Tema affascinante e sfuggente. Ma si poteva osare di più, facendo anche riflettere sulla dialettica tra arte e gusto
di Vincenzo Trione
Cosa significa «piacere»? Un tema di straordinario fascino, ricco di riferimenti e di corrispondenze: eppure, piuttosto sfuggente. La scelta dei testi suggeriti dal Ministero vuole coniugare conoscenze consolidate con sorprendenti «ripescaggi». Da un lato, autori ampiamente frequentati e analizzati come d’Annunzio, Leopardi, Ungaretti, Brecht. Dall’altro lato, gli inattesi recuperi di pensatori difficili e dimenticati come Paolo Mantegazza e Andrea Emo (tra le figure più originali e controverse della filosofia italiana, cui Alberto Savinio dedicò un bel ritratto).
La medesima dialettica tra «previsto» e «imprevisto» si può cogliere anche nei quadri proposti. Da una parte, capolavori già consacrati anche da una notevole fortuna mediatica (riprodotti su cartoline, t-shirt e in spot pubblicitari): come «La nascita di Venere» di Botticelli e «La Danza» di Matisse. Dall’altra parte, uno tra i dipinti meno commentati (negli anni liceali) di Picasso, «I tre musici». Cosa accomuna questi tre momenti della storia della civiltà visiva dell’Occidente? La necessità di mettere in scena il bisogno di armonia: la necessità di pensare l’opera d’arte non come fedele trascrizione dell’esistente, ma come artificio sublime, lirica ardita, abile gioco di evocazioni, esercizio teso ad abbandonare le «pesantezze» del presente, per proiettarsi verso dimensioni ulteriori. Pur seguendo sentieri diversi, Botticelli, Matisse e Picasso condividono l’idea secondo cui la pittura debba «musicalizzarsi»: debba riuscire, cioè, ad acquistare la medesima carica emozionale della musica; conquistare un’imprevista leggerezza, conducendo chi osserva verso regioni inesplorate. Nei tre dipinti, non si allude a un piacere legato alla sfera della corporeità. Si rinvia a un piacere diverso: mentale, intellettuale, di matrice spiritualistica. Non il «principio» cognitivo posto alla base della nostra esistenza affettiva e sociale (di cui ha parlato Freud). Ma una «qualità» poetica, intima, che trasporta verso i territori del fantastico, dell’immaginario, del simbolico. Questa idea viene raffigurata seguendo modalità linguistiche diverse. Eppure, i tre quadri potrebbero essere considerati anche come i fotogrammi di una sorta di film durato quattro secoli, dedicato alla rappresentazione del «volto della Bellezza».
Botticelli si fa cantore di una purezza ancora classica: dentro un eden, si staglia una divinità pudica, immagine di una religiosità assoluta. Anche Matisse prova a sfiorare la perfezione degli antichi: nella «Danza», salda motivi della statuaria greca e romana (nell’utilizzo dei colori e nel profilo delle forme) con una profonda adesione alle poetiche del’espressionismo europeo primonovecentesco. Si riprendono le sinuosità di Raffaello. L’ellisse prospettica diviene un ovale borrominiano, schiacciato sul piano. Le cromie sono «poggiate» sulla superficie quasi con noncuranza. Assistiamo a un sobrio rito dionisiaco. Una sinuosità controllata. Lo slancio non si fa mai distruzione, ma insegue un ritmo complesso, una compostezza ardita, una simmetria segreta. Diventate liquide, le anatomie si collegano in un girotondo infinito.
Con Picasso, tutto cambia. Nulla è più chiaro, leggibile, immediato. Entra in crisi il racconto praticato dagli artisti sin dal Rinascimento. Il padre del cubismo – il grande cannibale - non dipinge ciò che vede, ma ciò che pensa. Elabora una composizione ferma, statica, monumentale. Il suo obiettivo, però, è quello di infrangere ogni equilibrio, ritraendo “attori” instabili, aggrovigliati: addirittura mostruosi. Di un volto non mostra più solo la faccia esteriore, ma tutti i lati, simultaneamente. In questo modo, egli si fa protagonista di un’autentica rivoluzione copernicana: al punto che Apollinaire parlò di lui come del Michelangelo del XX secolo. Con Picasso, cambierà definitivamente il nostro modo di «dire» il mondo. E l’arte non sarà più solo un modo per corteggiare il piacere. La bellezza si capovolge nel suo opposto.
Sarebbe stato interessante osare di più, nella «galleria» indicata dal Ministero. Provando a far commentare agli studenti anche dipinti capaci di scuotere, di incrinare attese: di dis-piacere. Qualche nome? Da Warhol a Hirst… Su questi argomenti, potremmo richiamarci a un giudizio critico di Gillo Dorfles, il quale, in un articolo uscito sul Corriere della Sera di qualche anno fa, ha riflettuto sulla dialettica tra arte e pubblico nei secoli passati e nella nostra epoca. Viviamo in un’età segnata, per Dorfles, da un’anomalia. La situazione, nel Medioevo e nella modernità, era più lineare. Entro una determinata comunità – la Siena di Duccio di Buoninsegna, la Francoforte di Dürer –, il gusto popolare, di fatto, andava a coincidere con quello colto. La sensibilità del pubblico e quella degli umanisti, dei prìncipi e dei papi si incontravano. Dal Novecento, invece, le differenziazioni tra le diverse fasce culturali si sono fatte sempre più marcate. È diventato difficile definire con chiarezza le nozioni stesse di arte e di gusto. Spesso, siamo portati a considerare «accettabili» anche opere che non apprezziamo. Mentre siamo costretti a reputare banali e privi di autentica forza inventiva quadri che ci piacciono. L’arte oramai è diventata un fenomeno seduttivo solo per pochi.
