di Gianni Riotta
«Usare la testa mentre tutti intorno a te la perdono, e te ne danno colpa...» era per lo scrittore Rudyard Kipling essenza del l'umanità, restare lucidi nel caos. Un leader trova la strada che sfugge, non percorre i sentieri battuti, sorprende con un approccio magico. Colombo fa vela a Ovest, il logico Gödel rivela le contraddizioni della matematica, Roosevelt e Keynes mettono al lavoro una generazione di senzalavoro. E il mondo cambia.
Oggi siamo stretti tra dilemmi che gli «esperti», che hanno conoscenza dei problemi, senza sapienza per risolverli, espongono con puntualità: ma che solo un leader saprebbe tagliare, come Alessandro a Gordio.
Al G-20 il dilemma è «rigore o sviluppo?». L'Europa, guidata dalla cancelliera tedesca Merkel con il presidente francese Sarkozy malmostoso, è «rigorista», gli Usa del presidente Obama «sviluppisti». Così scrivono i giornali, ma è davvero così? Fino a un certo punto, perché il dilemma divide anche la Casa Bianca, dove il direttore del Bilancio Orszag s'è dimesso, deluso dalla troppa incertezza davanti al bivio. Orszag era rigorista, alla Merkel, e non apprezzava la preoccupazione di Obama per i posti di lavoro, in un anno elettorale. Il ministro del Tesoro Geithner stava dalla sua parte, mentre il direttore del Consiglio Economico Summers era per insistere con iniezioni ricostituenti per l'economia, sia pure ridotte dopo le recenti cure da cavallo.
A chi gli parla adesso Orszag dice «Rigore contro crescita è falso dilemma: la vera lite è sui tempi». Sui tempi rigoristi e sviluppisti giocheranno il loro match al G-20. La pensa come Orszag l'economista italiano Giavazzi che, al Foglio di Ferrara, dichiara «La quadratura del cerchio tra queste due esigenze, entrambe serie, è possibile, serve un'azione sul fronte della politica fiscale, per ridurre in modo strutturale i costi dell'invecchiamento (pensioni, sanità ecc) che sono dieci volte più consistenti dei costi dovuti alla crisi».
Le due tensioni sono entrambe cruciali, Rigore per non diventare tutti greci, Sviluppo per non finire tutti in uno stallo giapponese. Chi dovrebbe alternare con perizia potature e innesti? Un leader: al G-20 ne vedete?
Anche in Afghanistan il dilemma è ormai identificato alla perfezione: rileggete sul Sole di ieri gli interventi di due personaggi opposti, l'ex Segretario di Stato Usa Kissinger e il giornalista che più sa di guerra a Kabul, Rashid. Kissinger, per anni artefice della diplomazia Usa e Rashid, critico severo di Washington nel suo formidabile saggio "Talebani" (Feltrinelli) ammoniscono all'unisono: la guerra non si può vincere, ritirarsi sarebbe la sconfitta e la restituzione del paese al terrorismo. Un pericolo per gli Usa, ma anche per Russia, Cina e India con le loro cospicue minoranze musulmane, preda ambita dei fondamentalisti. Allora si può almeno pareggiare, vale a dire neutralizzare l'Afghanistan e, poco a poco, pacificare le vie di comunicazione, permettere l'accesso agli aiuti, limitare le più feroci violenze talebane.
Servirebbe un leader capace di aprire la porta che non si vede: come fecero Nixon e Kissinger aprendo a Pechino nel 1972. Obama ha cambiato due generali in capo a Kabul in un anno, l'ultimo, il duro e colto McChrystal per avere detto parolacce a una rivista rockettara. Tocca ora al generale Petraeus, autore del Manuale di Controguerriglia dell'esercito Usa (difficile ma bellissimo, lo trovate su Amazon.com), cavarsela. Non ci riuscirà senza un presidente che non perda la testa mentre il suo paese, e gli alleati, la perdono.
