Brano tratto da La ricerca delle radici. Antologia personale, Torino, Einaudi, 1981
di Primo Levi
A un certo punto del percorso viene naturale fare i conti, tutti: quanto si è ricevuto e quanto dato; quanto è entrato, quanto è uscito e quanto resta. Un bisogno; e soddisfano può essere piacevole, ma provarlo è un segnale. Vuol dire che potranno avvenire ancora alcune cose, cadere rami e spuntarne di nuovi, ma le radici si sono consolidate.
Quanto delle nostre radici viene dai libri che abbiamo letti? Tutto molto poco o niente a seconda dell'ambiente in cui siamo nati della temperatura del nostro sangue del labirinto che la sorte ci ha assegnato. Non c'è regola. I Giornali di Bordo di Cristoforo Colombo sono una lettura piena di midollo ma non contengono traccia di un apporto, di un input letterario ci senti un uomo di ventura il mercante e il politico, non altro. All'estremo opposto, Anatole France è tuttora un maestro di vita e un amabile compagno di strada, eppure i suoi molti libri sembrano scaturire da altri libri a loro volta libreschi.
Poiché dispongo di input ibridi, ho accettato volentieri e con curiosità la proposta di comporre anch'io un'"antologia personale", non nel senso borgesiano di autoantologia, ma in quello di una raccolta, retrospettiva e in buona fede, che metta in luce le eventuali tracce di quanto è stato letto su quanto è stato scritto. L'ho accettata come un esperimento incruento, come ci si sottopone a una batteria di test; perché placet experiri e per vedere l'effetto che fa.
Volentieri, dunque, ma con qualche riserva e con qualche tristezza. La riserva principale nasce appunto dal mio ibridismo: ho letto parecchio, ma non credo di stare inscritto nelle cose che ho letto; è probabile che il mio scrivere risenta più dell'aver io condotto per trent'anni un mestiere tecnico, che non dei libri ingenti; perciò l'esperimento è un po' pasticciato, e i suoi esiti dovranno essere interpretati con precauzione. Comunque, ho letto molto, soprattutto negli anni di apprendistato, che nel ricordo mi appaiono stranamente lunghi; come se il tempo, allora, fosse stirato come un elastico, fino a raddoppiarsi, a triplicarsi. Forse lo stesso avviene agli animali dalla vita breve e dal ricambio rapido, come i passeri e gli scoiattoli, e in genere a chi riesce, nell'unità di tempo, a fare e percepire più cose dell'uomo maturo medio: il tempo soggettivo diventa più lungo.
Ho letto molto perché appartenevo a una famiglia in cui leggere era un vizio innocente e tradizionale, un'abitudine gratificante, una ginnastica mentale, un modo obbligatorio e compulsivo di riempire i vuoti di tempo, e una sorta di fata morgana nella direzione della sapienza. Mio padre aveva sempre in lettura tre libri contemporaneamente; leggeva "stando in casa, andando per via, coricandosi e alzandosi" (Deut. 6.7); si faceva cucire dal sarto giacche con tasche larghe e profonde, che potessero contenere un libro ciascuna. Aveva due fratelli altrettanto avidi di letture indiscriminate; i tre (un ingegnere, un medico, un agente di borsa) si volevano molto bene, ma si rubavano a vicenda i libri dalle rispettive librerie in tutte le occasioni possibili. I furti venivano recriminati pro forma, ma di fatto accettati sportivamente, come se ci fosse una regola non scritta secondo cui chi desidera veramente un libro è ipso facto degno di portarselo via e di possederlo. Perciò ho trascorso la giovinezza in un ambiente saturo di carta stampata, ed in cui i testi scolastici erano in minoranza: ho letto anch'io confusamente, senza metodo, secondo il costume di casa, e devo averne ricavato una certa (eccessiva) fiducia nella nobiltà e necessità della carta stampata, e, come sottoprodotto, un certo orecchio e un certo fiuto. Forse, leggendo, mi sono inconsapevolmente preparato a scrivere, così' come il feto di Otto mesi sta nell'acqua ma si prepara a respirare; forse le cose lette riaffiorano qua e là nelle pagine che poi ho scritto, ma il nocciolo del mio scrivere non è costituito da quanto ho letto. Mi sembra onesto dirlo chiaramente, in queste ´istruzioni per l'uso ª della presente antologia.
