Gabriele Nissim ha raccolto in un libro la testimonianza della figlia di Gino De Marchi fucilato nel 1938 come «nemico del popolo»
di Marina Gersony
Aveva tredici anni, era bellissima e animata da forti ideali. Non poteva essere che così, con quel padre speciale e diverso da tutti. Luciana De Marchi era nata a Mosca nel 1924. Il padre Gino, regista cinematografico con il compito di documentare le conquiste del socialismo nell’Unione Sovietica, era tutto per lei. Quell’uomo idealista e onesto le aveva insegnato a guardare il mondo attraverso una lente benevola, dove l’umanità avrebbe potuto potenziare i principî di uguaglianza e solidarietà. A furia di sentir parlare di socialismo, riscatto dei poveri e nascita di un nuovo mondo, la giovane si era convinta di crescere in un cerchio fatato. Il suo sogno, come per tanti ragazzi della sua età, era diventare una comunista militante, poter indossare la camicia bianca con il fazzoletto rosso e lo stemma di Lenin. Non sapeva ancora che cosa le avrebbe riservato il destino.
Con il suo ultimo saggio romanzato, Una bambina contro Stalin (Mondadori, pagg. 278, euro 18), Gabriele Nissim conclude quella che potremmo definire una «trilogia del Bene e del Male», un percorso storico, politico ma soprattutto umano attraverso un secolo dominato dalla certezza che l’emancipazione si realizza con la distruzione degli uomini «inferiori» o «migliori» secondo le ideologie: da un lato in Germania dove la furia nazista perseguiva l’obiettivo di depurare la razza ariana dal virus ebraico; dall’altro nell’Urss, dove i meno capaci discriminavano i più capaci per sentirsi tutti uguali. Persone straordinarie come Dimitar Peshev, l’uomo che fermò Hitler salvando gli ebrei bulgari o come Moshe Bejski, sopravvissuto ad Auschwitz grazie alla famosa lista di Oskar Schindler, che ha dedicato la vita alla ricerca dei «Giusti tra le Nazioni». Tutte persone alle quali Nissim ha reso giustizia. Una di loro è Gino Marchi.
Gino nacque nel 1902 a Fossano, in Piemonte, dove giovanissimo iniziò la militanza politica. Era un ragazzo destinato a una carriera gloriosa all’interno del Partito, illuso che fosse la classe operaia a produrre gli uomini «buoni» di cui voleva far parte. Fu presto nominato segretario della Federazione provinciale socialista per poi assumere la direzione torinese del sindacato degli operai del legno e approdare alla Fiat, allora luogo del più alto scontro sociale. Il giovane, implicato in un’operazione politica, fu costretto a svelare ai carabinieri dov’erano nascoste le armi che i comunisti avevano ritirato dopo la sconfitta degli operai in vista di un’eventuale sommossa. Confessare voleva dire far arrestare i suoi complici, tacere significava guai sicuri per la madre. Decise di parlare. Ma la sua rimase una colpa «politica» che gli valse l’accusa di essere una spia della polizia, l’espulsione dall’Italia e l’esilio nella Russia di Lenin.
Da quel momento la breve vita di Gino fu un susseguirsi di trappole e ingiustizie perpetrate da un sistema che non conosceva pietà né limiti: il «colpevole» avrebbe pagato per espiare il peccato originale finendo in carcere e poi in un campo di concentramento a Vladykino. Seguirono malattie, tormenti psicologici fino alla temporanea liberazione nel ’22 grazie all’intervento di Antonio Gramsci, amico di vecchia data che più volte si adoperò nell’aiutarlo. Gino fu riaccolto nel «sistema» con un incarico nell’industria cinematografica nonostante su di lui incombesse il sospetto di essere un nemico del popolo. Fu infine un amico, un «insospettabile», a tradirlo con false accuse. Venne fucilato a Butovo, nei pressi di Mosca, il 3 giugno 1938.
Pagina dopo pagina, con una notevole capacità descrittiva, Nissim dipinge il milieu ansiogeno di quegli anni, il clima di sospetto dominato dalla paura: paura di parlare, di lasciarsi sfuggire una sola parola «sbagliata». Gli stessi familiari erano potenziali delatori. Storie da raccapriccio, simili e sempre diverse, le stesse emerse dopo la disgregazione dell’Urss e nel dopo-Muro con l’apertura degli archivi di Stato; tonnellate di testimonianze che raccontano le nefandezze della polizia: la Stasi in Germania con i suoi ofizielle o inofizielle Mitarbeiter; la Securitate in Romania; il Kgb in Russia. Vicende come quelle narrate dal regista Florian Henckel von Donnersmark nel film Le vite degli altri.
