I tempi di custodia cautelare
di Pierluigi Battista
Un persona è costituzionalmente innocente fino a verdetto definitivo: sempre che valgano ancora le regole dello Stato di diritto
Se sono colpevoli o innocenti, lo si appurerà nel processo. Quando, se condannati, meriteranno il carcere. Appunto: se condannati. Mentre la prolungata custodia cautelare è sempre carcere (anche se domiciliare), ma senza condanna stabilita da un verdetto giudiziario. Una condanna preventiva. Una sanzione anticipata. Come se i tempi (mostruosamente dilatati) della giustizia non tenessero conto dei tempi della persona. Costituzionalmente innocente fino a verdetto definitivo: sempre che valgano ancora le regole dello Stato di diritto.
Princìpi elementari, quasi ovvii nel catechismo garantista che pure è la base dello Stato di diritto in cui abbiamo l’impressione di vivere. Ma che l’opinione pubblica, esacerbata dal moltiplicarsi di corruzione e di crimini contro il bene pubblico, tende a dimenticare. Anche nel caso degli indagati per il giro di false fatturazioni e di riciclaggio. La Cassazione ha stabilito che Bruno Zito, coinvolto nel «caso Fastweb», debba restare nella galera (preventiva) in cui è rinchiuso dal 23 febbraio: più di quattro mesi fa, oramai. Confermati anche gli arresti domiciliari di Silvio Scaglia. Il Corriere, alla vigilia del pronunciamento della Cassazione, ha pubblicato una lettera molto dignitosa del padre di Zito, dove non si entrava nel merito delle accuse, ma ci si chiedeva se davvero sussistessero le condizioni per cui il figlio dovesse essere trattenuto (preventivamente) in carcere. Anche i giornalisti non devono entrare nel merito delle accuse. Anzi, dovrebbero, perché molti giornalisti sembrano ispirati dalla missione di giudicare al posto dei giudici, sostituendosi a essi in modo arbitrario e prepotente. Ma chiedersi fino a quando può durare un regime di carcerazione preventiva non è una domanda legittima. Anche chiedersi se non c’è un abuso della custodia cautelare. O se, addirittura, in molti casi in Italia non si abusi deliberatamente del carcere preventivo per «ammorbidire» gli indagati, spronarli alla collaborazione: che poi è un modo gentile ed edulcorato per alludere alla confessione.
Ai tempi di Mani Pulite (sono fatti noti, oramai da raccontare come fossero storia) capitava che, alla scadenza dei termini di custodia cautelare, un’altra accusa si abbatteva sulla testa dell’indagato, e si ricominciava da capo, azzerando il cronometro. Di questi tempi, invece, il Tribunale del riesame di Firenze, motivando il rigetto di scarcerazione per Balducci e altri esponenti in vista della «cricca», ha deplorato addirittura «uno stile di vita antigiuridico degli indagati » nonché, testuale, «l'atteggiamento di totale chiusura all’ipotesi accusatoria». Se non si capisce male, la non aderenza degli indagati agli argomenti dell’«ipotesi accusatoria» costituirebbe un’aggravante, passibile di ulteriore sanzione carceraria (preventiva) che non si sarebbe manifestata se invece gli stessi indagati si fossero conformati alle ipotesi formulate dagli accusatori. Un’innovazione, che è anche un’indicazione per chi, in futuro, dovesse regolare opportunamente linee difensive e comportamenti («stili di vita») efficaci ai fini della scarcerazione.
Il merito delle accuse, dunque, non c’entra. C’entrano i criteri, i tempi, le modalità con cui la custodia cautelare può subire una distorsione irreparabile. Come fosse un surrogato per una pena la cui certezza, dopo e non prima la sentenza, appare sempre più aleatoria. Ma mettere il «prima» al posto del «dopo» è prassi ingiusta, anche se capace di appagare, in modi obliqui, la richiesta di giustizia dell’opinione pubblica.
Princìpi elementari, quasi ovvii nel catechismo garantista che pure è la base dello Stato di diritto in cui abbiamo l’impressione di vivere. Ma che l’opinione pubblica, esacerbata dal moltiplicarsi di corruzione e di crimini contro il bene pubblico, tende a dimenticare. Anche nel caso degli indagati per il giro di false fatturazioni e di riciclaggio. La Cassazione ha stabilito che Bruno Zito, coinvolto nel «caso Fastweb», debba restare nella galera (preventiva) in cui è rinchiuso dal 23 febbraio: più di quattro mesi fa, oramai. Confermati anche gli arresti domiciliari di Silvio Scaglia. Il Corriere, alla vigilia del pronunciamento della Cassazione, ha pubblicato una lettera molto dignitosa del padre di Zito, dove non si entrava nel merito delle accuse, ma ci si chiedeva se davvero sussistessero le condizioni per cui il figlio dovesse essere trattenuto (preventivamente) in carcere. Anche i giornalisti non devono entrare nel merito delle accuse. Anzi, dovrebbero, perché molti giornalisti sembrano ispirati dalla missione di giudicare al posto dei giudici, sostituendosi a essi in modo arbitrario e prepotente. Ma chiedersi fino a quando può durare un regime di carcerazione preventiva non è una domanda legittima. Anche chiedersi se non c’è un abuso della custodia cautelare. O se, addirittura, in molti casi in Italia non si abusi deliberatamente del carcere preventivo per «ammorbidire» gli indagati, spronarli alla collaborazione: che poi è un modo gentile ed edulcorato per alludere alla confessione.
Ai tempi di Mani Pulite (sono fatti noti, oramai da raccontare come fossero storia) capitava che, alla scadenza dei termini di custodia cautelare, un’altra accusa si abbatteva sulla testa dell’indagato, e si ricominciava da capo, azzerando il cronometro. Di questi tempi, invece, il Tribunale del riesame di Firenze, motivando il rigetto di scarcerazione per Balducci e altri esponenti in vista della «cricca», ha deplorato addirittura «uno stile di vita antigiuridico degli indagati » nonché, testuale, «l'atteggiamento di totale chiusura all’ipotesi accusatoria». Se non si capisce male, la non aderenza degli indagati agli argomenti dell’«ipotesi accusatoria» costituirebbe un’aggravante, passibile di ulteriore sanzione carceraria (preventiva) che non si sarebbe manifestata se invece gli stessi indagati si fossero conformati alle ipotesi formulate dagli accusatori. Un’innovazione, che è anche un’indicazione per chi, in futuro, dovesse regolare opportunamente linee difensive e comportamenti («stili di vita») efficaci ai fini della scarcerazione.
Il merito delle accuse, dunque, non c’entra. C’entrano i criteri, i tempi, le modalità con cui la custodia cautelare può subire una distorsione irreparabile. Come fosse un surrogato per una pena la cui certezza, dopo e non prima la sentenza, appare sempre più aleatoria. Ma mettere il «prima» al posto del «dopo» è prassi ingiusta, anche se capace di appagare, in modi obliqui, la richiesta di giustizia dell’opinione pubblica.
«Corriere della Sera» del 29 giugno 2010
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