Tuttavia, e fermo restando che una scelta come questa non può essere esaustiva, né dare al lettore (che le desideri) le chiavi dell'autore, compilando il volume mi sono accorto che l'impresa non era tanto a buon mercato. Non era vuota né superficiale né gratuita: non era un gioco di società. Stranamente, mi sono sentito più esposto al pubblico, più spiattellato, nel fare questa scelta che nello scrivere libri in proprio. A metà cammino mi sono sentito nudo, e in possesso delle opposte impressioni dell'esibizionista, che nudo ci sta bene, e del paziente sul lettino in attesa che il chirurgo gli apra la pancia; anzi, in atto di aprirmela io stesso, come Maometto nella nona bolgia e nell'illustrazione del Doré, in cui del resto il compiacimento masochistico del dannato è vistoso.
Non avrei previsto, accingendomi al lavoro, che fra gli autori preferiti non si trovasse né un furfante, né una donna, né un appartenente alle culture non-europee; che la mia esperienza concentrazionaria dovesse pesare cosi poco; che i magici dovessero prevalere sui moralisti, e questi sui logici. Pazienza, spiegare il perché non è affare mio, vorrà dire che il lettore che ne avrà voglia potrà entrare nel varco e dare uno sguardo all'ecosistema che alberga insospettato nelle mie viscere, saprofiti, uccelli diurni e notturni, rampicanti, farfalle, grilli e muffe.
Proprio come Alcofribas esplora la bocca e la gola di Pantagruele nel brano che ho riportato qui: eppure, lo giuro, scegliendolo non mi ero accorto che fosse così pertinente. Si vede che, per quanto io ami negarlo, uno straccio di Es ce l'ho anch'io. Insomma, mentre la scrittura in prima persona è per me, almeno nelle intenzioni, un lavoro lucido, consapevole e diurno, mi sono accorto che la scelta delle proprie radici è invece opera notturna, viscerale e in gran parte inconscia. Ma in realtà bisognerebbe distinguere due momenti: il primo, lontano nel tempo e scaglionato su decine di anni, in cui veramente si eleggono i libri che ci accompagneranno per la vita, ed il secondo (cioè questo) in cui queste preferenze vengono sancite, catalogate, dichiarate, e giustificate nel limite del possibile. Il primo momento è genuino e non sospetto, il secondo rischia di essere tendenzioso e inquinato dal gusto dell'oggi. Mi rendo conto che alcune delle motivazioni che precedono ogni brano possono essere poco convincenti, avere sapore di a posteriori e di razionalizzazione. Non potrebbe essere altrimenti: non ho sposato quegli autori perché avevano quelle determinate virtù o congenialità; li ho incontrati per opera di fortùna, e le virtù sono venute fuori. Il lettore saltuario ed erratico, il lettore che legge per curiosità, impulso o vizio e non per professione, va incontro a questo genere di sorprese felici ed inesplicabili. Con buona pace degli psicologi, nei contatti umani non c'è legge: non parlo solo del rapporto autore-lettore, ma di tutti. Io chimico, già esperto nelle affinità fra gli elementi, mi trovo sprovveduto davanti alle affinità fra gli individui; qui veramente tutto è possibile, basta pensare a certi matrimoni improbabili e duraturi, a certe amicizie asimmetriche e feconde. Non posso fare a meno di citare nuovamente Rabelais (a cui sono fedele da quarant'anni senza assomigliargli minimamente e senza sapere con precisione il perché): il suo Pantagruele, gigante generoso, ricchissimo, nobile, sapiente e coraggioso, incontra per caso Panurge, mingherlino, povero, ladro, codardo, bugiardo, carico di ogni vizio; lo avrà per compagno in tutte le sue avventure e lo amerà per tutta la vita. Si tratta qui evidentemente delle "ragioni del cuore" di cui parlava Blaise Pascal, che rispetto, che ammiro, che mi sorprende, ma intorno a cui mi sono aggirato più volte invano, come intorno a certe guglie inaccessibili delle Grigne.
