Giornata contro la droga. Senza facili illusioni
di Chino Pezzoli
Oggi è la Giornata mondiale contro la droga. Nei giorni scorsi il sottosegretario Carlo Giovanardi ha dato una bella notizia, già commentata da Avvenire: il numero dei consumatori di droghe è in diminuzione. Altre fonti e indagini sostengono però il contrario. Anzi qualcuno prevede che nei prossimi anni la domanda, e quindi l’offerta, di droga crescerà. Speriamo di no.
Mi sembra però soprattutto utile, in questa occasione, mettere in guardia dalle fragili illusioni. È sbagliato pensare che, se un tossicomane smette per un certo periodo di drogarsi, abbia risolto il suo problema. Non è affatto vero. Il tossicomane spesso afferma di aver smesso completamente di far uso di una o più sostanze in alcuni periodi della sua vita. Ma difficile non è smettere; difficile è non ricominciare. E poi, ogni percorso di guarigione esige tempo, professionalità, impegno e nuovi vissuti.
A chi chiede aiuto per uscire dalla dipendenza proponiamo un periodo di tempo di tre anni per vivere nuove esperienze in un contesto ordinato e finalizzato al recupero delle forze interiori.
«Dalla droga si esce?». A rispondere è l’esperienza: molti sono capaci di liberarsi da questo legame patologico e condurre una vita normale, come pure c’è chi non riesce a uscire dal tunnel. Vanno presi in considerazione diversi fattori che possono favorire od ostacolare il recupero: la situazione familiare, l’ambiente sociale, la fragilità psichica o alcuni disturbi di personalità, una certa predisposizione alla dipendenza.
Noi siamo soliti dire che ha maggiori possibilità di recupero una testa che riflette. Liberati i neuroni dalle tossine, il soggetto che sa pensare motiva più facilmente le sue scelte, dà un senso alla sua vita, riordina le relazioni, riattiva i sentimenti, risveglia la coscienza. Riflessione e volontà sono importanti? Sì, ma non sufficienti. Quante volte il tossicomane promette di smettere: a sé, alla madre disperata, al figlio, alla ragazza... e poi ricade di nuovo.
È sbagliato pensare che questo disagio si risolva unicamente con un po’ di testa e tanta buona volontà. Spesso il tossicomane fallisce proprio quando pensa di poter smettere di drogarsi perché l’ha deciso o promesso a qualcuno. In questo modo rimuove il problema, sottovalutando la sua malattia psichica.
La famiglia, il partner, gli amici possono certamente aiutare il tossicodipendente a guarire, se sono consapevoli dei loro limiti e non hanno la presunzione d’improvvisarsi terapeuti. Il compito di chi vive accanto al tossicomane è di fargli capire, con insistenza, la gravità della sua malattia e anche i rischi in cui incorre se non si fa curare.
Di fronte a una persona che usa sostanze stupefacenti è bene essere fermi, risoluti, perché il tossicomane minimizza il suo disagio psichico e non ammette la sua fragilità né la possibilità di continue ricadute. Pensa d’avere la situazione sotto controllo, di poter smettere quando deciderà di farlo. Il motivo di questa falsa sicurezza va analizzato tenendo presente che il soggetto non ammette i danni mentali avvenuti nella sua mente: crede che, smettendo per qualche giorno o mese di "farsi", tutto ritorni nella normalità.
È necessario intervenire scientificamente, con una seria diagnosi per ogni caso, prima d’iniziare un percorso riabilitativo.
Di grande aiuto per facilitare la ripresa fisica e psichica è la comunità terapeutica. Molteplici sono i vantaggi di questo ambiente: interrompere l’uso di droghe, liberare il corpo e la mente dalle tossine, proporre regole di vita, mettere in condizione il terapeuta di svolgere interventi efficaci di recupero. Non è poco.
Mi sia permesso, attraverso questo quotidiano che è letto nelle nostre parrocchie, di evidenziare un dato: le comunità terapeutiche della Lombardia hanno aumentato sensibilmente negli ultimi anni il numero dei soggetti in cura, grazie al Dgr del 10 ottobre 2007 che prevede il libero accesso in comunità del tossicodipendente. È un provvedimento che aiuta i tossicodipendenti e le loro famiglie, e merita di essere fatto conoscere ed essere esteso anche alle altre Regioni.
