modo oggettivo, in prima persona plurale... "noi riteniamo...". Questo libro, invece, non taglia via le variazioni dell'umore, i disturbi che uno studioso subisce come essere umano. Avrei potuto scrivere un saggio serissimo sui poemi cavallereschi, ma l'idea mi ripugnava. Mi sarei sentito un vile a usare qualcosa che amo moltissimo ai fini della carriera. Sarebbe come usare la fidanzata per vincere un concorso. Per questo in mezzo a Curzio Gonzaga o Marco Guazzo ci sono le incursioni di Monica. È come le verginelle dei poemi, la rovina dei cavalieri, ma anche la molla che li fa vivere. Senza un'Angelica da inseguire non sarebbero nulla».
Gli ultimi giganti letterari sono stati quelli di Michaux. Oppure quelli bellissimi, veri, struggenti, raccontati da un freniatra dell'800. Abitavano in un manicomio in mezzo a dementi, microcefali, piromani, gemelli siamesi. Il professore li teneva tutti insieme per studiarli. Un giorno, il tal Gino Degli Esposti, stanco di essere preso in giro, divelse una porta e diede di matto. Ci vollero frotte di infermieri per fermarlo. Ma soprattutto una suora, che ogni giorno veniva a calmare i giganti dando loro il suo seno da succhiare («Chi sarà più buono oggi avrà il premio» diceva). E gli altri stavano buoni, inebetiti, a guardare. Intanto, una sorella esaminava il membro passivo dei giganti, «ispezione» diceva, e se notava una piccola reviviscenza colpiva il moncherino con una piccola bacchetta «perché non s'azzardasse».
Cavazzoni, nella sua lunga carriera di studioso e scrittore, ha sempre scelto il comico, la levità dell'intelligenza. «Ma è una disgrazia personale. Perché le cose serie hanno una nomea migliore. Ricordo uno zio, alto dirigente, che fu rimosso perché l'accusavano di essere troppo ironico sulle questioni aziendali. Il mondo è diventato troppo serio, nulla ammette più la dimensione comica. E questa politica che ruba, per esempio, se si rendesse conto che fra qualche anno sarà morta, se sentisse di stare al mondo come una breve commedia, forse sarebbe più onesta». Già, a proposito di politici, va oggi di moda definirsi antipolitici, e fingere di scardinare il politichese con luccicanti sorrisi e chiassoso sfoggio di barzellette. «Attenzione, però, la barzelletta è solo un moto epilettico. Sono insopportabili, come il solletico che fa ridere toccando un nervo. La comicità è tutt’altra cosa. Marco Aurelio è stato imperatore in un'epoca movimentata e pericolosa, era la figura più potente della Terra, ma scriveva memorie piene di dubbi e scetticismi, rifletteva sulla miseria dell'essere imperatore, sulla meschinità del potere, sul senso del vivere. Non faceva certamente il comico, ma il comico è qualcosa di molto simile... è quel sentire la limitatezza del nostro essere al mondo».
Cavazzoni insegna estetica all’Università di Bologna, ha lavorato con musicisti e registi, ha scherzato con Vite brevi di idioti e pure con i santi della Leggenda aurea di Jacopo da Varazze, seguendo sempre un personale itinerario sul filo del paradosso. «Per tutto il tempo che ho dedicato a scrivere nella mia vita dovrei essere miliardario - dice -. E invece su per giù sono un cittadino della fascia media di reddito, o medio-bassa vista la ricchezza generale che c'è. Ma non sono pentito». Tra le molte cose della sua vita, ha studiato anche i poemi cavallereschi. Ed è lì che stavolta ha smarrito il senno, perché per scrivere ci vuole sempre un pizzico di follia. «Mi sento un po' come Don Chisciotte, talmente esaltato dai poemi che ho letto, da partire lancia in resta per farli rivivere, perché mi dispiace siano scomparsi».