Devo anzi constatare che proprio i miei amori più profondi e durevoli sono i meno giustificati: Belli, Porta, Conrad. In altri casi la decifrazione è più facile. Entrano in gioco la vicinanza professionale (Bragg, Gattermann, Clarke, Lucrezio, il sinistro sconosciuto autore della Specification ASTM sugli scarafaggi), il comune amore per il viaggio e l'avventura (Omero, Rosny, Marco Polo ed altri), una lontana parentela ebraica (Giobbe, Mann, Babel', Schalòm Alechém), una più vicina parentela in Celan e in Eliot, l'amicizia personale che ho con Rigoni Stern, D'Arrigo e Langbein, la quale fa sì che io senta (presuntuosamente) i loro scritti quasi un po' miei, e mi faccia piacere farli leggere a chi non li ha ancora letti. Il romanzo di Roger Vercel è un caso particolare: credo che abbia un suo valore intrinseco, ma è importante per me per mie ragioni private, simboliche e pregnanti, perché l'ho letto in un giorno (il 18 gennaio 1945) in cui aspettavo di morire.
Trenta autori cavati fuori da trenta secoli di messaggi scritti, letterari e non, sono una goccia in un oceano. Molte omissioni sono dovute ai limiti di spazio, ad una eccessiva specializzazione, o alla netta coscienza che la mia predilezione è patologica, è un'incapricciatura, un pallino, magari permanente e giustificabile chissà come, ma non trasmissibile. Altre omissioni sono più gravi, e vengono da una mia sordità, o insensibilità, o blocco emotivo, di cui sono consapevole e non fiero. Le inimicizie sono inesplicabili quanto le amicizie: confesso di aver letto Balzac e Dostoevskij per dovere, tardi, con fatica e scarso profitto. Ho omesso altri testi, specie se poetici, per la ragione opposta: non mi sono sentito di proporre autori stranieri che mi sono cari, e che scrivono in lingue che io conosco (Villon, Heine, Lewis Carroll), perché le traduzioni esistenti mi sembrano riduttive senza che io mi senta capace di farne di migliori; e se non ne conosco la lingua (molti russi, i lirici greci), perché so gli inganni che si annidano nelle traduzioni.
In altri casi ancora, è certamente entrato in gioco un effetto di soglia, di barriera: si trattava di superare uno sbarramento (di lingua, di stile, di carattere, di ideologia), dopo il quale avrei trovato terreno piano; non ho fatto il passo decisivo per pigrizia, per pregiudizio o per mancanza di tempo. Se lo avessi fatto, mi sarei forse procurato un nuovo amico, avrei aggiunto una provincia al mio territorio, meravigliosa per definizione, perché ogni terra inesplorata è meravigliosa. Mia colpa: devo confessarlo, preferisco andare sul sicuro, fare un buco e poi rosicchiare dentro a lungo, magari per tutta la vita, come fanno i tarli quando hanno trovato un legno di loro gusto. E ci sono infine, beninteso, lacune anche più grosse, vuoti senza fondo, che sono vuoti miei, di una cultura autogestita, sbilanciata, faziosa, domenicale ed anche violentata: niente di musica, niente di figurativo, poco o niente dell'universo del sentimento. Tant'è, non potevo fingere di essere chi non sono.
