A vent’anni dalla morte, un piano di nuove traduzioni celebra il romanziere russo fuggito dall’Urss di Breznev. Così inclassificabile, sarcastico e tagliente da essere malvisto perfino dai colleghi d’esilio
di Antonio Armano
Le malelingue dicono che Sergej Dovlatov sia morto in compagnia di due finte bionde e piuttosto avanti con i lavori alcolici il 24 agosto del ’90 a New York. Aveva 49 anni. Quel che è certo è la data e la città e il fatto che bevesse parecchio. I suoi straordinari libri sono pieni di alcol: birra pietroburghese dalla schiuma grigia (La valigia), cognac quando va di lusso, vino stinto e perfino lozioni cosmetiche (Regime speciale) trangugiate con caramelle al rabarbaro per cancellare il gusto abominevole. E naturalmente, trattandosi d'uno scrittore russo, molta vodka, soprattutto Stolicnaja. Ne Il giornale invisibile, dove racconta l’arrivo a New York nel ’79 e la fondazione del giornale per emigrati russi Novyj Amerikanec (Il nuovo americano), si stupisce che gli americani la bevano in bicchierini piccoli come tappi.
I romanzi di Dovlatov sono brevi, tersi. Con frasi fulminanti alla Flaiano. Di un surrealismo viscerale che ricorda il Bianciardi di La vita agra, e un umorismo stile Hunter S. Thompson, stile Le cronache del rum. O se vogliamo il John Fante di Il mio cane stupido. E c’è poi il gusto dell’instancabile story-teller e la grazia narrativa d’un Gian Carlo Fusco... Tutto questo talentuoso armamentario applicato all’assurdo mondo dell’Urss di Breznev crea un cocktail potentissimo che dà dipendenza. I riferimenti letterari potrebbero sembrare troppi ma in breve: siamo nel filone picaresco, autobiografico e con un protagonista che si arrabatta in cerca della gloria letteraria ed è un giornalista sfigato o giù di lì. Un romanzo dove l’avventura è la disavventura e il senso è la mancanza di senso.
Dovlatov è stato tradotto e portato in Italia dalla slavista Laura Salmon, docente all’università di Genova. Lo pubblica Sellerio, grazie alla quale sta in buona compagnia sugli scaffali con Roberto Bolaño, non lontano da lui, non solo in ordine alfabetico (penso a Putas asesinas...). Oltre ai titoli già citati ci sono Compromesso, Il libro invisibile, Il parco di Puskin, La marcia dei solitari, Straniera. Ed è atteso per l'autunno Filiale. A parte i Taccuini (Solo per Underwood e Solo per Ibm), non resta molto altro. E poi sarà astinenza.
Il Nobel Iosif Brodskij fu uno dei primi ammiratori di Dovlatov e ne predisse il futuro come classico, quale oggi è in Russia dopo anni di censura. Diceva che non era difficile da tradurre per via della lingua limpida e coincisa. In realtà solo Laura Salmon, che non per niente ha vinto il premio Monselice per il suo lavoro con Dovlatov, sa quanto sia difficile tradurre i giochi di parole, i calembours coi cognomi (ricordo di aver letto un Pirlovskij), il gergo della mala, le canzoncine di strada... In Noialtri, romanzo sulla storia della sua famiglia, metà armena della Georgia e metà ebrea, Dovlatov dice che l’unico spazio di verità nei giornali sovietici era il refuso. E a volte i refusi erano volontari, una forma di rivolta: «Si prenda, ad esempio, il titolo “Inculcate la dottrina!” Ci sono ben diciannove lettere: è mai possibile saltare proprio la seconda c?! Ed è esattamente quello che succede più spesso».
Se è un esercizio interessante attribuire a Dovlatov affinità e parentele, più complicato e spinoso il discorso politico. Dire che giudicava Stalin assassino e fosse contro il regime sovietico, deriso pagina dopo pagina, è scontato. Nel romanzo La valigia racconta alcuni episodi autobiografici attraverso i capi di abbigliamento cui si ridusse il suo misero bagaglio di esule negli States. C’è un capitolo intitolato Il giaccone di Ferdinand Léger. Al ritorno da Parigi, la vedova del famoso attore Nikolaj Cerkasov regalò a Dovlatov una vecchia giacca di velluto ricevuta in dono dal pittore Léger. Ecco il commento di Dovlatov: «Léger era morto comunista; aveva creduto una volta e per sempre in una grandiosa e inaudita impostura. Non è da escludersi che, come molti pittori, fosse stupido».
