Ricadute del nuovo contratto statali
di Giuseppe Savagnone
Ci si può solo rallegrare che anche il personale scolastico sia in condizione di fruire dell'aumento ottenuto in questi giorni dagli statali. Ma c'è da chiedersi se questo miglioramento economico possa da solo rispondere agli enormi problemi dell'istruzione pubblica nel nostro Paese. Da mesi, ormai, le cronache sono piene degli episodi di violenza che si susseguono nelle aule scolastiche. L'opinione pubblica si chiede, sempre più insistentemente, che fine abbia fatto l'autorità dei docenti, spesso impotenti spettatori, se non addirittura vittime delle tristi gesta dei propri alunni o dei loro genitori. Forse mai come in questo momento l'immagine dell'insegnante è stata, nell'immaginario collettivo, svalutata e avvilita.
Siamo solo all'ultimo stadio di un processo che dura ormai da anni. I professori, in Italia, sono sempre stati mal pagati. Ma, fino a quarant'anni fa, avevano un prestigio sociale che derivava dal loro ruolo culturale ed educativo. Oggi, orfani della "missione" - vuota retorica, si diceva! - , si ritrovano ad essere intruppati nel milione circa di dipendenti del Ministero della pubblica istruzione e privati di ogni identità specifica. Quando il ministro Moratti cercò, in occasione del precedente rinnovo del contratto di lavoro, di realizzare un accordo separato per gli insegnanti, che rispondesse a loro specifiche esigenze di professionalità, fu accusata dalla quasi totalità dei sindacati di voler dividere il personale scolastico e costretta ad abbandonare il progetto. Ormai da molto tempo la scuola - e sotto tutti i governi (anche quello di cui faceva parte la Moratti stessa) - si è ridotta ad essere un ammortizzatore sociale, in un gioco perverso che fa convergere lo Stato e i rappresentanti dei lavoratori nell'unico intento fondamentale di assicurare l'occupazione, lasciando in secondo piano - è un eufemismo! - la qualità dei docenti e del loro impegno. L'Amministrazione dà a tutti poco, e in cambio non chiede niente a nessuno.
Il risultato di questa situazione è l'annullamento delle differenze. I titoli di cultura non contano nulla. La creatività didattica, l'impegno nel dialogo educativo, sono diventati fattori secondari, rispetto al coinvolgimento in ruoli burocratici e alla gestione di progetti di ogni tipo. Nella scuola non esiste altra possibilità di uscire dall'anonimato, non esiste carriera. Dopo trenta o quarant'anni di servizio, un professore è trattato, e non solo sotto il profilo economico, come un numero.
Un piccolo episodio, a titolo esemplificativo. In vista della nomina per gli imminenti esami di Stato, era stata offerta di nuovo ai docenti la possibilità di scegliere tra varie sedi (otto!), indicando la loro anzianità di servizio. Qualcuno si era rallegrato, pensando che, se pure l'Amministrazione non aveva mai tenuto conto dei libri da lui pubblicati, della partecipazione a convegni, della collaborazione a giornali e riviste, mostrava almeno rispetto per il lavoro svolto in tanti anni. Adesso che le nomine sono state fatte, si è visto che esse sono state ispirate a meri criteri di risparmio, prescindendo interamente da quelle preferenze (ma allora perché chiederle?).
È solo un esempio, in sé ben poco importante, ma emblematico. C'è da stupirsi della scarsa incisività di questo "docente senza qualità" di fronte a una situazione complessa di transizione, che richiederebbe una forte consapevolezza del proprio ruolo da parte sua e un chiaro riconoscimento da parte dello Stato? Come sperare che, in questo generale misconoscimento della peculiarità culturale ed educativa dei professori, essi possano ritrovare l'autorevolezza per assolvere il loro delicatissimo compito?
Certo, il ministro Fioroni non è responsabile del passato. Ma adesso tocca a lui, per la sua carica, gestire il presente. E chiedersi come rispondere alla demotivazione di tanti docenti che sospettano non solo di essere un numero, ma che questo numero sia lo zero.
Siamo solo all'ultimo stadio di un processo che dura ormai da anni. I professori, in Italia, sono sempre stati mal pagati. Ma, fino a quarant'anni fa, avevano un prestigio sociale che derivava dal loro ruolo culturale ed educativo. Oggi, orfani della "missione" - vuota retorica, si diceva! - , si ritrovano ad essere intruppati nel milione circa di dipendenti del Ministero della pubblica istruzione e privati di ogni identità specifica. Quando il ministro Moratti cercò, in occasione del precedente rinnovo del contratto di lavoro, di realizzare un accordo separato per gli insegnanti, che rispondesse a loro specifiche esigenze di professionalità, fu accusata dalla quasi totalità dei sindacati di voler dividere il personale scolastico e costretta ad abbandonare il progetto. Ormai da molto tempo la scuola - e sotto tutti i governi (anche quello di cui faceva parte la Moratti stessa) - si è ridotta ad essere un ammortizzatore sociale, in un gioco perverso che fa convergere lo Stato e i rappresentanti dei lavoratori nell'unico intento fondamentale di assicurare l'occupazione, lasciando in secondo piano - è un eufemismo! - la qualità dei docenti e del loro impegno. L'Amministrazione dà a tutti poco, e in cambio non chiede niente a nessuno.
Il risultato di questa situazione è l'annullamento delle differenze. I titoli di cultura non contano nulla. La creatività didattica, l'impegno nel dialogo educativo, sono diventati fattori secondari, rispetto al coinvolgimento in ruoli burocratici e alla gestione di progetti di ogni tipo. Nella scuola non esiste altra possibilità di uscire dall'anonimato, non esiste carriera. Dopo trenta o quarant'anni di servizio, un professore è trattato, e non solo sotto il profilo economico, come un numero.
Un piccolo episodio, a titolo esemplificativo. In vista della nomina per gli imminenti esami di Stato, era stata offerta di nuovo ai docenti la possibilità di scegliere tra varie sedi (otto!), indicando la loro anzianità di servizio. Qualcuno si era rallegrato, pensando che, se pure l'Amministrazione non aveva mai tenuto conto dei libri da lui pubblicati, della partecipazione a convegni, della collaborazione a giornali e riviste, mostrava almeno rispetto per il lavoro svolto in tanti anni. Adesso che le nomine sono state fatte, si è visto che esse sono state ispirate a meri criteri di risparmio, prescindendo interamente da quelle preferenze (ma allora perché chiederle?).
È solo un esempio, in sé ben poco importante, ma emblematico. C'è da stupirsi della scarsa incisività di questo "docente senza qualità" di fronte a una situazione complessa di transizione, che richiederebbe una forte consapevolezza del proprio ruolo da parte sua e un chiaro riconoscimento da parte dello Stato? Come sperare che, in questo generale misconoscimento della peculiarità culturale ed educativa dei professori, essi possano ritrovare l'autorevolezza per assolvere il loro delicatissimo compito?
Certo, il ministro Fioroni non è responsabile del passato. Ma adesso tocca a lui, per la sua carica, gestire il presente. E chiedersi come rispondere alla demotivazione di tanti docenti che sospettano non solo di essere un numero, ma che questo numero sia lo zero.
«Avvenire» del 1 giugno 2007
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