La rimozione dei simboli religiosi nello spazio pubblico è indice di ateismo. Il j’accuse del vescovo lituano Tamkevicius
di Lorenzo Fazzini
I sovietici distrussero più volte quel luogo sacro, ma la gente tornò a piantare i propri simboli
«Richiedere la rimozione dei simboli religiosi dagli spazi pubblici non dimostra la neutralità dello Stato né assicura il vero pluralismo. Una richiesta come questa semplicemente mostra che, sotto le mentite spoglie della neutralità e della laicità, la priorità viene data ad una visione atea e ad un’ideologia laicista». Parola di chi si è visto strappare dalla propria terra simboli di fede difesi con la testimonianza, a costo della vita.
A scrivere le parole sopra riportato è stato il presidente dei vescovi cattolici di Lituania, monsignor Sigitas Tamkevicius in un recente articolo rilanciato questa settimana dal sito internet Mercatornet.
L’arcivescovo ha denunciato come a Strasburgo la croce sia «sul banco degli imputati». Il riferimento è naturalmente alla sentenza d’appello della Grand Chambre della Corte dei diritti dell’uomo, attesa per il 30 giugno, riguardante la precedente decisione dello stesso organo giuridico che imponeva all’Italia di togliere i crocifissi dalle scuole per non violare il diritto di chi non crede.
Parlare di croce e Lituania fa andare subito alla mente ad un’eloquente immagine di fede popolare e di resistenza all’ateismo di Stato imposto dal comunismo: la celebre Collina delle Croci, visitata nel 1993 da Giovanni Paolo II, che vi lasciò un suo personale crocifisso di ricordo. Nel suo intervento, il presule lituano fa un chiaro riferimento all’epoca sovietica e ai ripetuti tentativi di far sparire le croci della gente e di abbattere la Collina, divenuta nel tempo un luogo di pellegrinaggio: «Coloro che hanno occupato la nostra nazione capirono molto bene tutto questo dal momento che cercarono di sopprimere la nostra libertà, di spezzare il nostro spirito e indebolire la nostra coscienza nazionale. Non è passato molto tempo da quando la nostra nazione ha sofferto, lungo le epoche, allorché i simboli nazionali, statali o religiosi vennero pubblicamente spazzati via, mentre chiunque ne faceva uso veniva perseguitato».
Ma che l’esposizione della croce non sia una questione solo religiosa bensì qualcosa che ha a che fare con la libertà della cultura europea lo hanno ricordato anche i vescovi russi, i quali – come riportato ieri dall’Osservatore romano – hanno affermato: «Nel periodo caratterizzato dal regime comunista, i simboli religiosi furono proibiti e, dopo la caduta del comunismo, la ritrovata possibilità di esporli in pubblico è stata considerata una vittoria della democrazia e della libertà sopra il totalitarismo e l’oppressione».
La Collina delle croci – kryžiu kalnas in lingua locale – è uno dei luoghi di maggior dimostrazione pubblica di fede di tutt’Europa.
Ancor oggi sono circa 56 mila le croci, di diversa foggia, colore, materiale, che campeggiano sulla collinetta nei pressi della cittadina di Siauliai, nella zona settentrionale della Repubblica baltica.
Una pratica, quella di piantare il simbolo cristiano, che risale al 1831 quando, dopo la conquista russa e la conseguente repressione russa dell’insurrezione polaccolituana, le croci diventarono manifestazione pubblica di protesta contro la violenza degli zar. Ma è durante l’epoca sovietica – la Lituania venne annessa dall’Urss nel 1940, a seguito del patto Molotov-Ribbentrop – che la Collina balzò agli onori della cronaca e divenne simbolo del cristianesimo sofferente d’Oltre cortina. Gli occupanti sovietici per quattro volte spianarono con i bulldozer la piccola collinetta (una decina di metri), schiacciando le croci e seppellendole sotto la terra. Ma dopo ogni rituale distruttivo – la prima fu nel 1961, qunidi nel 1973 e ancora nel ’75 – i cattolici lituani tornavano con i loro simboli religiosi e li ripiantavano sulla collina. Tanto che, come ebbe a dire il cardinale Vincentas Sladkevicius, la Collina ha assurto il ruolo di «cuore della Lituania aperto all’Altissimo».
Ma ora questo cuore, se passasse il divieto di esporre simboli religiosi in pubblico, che fine farebbe? Potrebbe esserci qualcuno che, urtato da tanta manifestazione di fede, ne chiederebbe la rimozione per non aver davanti agli occhi nessun emblema cristiano.