Allo stesso tempo non amava essere definito «dissidente». Amava l’America ma voleva conservare il diritto di critica e Il nuovo americano fu sabotato dal concorrente oltranzista La parola e l’azione, perché rappresentava l’ondata fresca e irriverente della terza generazione di expat. Dovlatov fu accusato di essere al soldo del Kgb. Si tirò fuori il suo servizio militare come sorvegliante in un campo di prigionia, cosa ridicola perché lui stesso ne parla nel romanzo Regime speciale, forse il suo libro più «politico». Che però è apolitico. Guardie e ladri si somigliano e hanno i medesimi difetti. Ma va detto che i tempi delle purghe erano finiti... Siamo al post-Solzhenicyn. Il nuovo americano interruppe le pubblicazioni per mancanza di fondi e tra gli episodi sfortunati ci fu pure un incendio nonostante il pronto intervento dei pompieri chiamati dalle ragazze d’un bordello di fronte alla redazione, «L’ostrica felice». Iniziò per Dovlatov una crisi depressiva, era finito il periodo felice del foglio frondista e il New Yorker non gli chiedeva più racconti. Aveva programmato il ritorno a San Pietroburgo, che ancora per poco si chiamò Leningrado. Nel ’91 crollò l’Urss ma lui era morto esule l’anno prima. Tutto questo si potrebbe riassumere in una sua battuta. Come va la vita? Indovina: inizia per emme e finisce per a. A meraviglia.
Dovlatov è stato tradotto e portato in Italia dalla slavista Laura Salmon, docente all’università di Genova. Lo pubblica Sellerio, grazie alla quale sta in buona compagnia sugli scaffali con Roberto Bolaño, non lontano da lui, non solo in ordine alfabetico (penso a Putas asesinas...). Oltre ai titoli già citati ci sono Compromesso, Il libro invisibile, Il parco di Puskin, La marcia dei solitari, Straniera. Ed è atteso per l'autunno Filiale. A parte i Taccuini (Solo per Underwood e Solo per Ibm), non resta molto altro. E poi sarà astinenza.
Il Nobel Iosif Brodskij fu uno dei primi ammiratori di Dovlatov e ne predisse il futuro come classico, quale oggi è in Russia dopo anni di censura. Diceva che non era difficile da tradurre per via della lingua limpida e coincisa. In realtà solo Laura Salmon, che non per niente ha vinto il premio Monselice per il suo lavoro con Dovlatov, sa quanto sia difficile tradurre i giochi di parole, i calembours coi cognomi (ricordo di aver letto un Pirlovskij), il gergo della mala, le canzoncine di strada... In Noialtri, romanzo sulla storia della sua famiglia, metà armena della Georgia e metà ebrea, Dovlatov dice che l’unico spazio di verità nei giornali sovietici era il refuso. E a volte i refusi erano volontari, una forma di rivolta: «Si prenda, ad esempio, il titolo “Inculcate la dottrina!” Ci sono ben diciannove lettere: è mai possibile saltare proprio la seconda c?! Ed è esattamente quello che succede più spesso».
Se è un esercizio interessante attribuire a Dovlatov affinità e parentele, più complicato e spinoso il discorso politico. Dire che giudicava Stalin assassino e fosse contro il regime sovietico, deriso pagina dopo pagina, è scontato. Nel romanzo La valigia racconta alcuni episodi autobiografici attraverso i capi di abbigliamento cui si ridusse il suo misero bagaglio di esule negli States. C’è un capitolo intitolato Il giaccone di Ferdinand Léger. Al ritorno da Parigi, la vedova del famoso attore Nikolaj Cerkasov regalò a Dovlatov una vecchia giacca di velluto ricevuta in dono dal pittore Léger. Ecco il commento di Dovlatov: «Léger era morto comunista; aveva creduto una volta e per sempre in una grandiosa e inaudita impostura. Non è da escludersi che, come molti pittori, fosse stupido».
Allo stesso tempo non amava essere definito «dissidente». Amava l’America ma voleva conservare il diritto di critica e Il nuovo americano fu sabotato dal concorrente oltranzista La parola e l’azione, perché rappresentava l’ondata fresca e irriverente della terza generazione di expat. Dovlatov fu accusato di essere al soldo del Kgb. Si tirò fuori il suo servizio militare come sorvegliante in un campo di prigionia, cosa ridicola perché lui stesso ne parla nel romanzo Regime speciale, forse il suo libro più «politico». Che però è apolitico. Guardie e ladri si somigliano e hanno i medesimi difetti. Ma va detto che i tempi delle purghe erano finiti... Siamo al post-Solzhenicyn. Il nuovo americano interruppe le pubblicazioni per mancanza di fondi e tra gli episodi sfortunati ci fu pure un incendio nonostante il pronto intervento dei pompieri chiamati dalle ragazze d’un bordello di fronte alla redazione, «L’ostrica felice». Iniziò per Dovlatov una crisi depressiva, era finito il periodo felice del foglio frondista e il New Yorker non gli chiedeva più racconti. Aveva programmato il ritorno a San Pietroburgo, che ancora per poco si chiamò Leningrado. Nel ’91 crollò l’Urss ma lui era morto esule l’anno prima. Tutto questo si potrebbe riassumere in una sua battuta. Come va la vita? Indovina: inizia per emme e finisce per a. A meraviglia.
«Il Giornale» del 28 giugno 2010
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