Visita a Levashovo
di Gian Guido Vecchi
L’ultimo segretario dei Ds parte dalla piazza dell’Ermitage, il Palazzo d’Inverno dove tutto è cominciato. È un lungo corteo di auto e bus con decine di parenti delle vittime italiane nei gulag, «molte avevano creduto nella ispirazione liberatrice della Rivoluzione d’Ottobre e raggiunto l’Urss come una "terra promessa"». Era l’«ingenua speranza» di una «società nuova» che per «trecento comunisti italiani» significò «restare vittime prima ancora della violenza della polizia segreta, della delazione dei loro stessi compagni e della colpevole connivenza di quei dirigenti che, pur autorevoli come Togliatti, non ebbero il coraggio di sfidare la macchina oppressiva della dittatura». Alla vigilia, nella notte bianca di San Pietroburgo, Piero Fassino ha limato un discorso duro, frasi secche e taglienti sul «fallimento del comunismo», i suoi crimini, le colpe dei dirigenti del Pci. Anche se «non tutti si sottrassero alla propria responsabilità morale e politica»: tra chi «si battè per sottrarre i compagni a un destino tragico» c’è Antonio Gramsci. E ora il corteo sfila lungo la Neva e accanto all’incrociatore «Aurora» che nel ‘17 salutò a cannonate l’inizio della Rivoluzione, s’inoltra per cinquanta chilometri tra i boschi e oltre i palazzoni sovietici della periferia, le dacie in rovina e le ville dei nuovi ricchi fino ad arrivare a Levashovo, altre betulle a nascondere quarantamila persone uccise nelle purghe di Stalin e sepolte in fosse comuni. Un isolotto dell’Arcipelago gulag. Li portavano nei camion la notte per fucilarli. «Fino a non molto tempo fa erano luoghi proibiti», spiega l’ambasciatore Vittorio Surdo. Adesso ci sono fiori, croci, foto appese alle cortecce. A caso. «Si sceglie il posto che suggerisce il cuore», sospira Antolij Razumov, direttore del centro «Nomi restituiti». Si calcola che 1020 italiani su quattromila siano stati fucilati o internati. A Levashovo hanno dato un nome a quindici. Ora un monumento ricorda gli «italiani antifascisti» uccisi. Fassino è il primo a venire. Parla di tutte le «vittime innocenti: milioni di russi, tantissimi ebrei, migliaia di italiani e tra questi tanti alpini». Poi sillaba: «Siamo qui a rendere onore a uomini e donne vittime della brutalità del comunismo». Del resto, «settant’anni di comunismo hanno dimostrato quanto fosse impossibile e aberrante l’idea di separare uguaglianza e giustizia dalla libertà». Fausto Bertinotti ha mandato un telegramma, «è necessaria una riflessione profonda e un’indagine critica». I familiari delle «spie fasciste» o «traditori trotzkisti» stanno qui, un garofano rosso in mano. Molti non parlano l’italiano, c’è chi è cresciuto in orfanotrofio. E c’è Luciana De Marchi, figlia di Gino, giovane comunista amico di Antonio Gramsci e fucilato nel ‘38. Gramsci era già morto, non poteva salvarlo come nel ‘23: «Non infierite». La storia è raccontata in Una bambina contro Stalin (Mondadori) di Gabriele Nissim, che ha ideato la commemorazione coinvolgendo le istituzioni di San Pietroburgo e Milano. La signora ha saputo la verità nel ‘96. «La sua perseveranza ha permesso a tutti noi, oggi, di alzare la spessa coperta di ipocrisia che per troppi anni ha legittimato una storia di omissioni e falsità», sillaba Fassino. Le storie si somigliano. A Nella Masutti, nell’84, Alessandro Natta disse che l’assassinio del marito Emilio Guarnaschelli «non riguardava il partito». L’ingegnere Roberto Anderson scomparve nel ‘37, «abbiamo saputo della fucilazione nel 2000», racconta il nipote romano Attilio Tonolo. Qui ha conosciuto i cugini russi: «Ho visto le schede informative su Anderson scritte da Luigi Longo e altri. Il Pci aveva l’elenco dei fucilati». Fassino, con il deputato Ds Emanuele Fiano, posa una corona. Luciana De Marchi pianta un albero. Una quercia. La accarezza. Ha pianto quando Fassino ricordava suo padre, «militante comunista sincero ucciso per il tradimento dei suoi stessi compagni». Ce l’ha fatta. Gli sorride: «Ho tanta simpatia per lei, posso presentarle mia figlia?».
«Corriere della sera» del 30 giugno 2007
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