Quando le ideologie sopravvivono a se stesse
di Dario Fertilio
Negli Stati dell’ex impero sovietico si rafforzano antiche fedi nazionaliste e tribali, intolleranti e nemiche dei principi democratici. Così, sulle bandiere, simboli neonazisti e falci col martello si ritrovano alleati contro il comune nemico occidentale. Dallo Jobbik ungherese al bulgaro Ataka, al russo Pamyat al romeno Romania Mare
Sono le uova del drago. Disperse, alla caduta dell’Urss, nell’area appartenuta all’impero di Mosca. Scoperte da ideologi nazionalisti e fondamentalisti religiosi, usate per galvanizzare miti xenofobi e razzisti. Quelle uova si sono dischiuse, generando singolari creature politiche, doppie, con caratteri dottrinali del bolscevismo e arcaismi tribali, aggressivi, sprezzanti della storia, della democrazia, del libero mercato, dei diritti individuali. Nomi e sigle suonano esotici: non è facile orientarsi fra partiti antisemiti e xenofobi che si chiamano Jobbik (in Ungheria), integralisti cattolici raccolti nella Lega delle Famiglie (in Polonia), veri e propri nazionalsocialisti a tinte religiose ortodosse (il Pamyat russo), nazionalisti dell’Sns (in Slovacchia), Delnicka Strana della Repubblica Ceca (partito messo al bando e sempre pronto a ripresentarsi sotto altra veste), antieuropeisti e antirom di Ataka (in Bulgaria), nostalgici della Grande Romania (Partidul Romania Mare). A prima vista è arduo comprendere che cosa animi i seguaci serbi di Vojislav Seselj, minimizzatori del genocidio bosniaco; gli estremisti croati dell’Hsp, nostalgici degli ustascia alleati dei nazifascisti nell’ultima guerra; i sostenitori del Partito nazionale bolscevico dello scrittore russo Eduard Limonov, che partendo dall’estrema sinistra approdano a una visione neo-imperiale e panslava; i seguaci ucraini di Svoboda e del suo leader Oleh Tjahnybok, che vorrebbe farla finita con gli ebrei e i «pervertiti sessuali». Più che un mondo compatto, un arcipelago di ambizioni, risentimenti, pregiudizi, aggressività manifeste o appena celate dietro a slogan e simboli allusivi, spesso mescolato a cosche o gruppi criminali. Compagni di strada ingombranti per l’Unione Europea. Che non può permettersi di ignorarli. Perché, esotico quanto si vuole, il radicalismo centro-orientale è pur sempre figlio di una storia comune al Vecchio Continente, affonda le radici in un passato arcaico, pre-sovietico, ma dal grande Drago Rosso ha ereditato numerosi caratteri. Si potrebbe dire, anzitutto, che esso confermi un famoso giudizio formulato dalla scuola liberale austriaca. Personalità del calibro di Mises e Hayek avevano analizzato le idee di pensatori tedeschi di stampo socialista, come Werner Sombart e Johann Plenge, convinti che la Germania rappresentasse un sistema superiore e più avanzato rispetto alle «bottegaie» democrazie anglosassoni. Le loro teorie avevano costituito terreno fertile per l’affermarsi dell’idea totalitaria nazionalsocialista: il rifiuto dell’individualismo borghese, dell’etica dei «mercanti» e dei diritti individuali, combinata con il rimpianto romantico di un passato organico, moralmente «sano», aveva spianato la strada all’hitlerismo. Ma, seguendo il ragionamento di Hayek, quest’ultimo aveva incontrato poi la nemica bolscevica su un terreno comune: un sapere superiore e salvifico da raggiungere, la fede nel leader e nel dominio del partito, l’asservimento del potere giudiziario e l’uso martellante della propaganda, il controllo sulla vita privata e il monopolio rigido dell’educazione, l’onnipresenza della polizia segreta, la persecuzione dei sospetti oppositori, la carcerazione, la tortura ed eliminazione dei nemici «oggettivi». Diverso era soltanto il nemico: la razza o la nazione inferiore da un lato, la classe borghese e i suoi alleati reazionari dall’altro. A 65 anni dalla caduta di Hitler, e a venti dalla