In un saggio sulla rivista «The National Interest», lo storico Paul Kennedy rievoca i dilemmi del passato che han perduto leader in apparenza solidi. E parla di «appeasement», la ricerca di compromesso che le democrazie fecero davanti a Hitler, con esiti disastrosi da cui solo la caparbietà di Churchill e la saggia forza di Roosevelt, ci salvarono. Oggi, argomenta, Kennedy, «appeasement, Monaco e compromesso», sono sinonimi di tradimento perché con Hitler nessun compromesso era possibile, politico, militare o morale. Ma spesso ridursi al pro o contro, bianco o nero manicheo, ostacola la soluzione dei problemi. Negoziare, accettare accordi, conquistare un passo dopo l'altro sono alternative migliori dello scacco. Serve però un leader e non se ne vedono.
Ipnotizzati davanti al bivio: è immagine che dal mondo ci porta a casa nostra, in Italia. Non pensate solo alla prova di arroganza del coach Lippi, che proclamava «non convocherò oriundi», intendendo italiani naturalizzati, e solo questo giornale volle obiettargli che la Costituzione italiana non discrimina tra cittadini. Il dilemma era: confermare veterani frusti o scommettere su ragazzi vivaci? Lippi è rimasto abbagliato dalla scelta, mascherando di esperienza la sua paralisi. Il risultato è la peggiore Italia di sempre nel calcio.
In politica, purtroppo, il nostro passato ha record così orribili che lo sconfortante presente non è certo il peggio. Il dilemma rigore-sviluppo ha da noi caratteristiche peculiari, risparmio privato, imprese vive, banche non cicale, solidarietà familiare, le positive; debito, criminalità organizzata, sfascio della pubblica amministrazione e divario crudo Nord-Sud, le negative. Occorrerebbe anche da noi un leader capace di dare orgoglio alla nazione per le sue virtù, rampognandola per i vizi, con un progetto unitario di rigore e sviluppo. Non chiedetelo ai tecnici, ci vuole un politico che li ascolti tutti, poi decida da solo.
Invece siam perduti dietro l'Armata Brancherleone, mentre l'opposizione dibatte sul «futuro del socialismo» (prego?). Dietro le quinte Letta, Tremonti, Fini e il presidente Napolitano, a volte d'accordo altre no, provano a surrogare una regia. È però l'assenza del premier Silvio Berlusconi, per tre volte eletto dagli italiani, la sua apparente indifferenza davanti alle urgenze, la forma italiana della scomparsa dei leader, così ubiqua nel 2010. È questo il dilemma italiano, e tocca a noi risolverlo.
Oggi siamo stretti tra dilemmi che gli «esperti», che hanno conoscenza dei problemi, senza sapienza per risolverli, espongono con puntualità: ma che solo un leader saprebbe tagliare, come Alessandro a Gordio.
Al G-20 il dilemma è «rigore o sviluppo?». L'Europa, guidata dalla cancelliera tedesca Merkel con il presidente francese Sarkozy malmostoso, è «rigorista», gli Usa del presidente Obama «sviluppisti». Così scrivono i giornali, ma è davvero così? Fino a un certo punto, perché il dilemma divide anche la Casa Bianca, dove il direttore del Bilancio Orszag s'è dimesso, deluso dalla troppa incertezza davanti al bivio. Orszag era rigorista, alla Merkel, e non apprezzava la preoccupazione di Obama per i posti di lavoro, in un anno elettorale. Il ministro del Tesoro Geithner stava dalla sua parte, mentre il direttore del Consiglio Economico Summers era per insistere con iniezioni ricostituenti per l'economia, sia pure ridotte dopo le recenti cure da cavallo.
A chi gli parla adesso Orszag dice «Rigore contro crescita è falso dilemma: la vera lite è sui tempi». Sui tempi rigoristi e sviluppisti giocheranno il loro match al G-20. La pensa come Orszag l'economista italiano Giavazzi che, al Foglio di Ferrara, dichiara «La quadratura del cerchio tra queste due esigenze, entrambe serie, è possibile, serve un'azione sul fronte della politica fiscale, per ridurre in modo strutturale i costi dell'invecchiamento (pensioni, sanità ecc) che sono dieci volte più consistenti dei costi dovuti alla crisi».
Le due tensioni sono entrambe cruciali, Rigore per non diventare tutti greci, Sviluppo per non finire tutti in uno stallo giapponese. Chi dovrebbe alternare con perizia potature e innesti? Un leader: al G-20 ne vedete?
