di Ferdinando Camon
E’ stato ucciso mediante fucilazione un detenuto dello Utah condannato a morte nel 1985 per duplice omicidio. L’esecuzione solleva nel pubblico americano un’ondata di soddisfazione, riassumibile nel motto: meglio tardi che mai. Tutti sentono la morte come una pena più grave dell’ergastolo. La morte è la vera pena, spietata e totale, l’ergastolo è una mezza grazia.
Eppure gira in questi giorni per il mondo un film bellissimo, premio Oscar 2010 come miglior film straniero, imperniato proprio su questo problema: il protagonista vuol far condannare chi ha ucciso la sua donna, ci riesce, gli danno l’ergastolo, ma purtroppo diventa un collaboratore della polizia (siamo in Argentina, con i militari al potere), e ben presto esce, libero, protetto, armato. Che fare? Il protagonista ha una sola scappatoia: farsi giustizia da sé. E come? Ammazzandolo? Potrebbe: lo cattura, lo porta in campagna, passa un treno sferragliante, gli punta una pistola alla testa, spara.
Nessuno sente niente, giustizia è fatta. Ma non va così. Lui non si accontenta di condannarlo a morte. Troppo poco. Lui vuole l’ergastolo. Non vuole ucciderlo una volta, ma ucciderlo ogni giorno. Non vederlo morire e amen, ma vederlo morire minuto per minuto, all’infinito. E questo lo dà soltanto l’ergastolo. Da quando il colpevole gli ha ucciso la compagna, lui soffre una sofferenza che non finisce mai, ed esclama: «Io soffro all’infinito, pagherei per morire in un attimo». Perciò cattura l’assassino, lo nasconde in un casolare sperduto, lo chiude a chiave, lo guarda ogni giorno per anni e lo ascolta implorare di essere ucciso. L’ergastolo è una morte interminabile, che ti fa sognare la morte istantanea come un regalo della pietà.
Il condannato dello Utah aveva ucciso un barista, poi durante il processo aveva ucciso un giudice. Particolare importante: i famigliari del giudice chiedevano l’ergastolo, i famigliari del barista chiedevano la morte. Perciò i binomi sono: cultura ed ergastolo, incultura e morte. Ottenuta la morte, i famigliari del barista hanno espresso soddisfazione. Non l’hanno visto morire, non gli è stato concesso. Questa era un’esecuzione diversa, mediante fucilazione. Nella fucilazione, coloro che sparano (in questo caso, cinque) non sanno chi di loro uccide e chi no. Così dicono i giornali. In realtà lo sanno. Perché c’è un fucile (uno su cinque) caricato a salve, senza pallottola, ma chi spara quel colpo se n’accorge, perché non essendoci il proiettile che parte il fucile non dà il contraccolpo sulla spalla. Se colui che spara è d’accordo sulla condanna a morte, gode del contraccolpo. Se non vuole uccidere, gode del colpo a salve.
Ho visto il film, s’intitola «Il segreto dei suoi occhi», e mi ha colpito una cosa: tutti gli spettatori (la sala era piena), uscendo, commentano con soddisfazione la tesi, e dunque sì, per tutti, l’ergastolo è peggio della morte, come pena. Ed è meglio come redenzione: questo condannato dello Utah viene descritto come «detenuto modello». Dall’85 ad oggi sono passati 25 anni. Un quarto di secolo. In un quarto di secolo è morto, in carcere, l’uomo-assassino ed è nato un uomo-modello. Con l’ergastolo si poteva tenerlo ancora in carcere, a super-redimersi, visto che redento lo è già. La fucilazione non è una redenzione più completa. È soltanto un altro omicidio. E dunque anche io, al quesito iniziale, rispondo: sì, rispetto alla morte l’ergastolo appare una pena più crudele.
Eppure gira in questi giorni per il mondo un film bellissimo, premio Oscar 2010 come miglior film straniero, imperniato proprio su questo problema: il protagonista vuol far condannare chi ha ucciso la sua donna, ci riesce, gli danno l’ergastolo, ma purtroppo diventa un collaboratore della polizia (siamo in Argentina, con i militari al potere), e ben presto esce, libero, protetto, armato. Che fare? Il protagonista ha una sola scappatoia: farsi giustizia da sé. E come? Ammazzandolo? Potrebbe: lo cattura, lo porta in campagna, passa un treno sferragliante, gli punta una pistola alla testa, spara.
Nessuno sente niente, giustizia è fatta. Ma non va così. Lui non si accontenta di condannarlo a morte. Troppo poco. Lui vuole l’ergastolo. Non vuole ucciderlo una volta, ma ucciderlo ogni giorno. Non vederlo morire e amen, ma vederlo morire minuto per minuto, all’infinito. E questo lo dà soltanto l’ergastolo. Da quando il colpevole gli ha ucciso la compagna, lui soffre una sofferenza che non finisce mai, ed esclama: «Io soffro all’infinito, pagherei per morire in un attimo». Perciò cattura l’assassino, lo nasconde in un casolare sperduto, lo chiude a chiave, lo guarda ogni giorno per anni e lo ascolta implorare di essere ucciso. L’ergastolo è una morte interminabile, che ti fa sognare la morte istantanea come un regalo della pietà.
Il condannato dello Utah aveva ucciso un barista, poi durante il processo aveva ucciso un giudice. Particolare importante: i famigliari del giudice chiedevano l’ergastolo, i famigliari del barista chiedevano la morte. Perciò i binomi sono: cultura ed ergastolo, incultura e morte. Ottenuta la morte, i famigliari del barista hanno espresso soddisfazione. Non l’hanno visto morire, non gli è stato concesso. Questa era un’esecuzione diversa, mediante fucilazione. Nella fucilazione, coloro che sparano (in questo caso, cinque) non sanno chi di loro uccide e chi no. Così dicono i giornali. In realtà lo sanno. Perché c’è un fucile (uno su cinque) caricato a salve, senza pallottola, ma chi spara quel colpo se n’accorge, perché non essendoci il proiettile che parte il fucile non dà il contraccolpo sulla spalla. Se colui che spara è d’accordo sulla condanna a morte, gode del contraccolpo. Se non vuole uccidere, gode del colpo a salve.
Ho visto il film, s’intitola «Il segreto dei suoi occhi», e mi ha colpito una cosa: tutti gli spettatori (la sala era piena), uscendo, commentano con soddisfazione la tesi, e dunque sì, per tutti, l’ergastolo è peggio della morte, come pena. Ed è meglio come redenzione: questo condannato dello Utah viene descritto come «detenuto modello». Dall’85 ad oggi sono passati 25 anni. Un quarto di secolo. In un quarto di secolo è morto, in carcere, l’uomo-assassino ed è nato un uomo-modello. Con l’ergastolo si poteva tenerlo ancora in carcere, a super-redimersi, visto che redento lo è già. La fucilazione non è una redenzione più completa. È soltanto un altro omicidio. E dunque anche io, al quesito iniziale, rispondo: sì, rispetto alla morte l’ergastolo appare una pena più crudele.
«La Stampa» del 19 giugno 2010
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