dissoluzione dell’Urss, le tracce di quell’affinità rosso-bruna restano, si mescolano, rivissute da generazioni orfane delle certezze perdute, accolte come relitti cui aggrapparsi. Così, secondo il politologo romeno Vladimir Tismaneanu, «il nazionalismo post-comunista, nelle sue gradazioni, è intimamente legato all’eredità leninista». Non solo sul piano razionale, ideologico: «In realtà la simbiosi di ambizione nazionale e monismo ideologico conduce spesso a un sentimento mitologico, romantico di unicità. Le sofferenze patite al tempo dell’Unione Sovietica diventano la prova della missione salvifica di un certo popolo - serbo, russo, croato, polacco eccetera. Del resto, già Ceausescu amava presentarsi come la reincarnazione di un capo Dacio che aveva resistito agli invasori romani; il serbo Milosevic posava a nuovo principe Lazar, l’eroe serbo morto nella battaglia del Kosovo, nel 1389, contro gli Ottomani; il croato Tudjman, già generale comunista, aveva resuscitato simboli ustascia, filonazisti». E dunque, le creature politiche bifronti uscite dalle uova del drago uniscono ideologia e mito. Non tutto, tuttavia, può essere giudicato secondo un medesimo metro. Olena Ponomareva, studiosa ucraina che insegna alla Sapienza di Roma, nota che l’estremismo nazionalista di Svoboda, il partito di Oleh Tjahnybok che rivendica la «ucrainicità» del Paese, «è da inquadrare in un contesto post-coloniale, come reazione all’imperialismo russo. Certe sue richieste radicali, anche a proposito dell’uso della lingua nazionale, e a scapito di quella "imperiale russa", si avvicinano alle misure di "discriminazione positiva" applicate in Cecoslovacchia e Polonia dopo l’indipendenza nel 1918». Si potrebbe dire, insomma, che il nazionalismo ha due facce: può portare sia a un risorgimento democratico che a un tribalismo persecutore delle differenze. Fa notare Matteo Zola, del sito EastJournal, uno degli strumenti di analisi più interessanti del mondo centro-orientale: «Il materiale da costruzione di questi partiti e movimenti estremisti si articola su temi ricorrenti, come xenofobia, neofascismo, antieuropeismo, fondamentalismo religioso. A seconda che si caratterizzino per la compresenza di tutti questi elementi o solo di alcuni, è possibile distinguere fra movimenti di ascendenza neofascista (generalmente marginali nella vita politica) e partiti populisti, capaci di entrare in coalizioni di governo». Il più forte di tutti, lo Jobbik ungherese, è un po’ l’una e l’altra cosa: diventato il terzo partito del Paese con 48 deputati, al momento di giurare sulla Costituzione il suo leader Gabor Vona si è presentato in giubbotto della Guardia Nazionale Ungherese, ala paramilitare del partito messa al bando, con il simbolo dei «crocefrecciati», i nazisti magiari del 1944. Caso esemplare di «mito ideologico e religioso», lo Jobbik, che era all’origine un’associazione di giovani universitari cristiani, si è convertito alla retorica para-razzista della «Grande Ungheria» pannonica, giurando sulla sacra corona ungherese, appoggiando l’irredentismo delle minoranza magiare nei Carpazi e dando vita, attraverso la «Guardia Nazionale», a un inquietante ordine paramilitare in camicia bruna. Figlia dell’integralismo religioso, la Lega delle Famiglie polacche fa suoi invece i sentimenti antisemiti di matrice cattolica, l’ostilità verso i gay, la convinzione di incarnare i valori del Paese «martire d’Europa» ed estremo baluardo contro la barbarie (di volta in volta tartara, russa, ortodossa, islamica). Pur non disdegnando di entrare nell’agone politico (tanto da raccogliere il 16 per cento dei voti alle elezioni europee) o di appoggiare partiti affini (come Diritto e Giustizia del defunto Lech Kaczynski) il cuore della sua forza risiede nel rovesciamento in positivo delle antiche frustrazioni nazionali polacche: proprio