di Giuseppe Granieri
Nelle scorse settimane il New Yorker ha fatto molto parlare con la sua lista dei migliori scrittori sotto i quaranta anni, 20 Under 40. Ci sono state tante reazioni, da quelle serie (ad esempio la riflessione su quanto deve essere giovane un narratore, fatta dalla Sunday Book Review) a quelle divertite. Come la lista egli scrittori sopra gli ottant'anni o l'aggiornamento al 1970 dell'elenco del New Yorker.
Nei giorni scorsi, tra le tante voci che hanno dato eco alla cosa, Lee Siegel ha scritto un pezzo sull'Observer che inizia così: «Nel tumulto provocato dalla lista 20 under 40 è stata tralasciata un'evidenza grande quanto un elefante», scrive, «la narrativa è diventata culturalmente irrilevante».
Certo, se leggi questo paragrafo di esordio, entri in una logica evidente a se stessa: viviamo in una cultura in cui la battaglia per l'attenzione è talmente serrata che devi stupire con titoli forti (Google ci rende stupidi, ad esempio) o con paragrafi ad effetto come quello citato. Ma gli argomenti di Siegel raccolgono un po' di sentire comune in vari ambienti non necessariamente collegati con lo spirito del tempo. Uno dei più punti forti del ragionamento è che scrivere è diventata una professione e che questo penalizza la creatività, ma ci sono -e vengono elencati- tanti e diversi fattori che concorrono a definire la trasparenza della narrativa nelle cose importanti del XXI secolo. Tra l'altro, Siegel sembra notare che le cose più interessanti ormai si scrivono sul versante della non-fiction, i cui autori sono diventati i veri storyteller del nostro tempo. L'articolo si intitola Where Have All the Mailers Gone? ed è sicuramente un pezzo scritto per ottenere visibilità attraverso la polemica.
Ma il ragionamento di Lee Siegel va letto per poi essere affiancato dalla risposta di Carolyn Kellog sul Los Angeles Times, che esamina punto per punto le argomentazioni e le controbatte. «Ogni tanto, nel giro di pochi anni», scrive giustamente la Kellogg, «c'è qualcuno che trova un pulpito per dire che il romanzo è morto». E non occorre andare tanto indietro: basta tornare a gennaio, con un pezzo di Mother Jones intitolato The Death of The Fiction. In fondo sono decenni che muore il romanzo, eppure è sempre qui.
In ogni caso, l'articolo della Kellog si intitola (correttamente) Fiction is dead. Again? e si conclude in maniera molto anglosassone con una esclamazione di senso contrario: «la narrativa è viva!»
Il punto interessante, la ragione per cui ne parliamo qui, è che i due articoli, letti insieme, costruiscono uno scenario che non tiene assolutamente conto della transizione al digitale della lettura e dell'editoria. E' assai probabile che le nostre abitudini di lettori cambino molto nei prossimi anni e che l'accesso alla letteratura finisca per seguire regole differenti. Ne abbiamo parlato spesso ed è una delle tendenze in atto che merita più attenzione. Occorrerà tempo perchè se ne vedano gli effetti, ma il processo è già abbastanza irreversibile.
L'unica certezza, se di certezze si può parlare, è che quando il digitale ha toccato un'industria culturale ha ovviamente modificato profondamente il modello di ricavi (e quindi l'industra stessa). Ma ha anche sempre fatto crescere la domanda di contenuti.
L'esempio sotto gli occhi di tutti è la cosiddetta «crisi dei giornali». Una crisi industriale, cui però corrisponde un aumento della domanda di informazione.
Ecco, io di questo sono convinto: il digitale farà crescere la domanda di lettura e avvicinerà alla narrativa persone che normalmente la frequentavano meno. E probabilmente (come è accaduto con la musica) sposterà l'orizzonte di molti un po' più lontano dal promontorio visibile dei bestseller.
Non avendo sfere di cristallo, io ci scommetterei una birra. Poi, certo, staremo a vedere in che modo gli editori e il mercato riusciranno ad assecondare questa tendenza.
Nei giorni scorsi, tra le tante voci che hanno dato eco alla cosa, Lee Siegel ha scritto un pezzo sull'Observer che inizia così: «Nel tumulto provocato dalla lista 20 under 40 è stata tralasciata un'evidenza grande quanto un elefante», scrive, «la narrativa è diventata culturalmente irrilevante».
Certo, se leggi questo paragrafo di esordio, entri in una logica evidente a se stessa: viviamo in una cultura in cui la battaglia per l'attenzione è talmente serrata che devi stupire con titoli forti (Google ci rende stupidi, ad esempio) o con paragrafi ad effetto come quello citato. Ma gli argomenti di Siegel raccolgono un po' di sentire comune in vari ambienti non necessariamente collegati con lo spirito del tempo. Uno dei più punti forti del ragionamento è che scrivere è diventata una professione e che questo penalizza la creatività, ma ci sono -e vengono elencati- tanti e diversi fattori che concorrono a definire la trasparenza della narrativa nelle cose importanti del XXI secolo. Tra l'altro, Siegel sembra notare che le cose più interessanti ormai si scrivono sul versante della non-fiction, i cui autori sono diventati i veri storyteller del nostro tempo. L'articolo si intitola Where Have All the Mailers Gone? ed è sicuramente un pezzo scritto per ottenere visibilità attraverso la polemica.
Ma il ragionamento di Lee Siegel va letto per poi essere affiancato dalla risposta di Carolyn Kellog sul Los Angeles Times, che esamina punto per punto le argomentazioni e le controbatte. «Ogni tanto, nel giro di pochi anni», scrive giustamente la Kellogg, «c'è qualcuno che trova un pulpito per dire che il romanzo è morto». E non occorre andare tanto indietro: basta tornare a gennaio, con un pezzo di Mother Jones intitolato The Death of The Fiction. In fondo sono decenni che muore il romanzo, eppure è sempre qui.
In ogni caso, l'articolo della Kellog si intitola (correttamente) Fiction is dead. Again? e si conclude in maniera molto anglosassone con una esclamazione di senso contrario: «la narrativa è viva!»
Il punto interessante, la ragione per cui ne parliamo qui, è che i due articoli, letti insieme, costruiscono uno scenario che non tiene assolutamente conto della transizione al digitale della lettura e dell'editoria. E' assai probabile che le nostre abitudini di lettori cambino molto nei prossimi anni e che l'accesso alla letteratura finisca per seguire regole differenti. Ne abbiamo parlato spesso ed è una delle tendenze in atto che merita più attenzione. Occorrerà tempo perchè se ne vedano gli effetti, ma il processo è già abbastanza irreversibile.
L'unica certezza, se di certezze si può parlare, è che quando il digitale ha toccato un'industria culturale ha ovviamente modificato profondamente il modello di ricavi (e quindi l'industra stessa). Ma ha anche sempre fatto crescere la domanda di contenuti.
L'esempio sotto gli occhi di tutti è la cosiddetta «crisi dei giornali». Una crisi industriale, cui però corrisponde un aumento della domanda di informazione.
Ecco, io di questo sono convinto: il digitale farà crescere la domanda di lettura e avvicinerà alla narrativa persone che normalmente la frequentavano meno. E probabilmente (come è accaduto con la musica) sposterà l'orizzonte di molti un po' più lontano dal promontorio visibile dei bestseller.
Non avendo sfere di cristallo, io ci scommetterei una birra. Poi, certo, staremo a vedere in che modo gli editori e il mercato riusciranno ad assecondare questa tendenza.
«La Stampa» del 25 giugno 2010
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