14 luglio 2007

Dante tra Mosè e san Giovanni

500 citazioni: tanti sono gli echi della Bibbia nella Divina Commedia Ma non basta: tutto lo schema delle tre cantiche risulta impostato sul modello dei due Testamenti. La tesi di uno studioso.
di Pietro Gibellini
Il poema illustrerebbe l'ascesa dalla Torah (e dai classici greci e latini) allo Spirito: l'Inferno è il regno della legge biblica, il Paradiso quello del Vangelo, mentre nel Purgatorio domina la misericordiaL’Alighieri rifiuta ogni interpretazione letterale dei testi sacri e ogni morale assoluta: le leggi riguardano solo Cesare e non devono essere attribuite a Dio. Persino la collocazione dantesca delle anime nei gironi della pena o nei cerchi della gloria non ha valore definitivo, ma conserva solamente un significato spirituale.
Mezzo migliaio, uno più uno meno. Tanti sono gli echi della Bibbia nella Divina Commedia, fra citazioni, allusioni e reminiscenze. A tacere delle molte edizioni commentate del poema, non mancano studi dedicati ai singoli aspetti, a partire dagli atti del convegno che vent'anni fa l'associazione «Biblia» dedicò al tema e che furono pubblicati da Olschki.
Eppure credo che il volume di Lodovico Cardellino, Dante e la Bibbia, sia il primo tentativo di interpretazione sistematica di quel delicato e cruciale rapporto. L'opera cade in tempi maturi per una riconsiderazione, anche da parte della cultura laica, della formidabile incidenza che il testo sacro ha avuto nella letteratura e nell'arte dell'Occidente: convegni e pubblicazioni al riguardo si vanno infittendo, anche al di là delle Alpi e dell'Atlantico. Ma quest'opera esce vicino a noi. La pubblica infatti Sardini di Bornato Franciacorta come quaderno a latere della rivista Bibbia e Oriente (pp. 224, euro 24). L'autore non è un accademico: aostano, si è laureato in fisica e in filosofia, ha girato mezzo mondo come addetto agli Istituti italiani di cultura.
Occorrevano forse la libertà dall'accademia, l'ardore e l'ardire del dilettante in senso nobile e una ventennale fatica per tentare un'impresa che fa tremar le vene e i polsi. Sono vent'anni, infatti, che Cardellino pubblica ricerche su singoli aspetti del problema, tessere ora riunite in mosaico compiuto e complesso.
Sì, il libro è complesso (per quanto lodevolmente chiaro), ma la tesi portante può riassumersi in breve. Il Vangelo insegna a leggere l'Antico Testamento in senso spirituale, al di là del senso letterale. San Gregorio Magno esprimeva questo programma esegetico nell'immagine di due ruote che si corrispondono punto a punto: «Il Nuovo Testamento è una ruota dentro la ruota del Vecchio», svela ciò che l'altro celava. Dante sviluppa questa immagine nel cielo della sapienza, dove due corone di beati ruotano attorno a Beatric e (immagine del Verbo divino) tessendo le lodi rispettivamente di Francesco, alter Christus, e di Domenico, che sarebbe un «doppio» del Battista, ancora vòlto verso la Legge e l'Antico Testamento.
Un nuovo lustro appare infine attorno alle due ruote, come nuovo «poema sacro» (Paradiso XXIII 62 e XXV 1). Dante infatti ha impostato il suo poema per illustrare entrambe le Scritture: l'Inferno sarebbe il regno della legge biblica, il Paradiso brilla per l'assoluzione evangelica di tutto ciò che in inferno era apparso condannato. E il Purgatorio? Vi regnerebbe la misericordia biblica, concessa dopo confessione, pentimento e penitenza, secondo il richiamo dei Profeti e del Battista. Le tre cantiche segnerebbero l'ascesa dalla Torah (e dalla sapienza dei classici greco-latini) allo Spirito evangelico, di cui l'autore (diversamente da quanto oggi si tende generalmente a fare) avverte più lo stacco che la continuità con quei due Mondi antichi (ma nell'occhio dell'aquila celeste pone equamente due beati ebrei, due pagani e due cristiani…).
Nella costruzione del suo poderoso edificio, Dante guarderebbe continuamente al Vangelo di Giovanni, anche se, invece di cominciare come lui «in principio» (a imitazione della Genesi), inizia con «nel mezzo», dalla fase legalista, una fase di transito come quella di Israele nel deserto e di Lazzaro: ha colto il senso della risurrezione di Lazzaro e l'ha applicato a sé, riconoscendo anche il valore di stimolo, se non del peccato in sé, almeno della consapevolezza del peccato.
Cardellino legge così il poema come un esame di coscienza fatto da Dante, riconoscimento autocritico essenziale alla conversione e al ritrovamento di Dio in sé. La Commedia, come il Vangelo, si oppone a ciò che lo studioso chiama «fondamentalismo etico ed esegetico»: rifiuta ogni interpretazione letterale delle Scritture e l'attribuzione a Dio di leggi morali assolute, scritte nella pietra. Dunque un Alighieri anarchico o buonista? Senz'altro no: Dante riconosce la necessità di leggi nella società, purché queste riguardino Cesare e non siano attribuite a Dio.
Il divieto evangelico di giudicare rivive nel poema, dove Beatrice lo sottolinea nell'Eden raccomandando a Dante di farne tesoro. Ma allora Dante, che ha ficcato all'inferno papi e sovrani, smentisce se stesso? Qui sta il punto per Cardellino: come la Bibbia non va letta secondo la lettera ma secondo lo spirito, così Dante vuole che il suo poema sacro non sia preso alla lettera: la visione delle anime proposta sarebbe virtuale, anzi consapevolmente inattendibile (come conferma il IV canto del Paradiso). Ma, anziché negare se stessa o disperdersi nell'inconoscibile buio dei mistici, la visione dantesca mantiene un preciso significato spirituale, chiarito dalla presenza in paradiso di spiriti che ricordano comportamenti molto simili a quelli dei dannati e dei purganti.
L'autore del saggio ne deduce che il senso di tutta la visione, e il suo oggetto primo, è la condizione morale di Dante, e con lui di ogni lettore: egli vede tutti in inferno quando in lui dòmina una atteggiamento «legalista» o «fondamentalista», mentre trova tutti in paradiso quando è davvero convertito, passato cioè dalla scuola di Virgilio e del Deuteronomio a quella di Beatrice, cioè del Verbo espresso nel Vangelo: la stessa escatologia proposta da Giovanni.
Certo, vari punti del saggio appaiono suscettibili di discussione, e alcuni perfino sconcertanti: si pensi all'ipotesi di un Virgilio di cui Dante si farebbe burla, cogliendolo in contraddizioni e svarioni: l'ipotesi collima con l'immagine del poeta pagano inconsapevole profeta che reca la lucerna dietro la schiena rischiarando la via a chi lo segue ma non a sé. Ma urta contro la riverenza così spesso esibita dal mistico pellegrino al suo duca e auctor. Ovvero all'abbondanza di figure mitologiche proprio nel Paradiso, nella cantica cioè dove più forte dovrebbe essere la distanza dal sapere pre-cristiano (non si tratterà dun que di una scelta retorica, da stilus tragicus?). E come conciliare la svalutazione del senso letterale della Commedia con il concetto di figura elaborato da Auerbach universalmente accolto? Resta un fatto: questo è un libro che costringe a ripensare la Commedia nel suo significato complessivo. E, con essa, anche il Vangelo di Giovanni.
«Avvenire» del 14 giugno 2007

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