perché ha sofferto, attraverso il martirio culminato nella dominazione sovietica, il popolo «sano» oggi ha il dovere di imporre i propri valori. La potente Radio Maryja tuona contro la legalizzazione delle droghe leggere, il riconoscimento delle unioni omosessuali, l’aborto, l’eutanasia. La battaglia giudiziaria contro l’artista Dorota Nieznalka, colpevole di aver accostato in un’opera beffarda la croce ai genitali maschili, poi condannata per vilipendio, ha rappresentato un momento esemplare di questa battaglia. Caratteristica comune a tutti i movimenti radicali è l’ossessione del nemico: nel caso dell’Sns, il Partito nazionale slovacco, prima degli omosessuali e dei rom vengono gli ungheresi, considerati responsabili di una dominazione durata 150 anni. Neppure gli zingari però se la passano troppo bene, tanto che il caso del villaggio di Ostrovany (1.600 abitanti, per due terzi rom) è diventato famoso dopo l’erezione di un muro per separare le due comunità. Poco più a nord, la Repubblica Ceca ospita i sentimenti simili della Delincka Strana, il Partito Operaio: ma qui il richiamo al nazionalsocialismo è più esplicito. Di fronte a una sentenza di scioglimento, il presidente Tomas Vandas ha annunciato d’essere pronto ad aggirare il divieto aggiungendo due «s» alla sigla: e a quel punto il Dsss, cioè il «Partito operaio della giustizia sociale» avrà il privilegio di ricordare nella sigla il modello hitleriano. I richiami alla svastica, come quelli alla falce e martello, spesso sovrapposti, rappresentano più un appello simbolico che un precisa adesione ideologica: l’attuale presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko, oltre ad aver legittimato il suo potere senza limiti temporali attraverso vari plebisciti, ha espresso pubblicamente apprezzamento per l’ordine e le capacità organizzative della Germania di Hitler, proponendola a modello, senza però dimenticare i benefici vantaggi del sistema sovietico cui lui stesso, in qualità di dirigente industriale, a suo tempo ha partecipato. Agisce poi nel Paese l’Unità nazionale russa, di stampo fascista e in gran parte reclutata dal Kgb fra gli strati emarginati e asociali della popolazione. In questo caso, paradossalmente, i nemici non sono i «diversi» ma i simili: cioè gli stessi bielorussi ostili alla riunificazione con la «grande madre slava di Mosca». La quale, nei loro programmi, dovrebbe ritornare a comprendere Caucaso e Asia centrale «liberata dagli ebrei». Un antisemitismo simile lo si può ritrovare nel bulgaro Ataka (poco amichevole anche nei confronti della minoranza turca, oltre che contrario all’ingresso della Bulgaria nella Nato e nell’Unione Europea). Nel Partidul Romania Mare (il Partito della Grande Romania guidato da Corneliu Tudor) che ha nel mirino, più dei rom e degli ebrei, gli ungheresi della Transilvania e ambirebbe a inglobare entro i propri confini la Moldova. E, naturalmente, nei gruppi estremisti usciti dalle rovine ex-jugoslave, cominciando dal Partito radicale serbo di Vojislav Seselj, con il suo contraltare della Hrvatska Stranka Prava, il partito della destra croata. Ma se quest’ultimo rientra nella cultura tradizionalmente etnocentrica e intollerante (con richiami agli ustascia filonazisti degli anni bellici) è la carriera del primo a rappresentare quasi un modello antropologico. Nato a Sarajevo, comunista in origine orgogliosamente «pro jugoslavo», Seselj ha dapprima intensificato le critiche ai bosniaci musulmani, poi durante le guerre d’indipendenza delle varie repubbliche ha schierato le sue forze paramilitari contro i croati - facendosi processare dal tribunale dell’Aja per crimini di guerra - e scavalcando lo stesso Milosevic sul terreno del più brutale nazionalismo. Oggi il suo partito si aggira come uno spettro del passato nella Serbia già vicina all’Europa. Ma fra tutti è ancora l’antico