Eppure la solitaria battaglia che Luciana compie a Mosca per la ricerca e la difesa del padre dall’età di tredici anni fino ai giorni nostri - diventando così la protagonista del libro - si svolge nel terribile clima del terrore staliniano, ma è anche una metafora sulla condizione umana e sul senso della vita. Luciana non riesce a cambiare la Storia, ma con la sua ostinazione al termine del percorso ottiene la riabilitazione del padre e vince la battaglia contro Stalin. Il male spesso è insormontabile, ma tutti gli individui hanno la possibilità di porsi nel loro piccolo come argine nei suoi confronti. È questo il messaggio che Nissim ha voluto trasmettere.
Con il suo ultimo saggio romanzato, Una bambina contro Stalin (Mondadori, pagg. 278, euro 18), Gabriele Nissim conclude quella che potremmo definire una «trilogia del Bene e del Male», un percorso storico, politico ma soprattutto umano attraverso un secolo dominato dalla certezza che l’emancipazione si realizza con la distruzione degli uomini «inferiori» o «migliori» secondo le ideologie: da un lato in Germania dove la furia nazista perseguiva l’obiettivo di depurare la razza ariana dal virus ebraico; dall’altro nell’Urss, dove i meno capaci discriminavano i più capaci per sentirsi tutti uguali. Persone straordinarie come Dimitar Peshev, l’uomo che fermò Hitler salvando gli ebrei bulgari o come Moshe Bejski, sopravvissuto ad Auschwitz grazie alla famosa lista di Oskar Schindler, che ha dedicato la vita alla ricerca dei «Giusti tra le Nazioni». Tutte persone alle quali Nissim ha reso giustizia. Una di loro è Gino Marchi.
Gino nacque nel 1902 a Fossano, in Piemonte, dove giovanissimo iniziò la militanza politica. Era un ragazzo destinato a una carriera gloriosa all’interno del Partito, illuso che fosse la classe operaia a produrre gli uomini «buoni» di cui voleva far parte. Fu presto nominato segretario della Federazione provinciale socialista per poi assumere la direzione torinese del sindacato degli operai del legno e approdare alla Fiat, allora luogo del più alto scontro sociale. Il giovane, implicato in un’operazione politica, fu costretto a svelare ai carabinieri dov’erano nascoste le armi che i comunisti avevano ritirato dopo la sconfitta degli operai in vista di un’eventuale sommossa. Confessare voleva dire far arrestare i suoi complici, tacere significava guai sicuri per la madre. Decise di parlare. Ma la sua rimase una colpa «politica» che gli valse l’accusa di essere una spia della polizia, l’espulsione dall’Italia e l’esilio nella Russia di Lenin.
Da quel momento la breve vita di Gino fu un susseguirsi di trappole e ingiustizie perpetrate da un sistema che non conosceva pietà né limiti: il «colpevole» avrebbe pagato per espiare il peccato originale finendo in carcere e poi in un campo di concentramento a Vladykino. Seguirono malattie, tormenti psicologici fino alla temporanea liberazione nel ’22 grazie all’intervento di Antonio Gramsci, amico di vecchia data che più volte si adoperò nell’aiutarlo. Gino fu riaccolto nel «sistema» con un incarico nell’industria cinematografica nonostante su di lui incombesse il sospetto di essere un nemico del popolo. Fu infine un amico, un «insospettabile», a tradirlo con false accuse. Venne fucilato a Butovo, nei pressi di Mosca, il 3 giugno 1938.
Pagina dopo pagina, con una notevole capacità descrittiva, Nissim dipinge il milieu ansiogeno di quegli anni, il clima di sospetto dominato dalla paura: paura di parlare, di lasciarsi sfuggire una sola parola «sbagliata». Gli stessi familiari erano potenziali delatori. Storie da raccapriccio, simili e sempre diverse, le stesse emerse dopo la disgregazione dell’Urss e nel dopo-Muro con l’apertura degli archivi di Stato; tonnellate di testimonianze che raccontano le nefandezze della polizia: la Stasi in Germania con i suoi ofizielle o inofizielle Mitarbeiter; la Securitate in Romania; il Kgb in Russia. Vicende come quelle narrate dal regista Florian Henckel von Donnersmark nel film Le vite degli altri.
Eppure la solitaria battaglia che Luciana compie a Mosca per la ricerca e la difesa del padre dall’età di tredici anni fino ai giorni nostri - diventando così la protagonista del libro - si svolge nel terribile clima del terrore staliniano, ma è anche una metafora sulla condizione umana e sul senso della vita. Luciana non riesce a cambiare la Storia, ma con la sua ostinazione al termine del percorso ottiene la riabilitazione del padre e vince la battaglia contro Stalin. Il male spesso è insormontabile, ma tutti gli individui hanno la possibilità di porsi nel loro piccolo come argine nei suoi confronti. È questo il messaggio che Nissim ha voluto trasmettere.
«Il Giornale» del 16 giugno 2007
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