Anche in Afghanistan il dilemma è ormai identificato alla perfezione: rileggete sul Sole di ieri gli interventi di due personaggi opposti, l'ex Segretario di Stato Usa Kissinger e il giornalista che più sa di guerra a Kabul, Rashid. Kissinger, per anni artefice della diplomazia Usa e Rashid, critico severo di Washington nel suo formidabile saggio "Talebani" (Feltrinelli) ammoniscono all'unisono: la guerra non si può vincere, ritirarsi sarebbe la sconfitta e la restituzione del paese al terrorismo. Un pericolo per gli Usa, ma anche per Russia, Cina e India con le loro cospicue minoranze musulmane, preda ambita dei fondamentalisti. Allora si può almeno pareggiare, vale a dire neutralizzare l'Afghanistan e, poco a poco, pacificare le vie di comunicazione, permettere l'accesso agli aiuti, limitare le più feroci violenze talebane.
Servirebbe un leader capace di aprire la porta che non si vede: come fecero Nixon e Kissinger aprendo a Pechino nel 1972. Obama ha cambiato due generali in capo a Kabul in un anno, l'ultimo, il duro e colto McChrystal per avere detto parolacce a una rivista rockettara. Tocca ora al generale Petraeus, autore del Manuale di Controguerriglia dell'esercito Usa (difficile ma bellissimo, lo trovate su Amazon.com), cavarsela. Non ci riuscirà senza un presidente che non perda la testa mentre il suo paese, e gli alleati, la perdono.
In un saggio sulla rivista «The National Interest», lo storico Paul Kennedy rievoca i dilemmi del passato che han perduto leader in apparenza solidi. E parla di «appeasement», la ricerca di compromesso che le democrazie fecero davanti a Hitler, con esiti disastrosi da cui solo la caparbietà di Churchill e la saggia forza di Roosevelt, ci salvarono. Oggi, argomenta, Kennedy, «appeasement, Monaco e compromesso», sono sinonimi di tradimento perché con Hitler nessun compromesso era possibile, politico, militare o morale. Ma spesso ridursi al pro o contro, bianco o nero manicheo, ostacola la soluzione dei problemi. Negoziare, accettare accordi, conquistare un passo dopo l'altro sono alternative migliori dello scacco. Serve però un leader e non se ne vedono.
Ipnotizzati davanti al bivio: è immagine che dal mondo ci porta a casa nostra, in Italia. Non pensate solo alla prova di arroganza del coach Lippi, che proclamava «non convocherò oriundi», intendendo italiani naturalizzati, e solo questo giornale volle obiettargli che la Costituzione italiana non discrimina tra cittadini. Il dilemma era: confermare veterani frusti o scommettere su ragazzi vivaci? Lippi è rimasto abbagliato dalla scelta, mascherando di esperienza la sua paralisi. Il risultato è la peggiore Italia di sempre nel calcio.
In politica, purtroppo, il nostro passato ha record così orribili che lo sconfortante presente non è certo il peggio. Il dilemma rigore-sviluppo ha da noi caratteristiche peculiari, risparmio privato, imprese vive, banche non cicale, solidarietà familiare, le positive; debito, criminalità organizzata, sfascio della pubblica amministrazione e divario crudo Nord-Sud, le negative. Occorrerebbe anche da noi un leader capace di dare orgoglio alla nazione per le sue virtù, rampognandola per i vizi, con un progetto unitario di rigore e sviluppo. Non chiedetelo ai tecnici, ci vuole un politico che li ascolti tutti, poi decida da solo.
Invece siam perduti dietro l'Armata Brancherleone, mentre l'opposizione dibatte sul «futuro del socialismo» (prego?). Dietro le quinte Letta, Tremonti, Fini e il presidente Napolitano, a volte d'accordo altre no, provano a surrogare una regia. È però l'assenza del premier Silvio Berlusconi, per tre volte eletto dagli italiani, la sua apparente indifferenza davanti alle urgenze, la forma italiana della scomparsa dei leader, così ubiqua nel 2010. È questo il dilemma italiano, e tocca a noi risolverlo.
«Il Sole 24 Ore» del 27 giugno 2010
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