Sia per i singoli testi ed autori, sia per i brani entro l'opera di ogni autore, la scelta è stata sincera e quasi automatica. Ho abitudine di collocare i libri preferiti, indipendentemente dal loro tema e dalla loro età, tutti sullo stesso scaffale, e tutti sono abbondantemente sottolineati nei punti che amo rileggere: cosi non ho avuto da lavorare molto. Adesso, a compilazione ultimata, mi accorgo di una regolarità che non era nei programmi, anche perché non avevo un programma. Tutti o quasi i brani che ho scelto contengono o sottintendono una tensione. Tutti o quasi risentono delle opposizioni fondamentali inscritte 'd'ufficio' nel destino di ogni uomo cosciente: errore/verità, riso/pianto, senno/ follia, speranza/disperazione, vittoria/sconfitta.
Non mi sfugge, e mi dà un leggero fastidio, il carattere lapidario-funerario di un'opera come questa, e lo vorrei sdrammatizzare: contro la sua perversa abitudine, il tarlo può trovare altri legni, o sapori nuovi nei legni vecchi. Solo i morti non cambiano più e non spingono altre radici, e perciò solo i morti hanno diritto alla critica, come saviamente è stato detto: 'E una massima riconosciuta dell'etica letteraria che soltanto gli scrittori morti devono essere commentati, visto che non sono più in grado di spiegare se stessi, né di perturbare le spiegazioni di coloro che si dedicano al compito piacevole, e talvolta non privo di utilità, di rendere chiaro ciò che prima era oscuro, e profondo ciò che prima era solo chiaro' (F. C. Schiller, nel suo Commento allo Snark di Lewis Carroll).
Gli autori non sono disposti secondo l'ordine cronologico tradizionale delle antologie, e neppure sono raggruppati per affinità di argomento. Ho seguito approssimativamente la successione in cui mi è accaduto di conoscerli e leggerli, ma spesso ho ceduto alla tentazione del contrasto, come per inscenare dialoghi trans-secolari: come per vedere in che modo due vicini possano reagire fra loro, che cosa possa avvenire all'interfaccia (per esempio) fra Omero e Darwin, fra Lucrezio e Babel', fra Conrad il marinaio e Gattermann il chimico prudente. A Giobbe ho riservato d'istinto la primogenitura, cercando poi di trovare buone ragioni per questa scelta.
Quanto delle nostre radici viene dai libri che abbiamo letti? Tutto molto poco o niente a seconda dell'ambiente in cui siamo nati della temperatura del nostro sangue del labirinto che la sorte ci ha assegnato. Non c'è regola. I Giornali di Bordo di Cristoforo Colombo sono una lettura piena di midollo ma non contengono traccia di un apporto, di un input letterario ci senti un uomo di ventura il mercante e il politico, non altro. All'estremo opposto, Anatole France è tuttora un maestro di vita e un amabile compagno di strada, eppure i suoi molti libri sembrano scaturire da altri libri a loro volta libreschi.
Poiché dispongo di input ibridi, ho accettato volentieri e con curiosità la proposta di comporre anch'io un'"antologia personale", non nel senso borgesiano di autoantologia, ma in quello di una raccolta, retrospettiva e in buona fede, che metta in luce le eventuali tracce di quanto è stato letto su quanto è stato scritto. L'ho accettata come un esperimento incruento, come ci si sottopone a una batteria di test; perché placet experiri e per vedere l'effetto che fa.
Volentieri, dunque, ma con qualche riserva e con qualche tristezza. La riserva principale nasce appunto dal mio ibridismo: ho letto parecchio, ma non credo di stare inscritto nelle cose che ho letto; è probabile che il mio scrivere risenta più dell'aver io condotto per trent'anni un mestiere tecnico, che non dei libri ingenti; perciò l'esperimento è un po' pasticciato, e i suoi esiti dovranno essere interpretati con precauzione. Comunque, ho letto molto, soprattutto negli anni di apprendistato, che nel ricordo mi appaiono stranamente lunghi; come se il tempo, allora, fosse stirato come un elastico, fino a raddoppiarsi, a triplicarsi. Forse lo stesso avviene agli animali dalla vita breve e dal ricambio rapido, come i passeri e gli scoiattoli, e in genere a chi riesce, nell'unità di tempo, a fare e percepire più cose dell'uomo maturo medio: il tempo soggettivo diventa più lungo.