La Storia naturale dei giganti si può leggere come una dottissima enciclopedia. Come ogni saggio che si rispetti è munita di un preciso e ironico indice delle fonti, dagli inevitabili Pulci e Ariosto, ai sorprendenti Cassio da Narni, a Dragoncino da Fano, ma anche Lenin, Keynes, o Lombroso. «Ho un rapporto contrastato con le note del mondo accademico. Da una parte le adoro. Penso alle grandi edizioni critiche dei testi, con quella meravigliosa esibizione di sapere e erudizione. Dall'altro mi fanno sorridere. Nei saggi che si preparano per i concorsi viene assunta una lingua assurda, zeppa di formule vuote come il burocratese dei ministeri. Sembra il latino di Azzeccagarbugli, inventato per darsi credibilità. Le scienze forti non hanno paura di scherzare sui termini, parlano di "stringhe", di "Big bang", che in fondo è solo un grande botto. Nel campo delle scienze umane, che sono poco scientifiche, c'è invece il timore massimo dell'ironia. E così nascono i termini della semiologia, tipo "gli attanti", che sembrano seri e invece sono solo suoni un po' inutili».
La Storia naturale dei giganti si può leggere anche come un romanzo, perché lo scrittore Cavazzoni si sdoppia in un alter ego che racconta l'accanimento maniacale dello studioso, tutto dedito alla stesura del trattato sui giganti, ma anche distratto da una bizzosa Monica, che gli spiega le sue gesta amatorie, insinuandogli nella mente pensieri impudichi e furiose gelosie. «Quando pubblichi un saggio accademico bisogna eliminare tutto ciò che riguarda l'io. Si parla in modo oggettivo, in prima persona plurale... "noi riteniamo...". Questo libro, invece, non taglia via le variazioni dell'umore, i disturbi che uno studioso subisce come essere umano. Avrei potuto scrivere un saggio serissimo sui poemi cavallereschi, ma l'idea mi ripugnava. Mi sarei sentito un vile a usare qualcosa che amo moltissimo ai fini della carriera. Sarebbe come usare la fidanzata per vincere un concorso. Per questo in mezzo a Curzio Gonzaga o Marco Guazzo ci sono le incursioni di Monica. È come le verginelle dei poemi, la rovina dei cavalieri, ma anche la molla che li fa vivere. Senza un'Angelica da inseguire non sarebbero nulla».
Gli ultimi giganti letterari sono stati quelli di Michaux. Oppure quelli bellissimi, veri, struggenti, raccontati da un freniatra dell'800. Abitavano in un manicomio in mezzo a dementi, microcefali, piromani, gemelli siamesi. Il professore li teneva tutti insieme per studiarli. Un giorno, il tal Gino Degli Esposti, stanco di essere preso in giro, divelse una porta e diede di matto. Ci vollero frotte di infermieri per fermarlo. Ma soprattutto una suora, che ogni giorno veniva a calmare i giganti dando loro il suo seno da succhiare («Chi sarà più buono oggi avrà il premio» diceva). E gli altri stavano buoni, inebetiti, a guardare. Intanto, una sorella esaminava il membro passivo dei giganti, «ispezione» diceva, e se notava una piccola reviviscenza colpiva il moncherino con una piccola bacchetta «perché non s'azzardasse».
Cavazzoni, nella sua lunga carriera di studioso e scrittore, ha sempre scelto il comico, la levità dell'intelligenza. «Ma è una disgrazia personale. Perché le cose serie hanno una nomea migliore. Ricordo uno zio, alto dirigente, che fu rimosso perché l'accusavano di essere troppo ironico sulle questioni aziendali. Il mondo è diventato troppo serio, nulla ammette più la dimensione comica. E questa politica che ruba, per esempio, se si rendesse conto che fra qualche anno sarà morta, se sentisse di stare al mondo come una breve commedia, forse sarebbe più onesta». Già, a proposito di politici, va oggi di moda definirsi antipolitici, e fingere di scardinare il politichese con luccicanti sorrisi e chiassoso sfoggio di barzellette. «Attenzione, però, la barzelletta è solo un moto epilettico. Sono insopportabili, come il solletico che fa ridere toccando un nervo. La comicità è tutt’altra cosa. Marco Aurelio è stato imperatore in un'epoca movimentata e pericolosa, era la figura più potente della Terra, ma scriveva memorie piene di dubbi e scetticismi, rifletteva sulla miseria dell'essere imperatore, sulla meschinità del potere, sul senso del vivere. Non faceva certamente il comico, ma il comico è qualcosa di molto simile... è quel sentire la limitatezza del nostro essere al mondo».
«La Stampa» dell’8 giugno 2007
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