Mi sembra però soprattutto utile, in questa occasione, mettere in guardia dalle fragili illusioni. È sbagliato pensare che, se un tossicomane smette per un certo periodo di drogarsi, abbia risolto il suo problema. Non è affatto vero. Il tossicomane spesso afferma di aver smesso completamente di far uso di una o più sostanze in alcuni periodi della sua vita. Ma difficile non è smettere; difficile è non ricominciare. E poi, ogni percorso di guarigione esige tempo, professionalità, impegno e nuovi vissuti.
A chi chiede aiuto per uscire dalla dipendenza proponiamo un periodo di tempo di tre anni per vivere nuove esperienze in un contesto ordinato e finalizzato al recupero delle forze interiori.
«Dalla droga si esce?». A rispondere è l’esperienza: molti sono capaci di liberarsi da questo legame patologico e condurre una vita normale, come pure c’è chi non riesce a uscire dal tunnel. Vanno presi in considerazione diversi fattori che possono favorire od ostacolare il recupero: la situazione familiare, l’ambiente sociale, la fragilità psichica o alcuni disturbi di personalità, una certa predisposizione alla dipendenza.
Noi siamo soliti dire che ha maggiori possibilità di recupero una testa che riflette. Liberati i neuroni dalle tossine, il soggetto che sa pensare motiva più facilmente le sue scelte, dà un senso alla sua vita, riordina le relazioni, riattiva i sentimenti, risveglia la coscienza. Riflessione e volontà sono importanti? Sì, ma non sufficienti. Quante volte il tossicomane promette di smettere: a sé, alla madre disperata, al figlio, alla ragazza... e poi ricade di nuovo.
È sbagliato pensare che questo disagio si risolva unicamente con un po’ di testa e tanta buona volontà. Spesso il tossicomane fallisce proprio quando pensa di poter smettere di drogarsi perché l’ha deciso o promesso a qualcuno. In questo modo rimuove il problema, sottovalutando la sua malattia psichica.
La famiglia, il partner, gli amici possono certamente aiutare il tossicodipendente a guarire, se sono consapevoli dei loro limiti e non hanno la presunzione d’improvvisarsi terapeuti. Il compito di chi vive accanto al tossicomane è di fargli capire, con insistenza, la gravità della sua malattia e anche i rischi in cui incorre se non si fa curare.
Di fronte a una persona che usa sostanze stupefacenti è bene essere fermi, risoluti, perché il tossicomane minimizza il suo disagio psichico e non ammette la sua fragilità né la possibilità di continue ricadute. Pensa d’avere la situazione sotto controllo, di poter smettere quando deciderà di farlo. Il motivo di questa falsa sicurezza va analizzato tenendo presente che il soggetto non ammette i danni mentali avvenuti nella sua mente: crede che, smettendo per qualche giorno o mese di "farsi", tutto ritorni nella normalità.
È necessario intervenire scientificamente, con una seria diagnosi per ogni caso, prima d’iniziare un percorso riabilitativo.
Di grande aiuto per facilitare la ripresa fisica e psichica è la comunità terapeutica. Molteplici sono i vantaggi di questo ambiente: interrompere l’uso di droghe, liberare il corpo e la mente dalle tossine, proporre regole di vita, mettere in condizione il terapeuta di svolgere interventi efficaci di recupero. Non è poco.
Mi sia permesso, attraverso questo quotidiano che è letto nelle nostre parrocchie, di evidenziare un dato: le comunità terapeutiche della Lombardia hanno aumentato sensibilmente negli ultimi anni il numero dei soggetti in cura, grazie al Dgr del 10 ottobre 2007 che prevede il libero accesso in comunità del tossicodipendente. È un provvedimento che aiuta i tossicodipendenti e le loro famiglie, e merita di essere fatto conoscere ed essere esteso anche alle altre Regioni.
«Avvenire» del 26 giugno 2010
Nessun commento:
Posta un commento