Ho letto molto perché appartenevo a una famiglia in cui leggere era un vizio innocente e tradizionale, un'abitudine gratificante, una ginnastica mentale, un modo obbligatorio e compulsivo di riempire i vuoti di tempo, e una sorta di fata morgana nella direzione della sapienza. Mio padre aveva sempre in lettura tre libri contemporaneamente; leggeva "stando in casa, andando per via, coricandosi e alzandosi" (Deut. 6.7); si faceva cucire dal sarto giacche con tasche larghe e profonde, che potessero contenere un libro ciascuna. Aveva due fratelli altrettanto avidi di letture indiscriminate; i tre (un ingegnere, un medico, un agente di borsa) si volevano molto bene, ma si rubavano a vicenda i libri dalle rispettive librerie in tutte le occasioni possibili. I furti venivano recriminati pro forma, ma di fatto accettati sportivamente, come se ci fosse una regola non scritta secondo cui chi desidera veramente un libro è ipso facto degno di portarselo via e di possederlo. Perciò ho trascorso la giovinezza in un ambiente saturo di carta stampata, ed in cui i testi scolastici erano in minoranza: ho letto anch'io confusamente, senza metodo, secondo il costume di casa, e devo averne ricavato una certa (eccessiva) fiducia nella nobiltà e necessità della carta stampata, e, come sottoprodotto, un certo orecchio e un certo fiuto. Forse, leggendo, mi sono inconsapevolmente preparato a scrivere, così' come il feto di Otto mesi sta nell'acqua ma si prepara a respirare; forse le cose lette riaffiorano qua e là nelle pagine che poi ho scritto, ma il nocciolo del mio scrivere non è costituito da quanto ho letto. Mi sembra onesto dirlo chiaramente, in queste ´istruzioni per l'uso ª della presente antologia.
Tuttavia, e fermo restando che una scelta come questa non può essere esaustiva, né dare al lettore (che le desideri) le chiavi dell'autore, compilando il volume mi sono accorto che l'impresa non era tanto a buon mercato. Non era vuota né superficiale né gratuita: non era un gioco di società. Stranamente, mi sono sentito più esposto al pubblico, più spiattellato, nel fare questa scelta che nello scrivere libri in proprio. A metà cammino mi sono sentito nudo, e in possesso delle opposte impressioni dell'esibizionista, che nudo ci sta bene, e del paziente sul lettino in attesa che il chirurgo gli apra la pancia; anzi, in atto di aprirmela io stesso, come Maometto nella nona bolgia e nell'illustrazione del Doré, in cui del resto il compiacimento masochistico del dannato è vistoso.
Non avrei previsto, accingendomi al lavoro, che fra gli autori preferiti non si trovasse né un furfante, né una donna, né un appartenente alle culture non-europee; che la mia esperienza concentrazionaria dovesse pesare cosi poco; che i magici dovessero prevalere sui moralisti, e questi sui logici. Pazienza, spiegare il perché non è affare mio, vorrà dire che il lettore che ne avrà voglia potrà entrare nel varco e dare uno sguardo all'ecosistema che alberga insospettato nelle mie viscere, saprofiti, uccelli diurni e notturni, rampicanti, farfalle, grilli e muffe.
