16 luglio 2007

Il corpo del Cristo: e un’immagine cambiò la storia del mondo

Lo studioso tedesco Hans Belting ha ricostruito i significati della rappresentazione del Volto Santo
di Sergio Luzzatto
Non poteva credere ai suoi occhi. Quando, nel buio rossiccio della camera oscura, i lineamenti del volto di Gesù Cristo avevano preso a delinearsi sulla lastra di vetro, l’avvocato Secondo Pia, fotografo dilettante a Torino, era rimasto sbigottito. Rivolgendosi al suo assistente, gli aveva detto in dialetto: «Varda, Carlin, se sossì a l’è nen un miràcol!». Un miracolo, questo lo sembrava per davvero. Fotografato per la prima volta, con l’aiuto di una potente illuminazione elettrica, un lenzuolo che i piemontesi veneravano da secoli come il sudario del Salvatore, la Sindone, aveva rivelato le forme di un corpo fino ad allora invisibile a occhio nudo. In camera oscura, sul negativo della fotografia del lenzuolo si era disegnata al positivo, improvvisamente chiarissima, la figura di un uomo con i capelli lunghi, barbuto, ferito alle mani ed ai piedi. Dopo diciannove secoli di storia cristiana, nuove tecnologie restituivano intatto lo spettacolo tragico e salvifico del Golgota. Era il 25 maggio 1898. L’avvocato Pia era stato invitato a fotografare la Sindone dal re in persona, Umberto I, che con l’ostensione e la riproduzione del Santissimo Sudario aveva voluto solennizzare il cinquantesimo anniversario dello Statuto Albertino. Ma chi avrebbe potuto aspettarsi una cosa simile, l’epifania fotografica di Gesù sotto la Mole? In un baleno la notizia si era sparsa in città, e alla processione dei pellegrini verso la cattedrale di Torino si era aggiunta una processione verso lo studio di Pia... La Sindone aveva inaugurato così la propria storia contemporanea, quella di un oggetto di culto assolutamente unico nel suo genere. Sintesi perfetta di corpo e di immagine. Impronta e ritratto. Antica reliquia e moderna fotografia. L’epifania subalpina del 1898 riusciva tanto più memorabile, in quanto il tema della rappresentabilità del corpus Christi era vecchio quanto il cristianesimo stesso. La vita del Gesù storico si era svolta infatti in un ambiente ebraico, dove dominava il divieto di fare immagini della divinità. Sul monte Sinai, Jahvè si era nascosto a Mosè quando gli aveva rimesso le tavole della legge; religione della scrittura, il monoteismo si era definito anche come una religione senza idoli. Ma l’inaudita incarnazione di Dio nel corpo umano del Messia, ragionarono i primi cristiani, aveva sottratto il monoteismo all’interdetto delle immagini. Il Dio fattosi uomo poteva ben essere rappresentato, se non altro, attraverso le tracce lasciate dal suo corpo. «Vedere» il corpo di Cristo, consumarne visivamente la Passione in un gesto necessario di pietà, oppure nascondere agli altri e a se stessi la memoria di quello spettacolo, ricordandosi del Vangelo secondo Giovanni: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno»? Insigne storico dell’arte, lo studioso tedesco Hans Belting è persuaso da tempo che fra queste due alternative si sia consumata una parte non trascurabile del dilemma estetico oltreché del vissuto religioso dei cristiani, dall’antichità ai giorni nostri. La vera immagine di Cristo si intitola quindi il suo ultimo libro, pubblicato da Bollati Boringhieri in un’elegante edizione italiana. Durante i primi secoli dell’era cristiana, nella rappresentazione iconografica di Gesù prevalse la cautela: piuttosto che figurazioni dirette di un giovane uomo, barbuto o meno, vivo o crocifisso, si ebbero immagini allegoriche del Pastore e del Maestro. La fede nell’esistenza di «vere immagini» di Cristo non si diffuse in Europa prima del VI secolo, fondandosi sull’idea di un contatto tra panno e corpo alla base della Croce. Dapprima si cercarono, poi si venerarono reliquie che portassero l’impronta di un corpo sopra un pezzo di stoffa: il tipo di segni che lasciano corpi nudi o insanguinati. Ma non si pretendeva, a quel tempo, di riconoscere nel tessuto la traccia di un ritratto. Si adorava un panno che si diceva essere venuto a contatto con il corpo di Gesù, senza volerci vedere un volto. Fu invece questa nel Medioevo la vicenda della Veronica, o Vera Icona: un lenzuolo venerato appunto come reliquia del Golgota, dove l’impronta di un viso barbuto appariva ben visibile, e che costituì l’attrazione principale dei pellegrini che si recavano a Roma nel Basso Medioevo (oggi, c’è chi riconosce tale reliquia, scomparsa dopo il Cinquecento, nel Volto Santo conservato presso il convento dei cappuccini di Manoppello, in Abruzzo, mentre altri la ritengono custodita in San Pietro). «Quell’imagine benedetta la quale Iesù Cristo lasciò per essemplo de la sua bellissima figura», fu la descrizione del panno nella Vita Nuova di Dante. Più mirabile di ogni altra mirabilia capitolina, il sudario con la Veronica non anticipava forse, tramite l’immagine del Figlio, la contemplazione che i beati avrebbero avuto del Padre? A partire dal Rinascimento, l’immagine del corpus Christi si affrancò dall’idea del contatto necessario di un corpo con un panno: volteggiò libera nello spazio dell’arte come in quello della devozione, sulle pale d’altare o sulle tele, sotto gli occhi o dentro il cuore delle anime fidenti. Più che mai nell’età del Manierismo e del Barocco, l’estetica religiosa visse di flagellazioni, di crocifissioni, di deposizioni, senza che si vincolasse l’immagine del sacrificio alla traccia lasciata su un panno dal corpo glorioso. Nondimeno, le «vere immagini» più straordinarie che Belting ci aiuta a guardare sono quelle di un pittore fra i massimi del Seicento spagnolo, Francisco de Zurbarán. Il quale, nella sua ricerca di cristiano prima ancora che di artista, avvertì forte il bisogno di ritornare proprio al supporto tessile, al panno, al sudario, per restituire compiutamente l’immagine della Passione. Nel corso della lunga sua carriera, ripetutamente Zurbarán dipinse una rappresentazione in trompe-l’oeil del sacro volto su un lenzuolo: ogni volta interpretando il soggetto in modo diverso, secondo quanto l’intensità della fede religiosa gli suggeriva in quel momento. Nella Santa Faz del 1631, che sta oggi al museo nazionale di Stoccolma, il pittore Zurbarán immagina esattamente (se così si può dire) quanto il fotografo Pia avrebbe scoperto nella Torino del 1898: tra le pieghe di un panno, il delinearsi netto e distinto dei tratti del Crocifisso! Più fascinosa ancora risulta tuttavia la Santa Faz di Valladolid, dipinta da Zurbarán oltre un quarto di secolo dopo, nel 1658. Qui, i tratti di un viso si distinguono a malapena sul lenzuolo. Il volto di Cristo si riduce a una macchia indistinta, che ha il colore del sangue essiccato. E il vero cristiano deve trovare in se stesso la forza per immaginare i tormenti del vero Salvatore.
Hans Belting, «La vera immagine di Cristo», Bollati Boringhieri, traduzione di Ada Cinato, pp.256, 48
Hans Belting (Andernach 1935) è oggi professore emerito di Storia dell’arte e teoria dei media alla Hochschule für Gestaltung di Karlsrühe
«Corriere della sera» del 4 luglio 2007

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