Arte, cinema, teatro, ricerca: dov'è la libertà se dipendono dai soldi pubblici?
di Pierluigi Battista
Se la cultura muore per i tagli dei fondi statali, vuol dire che la cultura, in Italia, non esiste senza la generosità dello Stato Unico Mecenate. Dipendiamo tutti dallo Stato, noi che lavoriamo nella cultura, nell' informazione, nella comunicazione. Senza erogazioni dello Stato, finisce la cultura. Senza elargizioni dello Stato finiscono i piccoli giornali. Senza le sovvenzioni dello Stato, boccheggia l'arte, il cinema, il teatro, la lirica, la ricerca. Questa è la lezione amarissima che la mannaia finanziaria produce come contraccolpo. Ma se la cultura è controllata, sovvenzionata, accudita, assistita dallo Stato, che cultura libera è? Se istituti, fondazioni e accademia dicono che senza i soldi dello Stato devono chiudere, dov'è la misura della loro libertà? E se i giornali sopravvivono grazie ai contributi dello Stato, come fanno a provare la loro indipendenza? La vecchia massima di Friedrich von Hayek conserva intatto il suo valore: chi controlla tutti i mezzi di produzione è irresistibilmente indotto a controllarne i fini. Il mecenatismo non è mai gratuito. Non è un dono: è un' arma di ricatto. Se il mecenate chiude i rubinetti, la cultura rischia di morire assetata. Siamo sicuri che lo statalismo culturale sia poi così più attraente della vituperata logica del mercato? Protestano i cineasti per il dimagrimento del Fondo pubblico destinato al cinema: così, dicono, il cinema muore. Protestano gli addetti agli enti lirici, i corpi di ballo, i teatri stabili, i tecnici degli spettacoli quando lo Stato stringe i cordoni della borsa: così, dicono, viene sepolta la cultura. Protestano i piccoli giornali se lo Stato diminuisce gli stanziamenti che li tengono in vita: così, dicono, muore la libertà di stampa. Tutto vero, purtroppo. Ma è anche giusto? È giusto che i 232 istituti culturali che oggi rumoreggiano per le forbici di Stato debbano vantare la loro totale dipendenza dello Stato? In Italia non c' è un film, un concerto, uno spettacolo teatrale, un libro, un giornale, una mostra che possa sopravvivere grazie all' autofinanziamento (se non totale, almeno determinante). È allarmante. Dicono che però l' Italia spende per la cultura meno di altri Paesi. Vero. Ma battere sul tasto dello Stato spilorcio non rischia di diffondere la sensazione che la vitalità di una cultura dipenda esclusivamente dalla generosità dello Stato erogatore a fondo perduto? Le buone idee, magari, dovrebbero essere gratis. Se ce le abbiamo, bene. Se non ce le abbiamo, non possiamo dare la colpa allo Stato assistenziale che non assiste più. È amaro, ma è così. Ne va del lavoro, del reddito, del benessere di migliaia e migliaia di ottime persone, ma è così. Ma dove c'è totale discrezionalità dello Stato sulle sorti della cultura, lì si annida anche il tarlo dei favoritismi, delle regalie, degli sprechi. Le idee sono gratis. L'assistenzialismo non lo è mai: e in cambio non chiede mai le cose migliori.
«Corriere della Sera» del 31 maggio 2010
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