La medesima dialettica tra «previsto» e «imprevisto» si può cogliere anche nei quadri proposti. Da una parte, capolavori già consacrati anche da una notevole fortuna mediatica (riprodotti su cartoline, t-shirt e in spot pubblicitari): come «La nascita di Venere» di Botticelli e «La Danza» di Matisse. Dall’altra parte, uno tra i dipinti meno commentati (negli anni liceali) di Picasso, «I tre musici». Cosa accomuna questi tre momenti della storia della civiltà visiva dell’Occidente? La necessità di mettere in scena il bisogno di armonia: la necessità di pensare l’opera d’arte non come fedele trascrizione dell’esistente, ma come artificio sublime, lirica ardita, abile gioco di evocazioni, esercizio teso ad abbandonare le «pesantezze» del presente, per proiettarsi verso dimensioni ulteriori. Pur seguendo sentieri diversi, Botticelli, Matisse e Picasso condividono l’idea secondo cui la pittura debba «musicalizzarsi»: debba riuscire, cioè, ad acquistare la medesima carica emozionale della musica; conquistare un’imprevista leggerezza, conducendo chi osserva verso regioni inesplorate. Nei tre dipinti, non si allude a un piacere legato alla sfera della corporeità. Si rinvia a un piacere diverso: mentale, intellettuale, di matrice spiritualistica. Non il «principio» cognitivo posto alla base della nostra esistenza affettiva e sociale (di cui ha parlato Freud). Ma una «qualità» poetica, intima, che trasporta verso i territori del fantastico, dell’immaginario, del simbolico. Questa idea viene raffigurata seguendo modalità linguistiche diverse. Eppure, i tre quadri potrebbero essere considerati anche come i fotogrammi di una sorta di film durato quattro secoli, dedicato alla rappresentazione del «volto della Bellezza».
Botticelli si fa cantore di una purezza ancora classica: dentro un eden, si staglia una divinità pudica, immagine di una religiosità assoluta. Anche Matisse prova a sfiorare la perfezione degli antichi: nella «Danza», salda motivi della statuaria greca e romana (nell’utilizzo dei colori e nel profilo delle forme) con una profonda adesione alle poetiche del’espressionismo europeo primonovecentesco. Si riprendono le sinuosità di Raffaello. L’ellisse prospettica diviene un ovale borrominiano, schiacciato sul piano. Le cromie sono «poggiate» sulla superficie quasi con noncuranza. Assistiamo a un sobrio rito dionisiaco. Una sinuosità controllata. Lo slancio non si fa mai distruzione, ma insegue un ritmo complesso, una compostezza ardita, una simmetria segreta. Diventate liquide, le anatomie si collegano in un girotondo infinito.
Con Picasso, tutto cambia. Nulla è più chiaro, leggibile, immediato. Entra in crisi il racconto praticato dagli artisti sin dal Rinascimento. Il padre del cubismo – il grande cannibale - non dipinge ciò che vede, ma ciò che pensa. Elabora una composizione ferma, statica, monumentale. Il suo obiettivo, però, è quello di infrangere ogni equilibrio, ritraendo “attori” instabili, aggrovigliati: addirittura mostruosi. Di un volto non mostra più solo la faccia esteriore, ma tutti i lati, simultaneamente. In questo modo, egli si fa protagonista di un’autentica rivoluzione copernicana: al punto che Apollinaire parlò di lui come del Michelangelo del XX secolo. Con Picasso, cambierà definitivamente il nostro modo di «dire» il mondo. E l’arte non sarà più solo un modo per corteggiare il piacere. La bellezza si capovolge nel suo opposto.
Sarebbe stato interessante osare di più, nella «galleria» indicata dal Ministero. Provando a far commentare agli studenti anche dipinti capaci di scuotere, di incrinare attese: di dis-piacere. Qualche nome? Da Warhol a Hirst… Su questi argomenti, potremmo richiamarci a un giudizio critico di Gillo Dorfles, il quale, in un articolo uscito sul Corriere della Sera di qualche anno fa, ha riflettuto sulla dialettica tra arte e pubblico nei secoli passati e nella nostra epoca. Viviamo in un’età segnata, per Dorfles, da un’anomalia. La situazione, nel Medioevo e nella modernità, era più lineare. Entro una determinata comunità – la Siena di Duccio di Buoninsegna, la Francoforte di Dürer –, il gusto popolare, di fatto, andava a coincidere con quello colto. La sensibilità del pubblico e quella degli umanisti, dei prìncipi e dei papi si incontravano. Dal Novecento, invece, le differenziazioni tra le diverse fasce culturali si sono fatte sempre più marcate. È diventato difficile definire con chiarezza le nozioni stesse di arte e di gusto. Spesso, siamo portati a considerare «accettabili» anche opere che non apprezziamo. Mentre siamo costretti a reputare banali e privi di autentica forza inventiva quadri che ci piacciono. L’arte oramai è diventata un fenomeno seduttivo solo per pochi.
«Corriere della Sera» del 22 giugno 2010
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