Nel suo intervento monsignor Sigitas Tamkevicius, arcivescovo della città di Kaunas, parte da questa provocazione per poi difendere il diritto di esporre la croce in pubblico: «Una nazione non può essere libera se non è capace, in maniera privata e pubblica, di nutrire le sue tradizioni e la sua cultura, e di utilizzare i simboli che esprimono questa cultura e queste tradizioni».
A scrivere le parole sopra riportato è stato il presidente dei vescovi cattolici di Lituania, monsignor Sigitas Tamkevicius in un recente articolo rilanciato questa settimana dal sito internet Mercatornet.
L’arcivescovo ha denunciato come a Strasburgo la croce sia «sul banco degli imputati». Il riferimento è naturalmente alla sentenza d’appello della Grand Chambre della Corte dei diritti dell’uomo, attesa per il 30 giugno, riguardante la precedente decisione dello stesso organo giuridico che imponeva all’Italia di togliere i crocifissi dalle scuole per non violare il diritto di chi non crede.
Parlare di croce e Lituania fa andare subito alla mente ad un’eloquente immagine di fede popolare e di resistenza all’ateismo di Stato imposto dal comunismo: la celebre Collina delle Croci, visitata nel 1993 da Giovanni Paolo II, che vi lasciò un suo personale crocifisso di ricordo. Nel suo intervento, il presule lituano fa un chiaro riferimento all’epoca sovietica e ai ripetuti tentativi di far sparire le croci della gente e di abbattere la Collina, divenuta nel tempo un luogo di pellegrinaggio: «Coloro che hanno occupato la nostra nazione capirono molto bene tutto questo dal momento che cercarono di sopprimere la nostra libertà, di spezzare il nostro spirito e indebolire la nostra coscienza nazionale. Non è passato molto tempo da quando la nostra nazione ha sofferto, lungo le epoche, allorché i simboli nazionali, statali o religiosi vennero pubblicamente spazzati via, mentre chiunque ne faceva uso veniva perseguitato».
Ma che l’esposizione della croce non sia una questione solo religiosa bensì qualcosa che ha a che fare con la libertà della cultura europea lo hanno ricordato anche i vescovi russi, i quali – come riportato ieri dall’Osservatore romano – hanno affermato: «Nel periodo caratterizzato dal regime comunista, i simboli religiosi furono proibiti e, dopo la caduta del comunismo, la ritrovata possibilità di esporli in pubblico è stata considerata una vittoria della democrazia e della libertà sopra il totalitarismo e l’oppressione».
La Collina delle croci – kryžiu kalnas in lingua locale – è uno dei luoghi di maggior dimostrazione pubblica di fede di tutt’Europa.
Ancor oggi sono circa 56 mila le croci, di diversa foggia, colore, materiale, che campeggiano sulla collinetta nei pressi della cittadina di Siauliai, nella zona settentrionale della Repubblica baltica.
Una pratica, quella di piantare il simbolo cristiano, che risale al 1831 quando, dopo la conquista russa e la conseguente repressione russa dell’insurrezione polaccolituana, le croci diventarono manifestazione pubblica di protesta contro la violenza degli zar. Ma è durante l’epoca sovietica – la Lituania venne annessa dall’Urss nel 1940, a seguito del patto Molotov-Ribbentrop – che la Collina balzò agli onori della cronaca e divenne simbolo del cristianesimo sofferente d’Oltre cortina. Gli occupanti sovietici per quattro volte spianarono con i bulldozer la piccola collinetta (una decina di metri), schiacciando le croci e seppellendole sotto la terra. Ma dopo ogni rituale distruttivo – la prima fu nel 1961, qunidi nel 1973 e ancora nel ’75 – i cattolici lituani tornavano con i loro simboli religiosi e li ripiantavano sulla collina. Tanto che, come ebbe a dire il cardinale Vincentas Sladkevicius, la Collina ha assurto il ruolo di «cuore della Lituania aperto all’Altissimo».
Ma ora questo cuore, se passasse il divieto di esporre simboli religiosi in pubblico, che fine farebbe? Potrebbe esserci qualcuno che, urtato da tanta manifestazione di fede, ne chiederebbe la rimozione per non aver davanti agli occhi nessun emblema cristiano.
Nel suo intervento monsignor Sigitas Tamkevicius, arcivescovo della città di Kaunas, parte da questa provocazione per poi difendere il diritto di esporre la croce in pubblico: «Una nazione non può essere libera se non è capace, in maniera privata e pubblica, di nutrire le sue tradizioni e la sua cultura, e di utilizzare i simboli che esprimono questa cultura e queste tradizioni».
«Avvenire» del 26 giugno 2010
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