Proprio come Alcofribas esplora la bocca e la gola di Pantagruele nel brano che ho riportato qui: eppure, lo giuro, scegliendolo non mi ero accorto che fosse così pertinente. Si vede che, per quanto io ami negarlo, uno straccio di Es ce l'ho anch'io. Insomma, mentre la scrittura in prima persona è per me, almeno nelle intenzioni, un lavoro lucido, consapevole e diurno, mi sono accorto che la scelta delle proprie radici è invece opera notturna, viscerale e in gran parte inconscia. Ma in realtà bisognerebbe distinguere due momenti: il primo, lontano nel tempo e scaglionato su decine di anni, in cui veramente si eleggono i libri che ci accompagneranno per la vita, ed il secondo (cioè questo) in cui queste preferenze vengono sancite, catalogate, dichiarate, e giustificate nel limite del possibile. Il primo momento è genuino e non sospetto, il secondo rischia di essere tendenzioso e inquinato dal gusto dell'oggi. Mi rendo conto che alcune delle motivazioni che precedono ogni brano possono essere poco convincenti, avere sapore di a posteriori e di razionalizzazione. Non potrebbe essere altrimenti: non ho sposato quegli autori perché avevano quelle determinate virtù o congenialità; li ho incontrati per opera di fortùna, e le virtù sono venute fuori. Il lettore saltuario ed erratico, il lettore che legge per curiosità, impulso o vizio e non per professione, va incontro a questo genere di sorprese felici ed inesplicabili. Con buona pace degli psicologi, nei contatti umani non c'è legge: non parlo solo del rapporto autore-lettore, ma di tutti. Io chimico, già esperto nelle affinità fra gli elementi, mi trovo sprovveduto davanti alle affinità fra gli individui; qui veramente tutto è possibile, basta pensare a certi matrimoni improbabili e duraturi, a certe amicizie asimmetriche e feconde. Non posso fare a meno di citare nuovamente Rabelais (a cui sono fedele da quarant'anni senza assomigliargli minimamente e senza sapere con precisione il perché): il suo Pantagruele, gigante generoso, ricchissimo, nobile, sapiente e coraggioso, incontra per caso Panurge, mingherlino, povero, ladro, codardo, bugiardo, carico di ogni vizio; lo avrà per compagno in tutte le sue avventure e lo amerà per tutta la vita. Si tratta qui evidentemente delle "ragioni del cuore" di cui parlava Blaise Pascal, che rispetto, che ammiro, che mi sorprende, ma intorno a cui mi sono aggirato più volte invano, come intorno a certe guglie inaccessibili delle Grigne.
Devo anzi constatare che proprio i miei amori più profondi e durevoli sono i meno giustificati: Belli, Porta, Conrad. In altri casi la decifrazione è più facile. Entrano in gioco la vicinanza professionale (Bragg, Gattermann, Clarke, Lucrezio, il sinistro sconosciuto autore della Specification ASTM sugli scarafaggi), il comune amore per il viaggio e l'avventura (Omero, Rosny, Marco Polo ed altri), una lontana parentela ebraica (Giobbe, Mann, Babel', Schalòm Alechém), una più vicina parentela in Celan e in Eliot, l'amicizia personale che ho con Rigoni Stern, D'Arrigo e Langbein, la quale fa sì che io senta (presuntuosamente) i loro scritti quasi un po' miei, e mi faccia piacere farli leggere a chi non li ha ancora letti. Il romanzo di Roger Vercel è un caso particolare: credo che abbia un suo valore intrinseco, ma è importante per me per mie ragioni private, simboliche e pregnanti, perché l'ho letto in un giorno (il 18 gennaio 1945) in cui aspettavo di morire.
Trenta autori cavati fuori da trenta secoli di messaggi scritti, letterari e non, sono una goccia in un oceano. Molte omissioni sono dovute ai limiti di spazio, ad una eccessiva specializzazione, o alla netta coscienza che la mia predilezione è patologica, è un'incapricciatura, un pallino, magari permanente e giustificabile chissà come, ma non trasmissibile. Altre omissioni sono più gravi, e vengono da una mia sordità, o insensibilità, o blocco emotivo, di cui sono consapevole e non fiero. Le inimicizie sono inesplicabili quanto le amicizie: confesso di aver letto Balzac e Dostoevskij per dovere, tardi, con fatica e scarso profitto. Ho omesso altri testi, specie se poetici, per la ragione opposta: non mi sono sentito di proporre autori stranieri che mi sono cari, e che scrivono in lingue che io conosco (Villon, Heine, Lewis Carroll), perché le traduzioni esistenti mi sembrano riduttive senza che io mi senta capace di farne di migliori; e se non ne conosco la lingua (molti russi, i lirici greci), perché so gli inganni che si annidano nelle traduzioni.
