Cambiando nome ma conservando la stessa classe dirigente nulla cambierà davvero
di Piero Ostellino
Non vorrei deludere i miei amici Paolo Mieli - che ne ha celebrato solennemente la nascita su queste stesse colonne - e Michele Salvati, che tanto si è adoperato per farlo nascere, ma confesso di avere qualche difficoltà a immaginarmi l’ex allievo delle Frattocchie (la scuola-quadri del Pci), Massimo D’Alema, e il dossettiano Romano Prodi diventare «americani» solo perché Ds e Margherita si sono fusi dando vita a un partito che si chiamerà «democratico» proprio per riecheggiare l’esperienza di quello statunitense. Strano Paese il nostro. Si pensa seriamente che, cambiando nome ma conservando la stessa classe dirigente, un partito si trasformi in un altro, con una nuova cultura politica e nuove idee. Riuscite a vederlo, voi, Vincenzo Visco che si convince ad applicare agli italiani le stesse aliquote fiscali del contribuente negli Usa solo perché milita in un partito che fa il verso al Partito democratico americano? Io, francamente, no. Del resto, il processo di formazione di un nuovo soggetto politico non dovrebbe svilupparsi all’incontrario: prima, la scomparsa della vecchia classe dirigente; successivamente, la comparsa, al suo posto, di una nuova dirigenza; quindi, l’emersione di una cultura politica diversa e innovativa rispetto a quella del passato; infine, la nascita del nuovo organismo cui dare una nuova ragione sociale? Mah. La speranza è che la nascita del nuovo partito della sinistra finisca col produrre un effetto positivo anche a destra, favorendo una trasformazione dello stesso sistema politico. Stiamo, allora, per diventare, sul serio, tutti «americani», con l’eccezione, si intende, di Bertinotti, Diliberto e Pecoraro Scanio? A me non spiacerebbe. Non so, però, quanto farebbe felici proprio tutti. Se, ad esempio, l’Italia diventasse l’America, il presidente del Consiglio e certi suoi ministri, un po’troppo chiacchieroni sul caso Telecom, riceverebbero probabilmente una comunicazione della Consob per turbativa dei mercati. Finalmente, qualcuno incomincerebbe a chiedersi se non sarebbe il caso di sospendere, in Borsa, le contrattazioni sul titolo Alitalia che, da due anni, è scandalosamente esposto ai venti dell’aggiotaggio, fluttuando in alto e in basso secondo l’andamento delle offerte d’acquisto dell’azienda, e delle susseguenti rinunce, intorno a una base d’asta improvvidamente rivelata addirittura dal ministro delegato al suo controllo. La nascita del Partito democratico è, dunque, una ulteriore manifestazione del trasformismo italico? Sarebbe riduttivo dirlo. È una geniale operazione di marketing politico per fornire al popolo dell’Ulivo un nuovo alibi per continuare, malgrado tutto, a votare a sinistra? Sarebbe ingiusto. Piuttosto, a me pare il tentativo della sinistra che si vuole riformista - in crisi di identità culturale e di iniziativa politica - di uscirne con un esperimento di ingegneria partitica e parlamentare. Ci riuscirà? Ne dubito. La sconfitta dei riformisti, non solo di quelli di sinistra ma anche di destra, è culturale. Essa si sostanzia, innanzi tutto, nell’incapacità di conoscere, capire e comparare le esperienze dei sistemi politici e economici delle democrazie liberali più avanzate per trarne dati oggettivi e non vulgate ideologiche; in secondo luogo e conseguentemente, nell’inadeguatezza a offrire riferimenti cui attingere empiricamente per trasferire alla situazione italiana tipologie alternative di soluzioni politiche concretamente applicabili; infine, nell’assenza di leadership e di volontà capaci di tradurle in «politiche» e di imporle. È improbabile, in tali condizioni, che la gallina vecchia faccia buon brodo.
«Corriere della Sera» del 21 aprile 2007
Nessun commento:
Posta un commento