Paese guida, la Russia, a rappresentare il punto d’incubazione e snodo delle ideologie estreme. Personaggio carismatico del neo-bolscevismo, lo scrittore Eduard Limonov incarna le contraddizioni e le ambiguità del modello: nato in Ucraina, poeta di valore e dissidente a Mosca, espulso ed emigrato in America dove ha stretto amicizia con Lou Reed e Charles Bukowski, una volta rientrato in patria si è trasformato in leader politico neo-bolscevico, sostenitore della rifondazione dell’impero euroasiatico a guida russa, poi combattente volontario in un’unità di cecchini filo serbi in Bosnia, oggi apertamente sprezzante verso tutte le minoranze nazionali dell’ex Urss. La sua - autoproclamata - biblioteca ideale comprende significativamente le opere di Stalin, Bakunin, Evola e Mishima. Ogni riferimento e affinità con la filosofia del Pamyat, il partito ultranazionalista russo fondato da Konstantin Kasimovsky su quattro caposaldi (cristianità ortodossa, Stato forte, slavismo aggressivo, socialismo non marxista) non è casuale. Né tali possono essere considerate le convergenze rosso-brune che in Occidente suscitano disorientamento e sconcerto. Del resto basta leggere le ricostruzioni storiche dei cosiddetti «conservatori russi», che individuano insieme nel libertarismo sessantottino e nel revisionismo di Gorbaciov l’inizio della decadenza, auspicando una nuova «età della luna» (cioè della colonizzazione spaziale) al posto di quella attuale «degenerata», per comprendere quanto lontano qui ci si stia spingendo rispetto al mondo delle democrazie liberali. Ma c’è da meravigliarsene? Lo storico bielorusso Valerij Bujval denuncia: «Al tempo dell’Urss, il culto per le teorie e le pratiche del fascismo era riservato «per consumo interno» alle élite del partito. Nelle scuole speciali, nelle accademie del Kgb, del ministero dell’Interno e in quelle per i dirigenti del Pcus questi valori erano coltivati e insegnati con passione e rispetto, benché naturalmente fuori non dovesse trapelarne nulla». Oggi il processo di appropriazione può avvenire alla luce del sole. E quando gli skinhead russi giustiziano gli inorodtsy, «i non autoctoni», danno corpo - magari senza saperlo - ad antichi, sanguinari fantasmi. RIPRODUZIONE RISERVATA Padre nobile L’economista e sociologo tedesco Werner Sombart (1863-1941) è considerato da molti un padre sia del pensiero socialista che, più tardi, di quello vicino al nazismo. In una delle sue opere più famose, «Mercanti ed eroi», critica gli ideali dell’89 (libertà, uguaglianza, fraternità), e attacca il «Komfortismus» borghese Al tempo dell’Urss, il culto per le teorie e le pratiche del fascismo era riservato alle élite del partito. Nelle accademie del Kgb e in quelle per i dirigenti del Pcus questi studi erano coltivati con passione e rispetto, benché fuori non dovesse trapelarne nulla In realtà la simbiosi di ambizione nazionale e monismo ideologico conduce spesso a un sentimento mitologico. Le sofferenze patite al tempo dell’Urss diventano la prova della missione salvifica che spetta al popolo eletto: di volta in volta serbo, russo, polacco...
Le tesi di Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises sono state aggiornate da Dario Antiseri in «L’agonia dei partiti politici» (Rubbettino 1999). Un’analisi delle mitologie nel Centro-Est Europa post sovietico è in Vladimir Tismaneanu, «Fantasies of Salvation, Democracy, Nationalism and Myth in Post-Communist Societies», Princeton University Press, 1998. Su singoli Paesi: Zianon Pazniak, «Omaggio alla Bielorussia», Bibliotheca Albatros, 2008; Andrea Carteny, «I partiti politici in Romania», Periferia, 2007. Per una panoramica geopolitica sull’intera area, Paese per Paese, il sito «East Journal» (estjournal.wordpress.com).
«Corriere della Sera» del 13 giugno 2010
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