In altri casi ancora, è certamente entrato in gioco un effetto di soglia, di barriera: si trattava di superare uno sbarramento (di lingua, di stile, di carattere, di ideologia), dopo il quale avrei trovato terreno piano; non ho fatto il passo decisivo per pigrizia, per pregiudizio o per mancanza di tempo. Se lo avessi fatto, mi sarei forse procurato un nuovo amico, avrei aggiunto una provincia al mio territorio, meravigliosa per definizione, perché ogni terra inesplorata è meravigliosa. Mia colpa: devo confessarlo, preferisco andare sul sicuro, fare un buco e poi rosicchiare dentro a lungo, magari per tutta la vita, come fanno i tarli quando hanno trovato un legno di loro gusto. E ci sono infine, beninteso, lacune anche più grosse, vuoti senza fondo, che sono vuoti miei, di una cultura autogestita, sbilanciata, faziosa, domenicale ed anche violentata: niente di musica, niente di figurativo, poco o niente dell'universo del sentimento. Tant'è, non potevo fingere di essere chi non sono.
Sia per i singoli testi ed autori, sia per i brani entro l'opera di ogni autore, la scelta è stata sincera e quasi automatica. Ho abitudine di collocare i libri preferiti, indipendentemente dal loro tema e dalla loro età, tutti sullo stesso scaffale, e tutti sono abbondantemente sottolineati nei punti che amo rileggere: cosi non ho avuto da lavorare molto. Adesso, a compilazione ultimata, mi accorgo di una regolarità che non era nei programmi, anche perché non avevo un programma. Tutti o quasi i brani che ho scelto contengono o sottintendono una tensione. Tutti o quasi risentono delle opposizioni fondamentali inscritte 'd'ufficio' nel destino di ogni uomo cosciente: errore/verità, riso/pianto, senno/ follia, speranza/disperazione, vittoria/sconfitta.
Non mi sfugge, e mi dà un leggero fastidio, il carattere lapidario-funerario di un'opera come questa, e lo vorrei sdrammatizzare: contro la sua perversa abitudine, il tarlo può trovare altri legni, o sapori nuovi nei legni vecchi. Solo i morti non cambiano più e non spingono altre radici, e perciò solo i morti hanno diritto alla critica, come saviamente è stato detto: 'E una massima riconosciuta dell'etica letteraria che soltanto gli scrittori morti devono essere commentati, visto che non sono più in grado di spiegare se stessi, né di perturbare le spiegazioni di coloro che si dedicano al compito piacevole, e talvolta non privo di utilità, di rendere chiaro ciò che prima era oscuro, e profondo ciò che prima era solo chiaro' (F. C. Schiller, nel suo Commento allo Snark di Lewis Carroll).
Gli autori non sono disposti secondo l'ordine cronologico tradizionale delle antologie, e neppure sono raggruppati per affinità di argomento. Ho seguito approssimativamente la successione in cui mi è accaduto di conoscerli e leggerli, ma spesso ho ceduto alla tentazione del contrasto, come per inscenare dialoghi trans-secolari: come per vedere in che modo due vicini possano reagire fra loro, che cosa possa avvenire all'interfaccia (per esempio) fra Omero e Darwin, fra Lucrezio e Babel', fra Conrad il marinaio e Gattermann il chimico prudente. A Giobbe ho riservato d'istinto la primogenitura, cercando poi di trovare buone ragioni per questa scelta.
Da questa prefazione è stata tratta la prova di maturita (analisi del teso) dell'anno 2010
Postato il 22 giugno 2010
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