Negli Usa un’indagine sui motivi che spingono a mettere fine a una gravidanza solleva il velo su mille pressioni. Uno studio simile da noi aiuterebbe a prendere atto della realtà
di Domenico Delle Foglie
In Italia è stato detto davvero tutto sull’aborto? Oppure, com’è ragionevole supporre, c’è ancora un’area di non detto, di non raccontato, di non indagato? L’interrogativo è assolutamente legittimo perché, come ogni fenomeno sociale che si rispetti, anche l’aborto ha una sua storia remota e una recente, una legislazione e una sua pratica attuazione, una mole di dati statistici alle spalle e un futuro da scrivere.
I dubbi che proveremo a sollevare nascono da una notizia diffusa nei giorni scorsi: l’Elliot Institute, un’organizzazione pro life dell’Illinois dedita all’aiuto psicologico delle donne che hanno abortito, afferma che «probabilmente la maggior parte degli aborti negli Stati Uniti è indesiderato o forzato». Un’affermazione impegnativa a cui seguono una serie di dati che mostrano come sulla decisione di abortire pesino le pressioni delle famiglie e dei fidanzati, così come quelle esercitate dai datori di lavoro. Ma le sollecitazioni non finiscono qui: ci sono anche altre pressioni sociali come la discriminazione nel trovare un alloggio o le condizioni coercitive di lavoro. Insomma, un quadro da «aborto forzato» in un Paese occidentale, in cui vari soggetti entrano in gioco nell’opera di dissuasione alla maternità.
L’Elliot Institute a dire il vero racconta anche molti casi emblematici, dalla giovane studentessa atleta del college costretta ad abortire per non perdere la borsa di studio, all’attrice licenziata perché incinta, al caso estremo dei predatori sessuali che costringono soprattutto le minorenni all’interruzione di gravidanza. Un quadro inquietante, che fa sorgere qualche domanda ragionevole.
Innanzitutto, noi italiani possiamo continuare a illuderci di vivere nel più perfetto dei mondi possibili dove le donne, tutte le donne, scelgono l’interruzione della gravidanza in piena coscienza e nel rispetto totale della propria libertà? Siamo diventati all’improvviso il Paese guida nell’autodeterminazione? Le ragazze minorenni sono tutte perfettamente consapevoli e mature da scegliere l’aborto in totale indipendenza? E veniamo alle domande più scomode: nessuna donna viene indotta all’aborto per un ricatto di natura
Qsessuale? Nessuna soggiace alle violenze o alle intimidazioni del marito, fidanzato, compagno o partner occasionale? Nessuna donna o ragazza ha una famiglia che la spinge a disfarsi del nascituro? Nessuna è così povera da rinunciare al figlio perché non può dargli un futuro? Nessuna abortisce perché rischierebbe di perdere il lavoro? ualche tempo fa ci scandalizzammo per le lettere di dimissioni in bianco che alcuni datori di lavoro facevano firmare alle loro dipendenti all’atto dell’assunzione. Lettere ovviamente senza data, per garantirsi la possibilità di mandarle via in caso di gravidanza. Quante donne hanno accettato il ricatto per necessità? Ecco, noi vorremmo che le statistiche ufficiali sull’aborto venissero arricchite da questi elementi qualitativi. Non tocca ovviamente al ministero della Salute né all’Istat, che gestisce le rilevazioni in base alle quali si costruisce il rapporto annuale sulla legge 194. Piuttosto, dovrebbe scendere in campo un soggetto terzo (il Cnel?), libero da ipoteche ideologiche, in grado di restituirci una fotografia realistica delle motivazioni che inducono all’aborto. Forse avremmo delle sorprese che infrangerebbero definitivamente il mito dell’autodeterminazione assoluta che un certo settore del femminismo militante ha propagandato, al punto da far chiudere occhi, tappare orecchie e addormentare coscienze.
I dubbi che proveremo a sollevare nascono da una notizia diffusa nei giorni scorsi: l’Elliot Institute, un’organizzazione pro life dell’Illinois dedita all’aiuto psicologico delle donne che hanno abortito, afferma che «probabilmente la maggior parte degli aborti negli Stati Uniti è indesiderato o forzato». Un’affermazione impegnativa a cui seguono una serie di dati che mostrano come sulla decisione di abortire pesino le pressioni delle famiglie e dei fidanzati, così come quelle esercitate dai datori di lavoro. Ma le sollecitazioni non finiscono qui: ci sono anche altre pressioni sociali come la discriminazione nel trovare un alloggio o le condizioni coercitive di lavoro. Insomma, un quadro da «aborto forzato» in un Paese occidentale, in cui vari soggetti entrano in gioco nell’opera di dissuasione alla maternità.
L’Elliot Institute a dire il vero racconta anche molti casi emblematici, dalla giovane studentessa atleta del college costretta ad abortire per non perdere la borsa di studio, all’attrice licenziata perché incinta, al caso estremo dei predatori sessuali che costringono soprattutto le minorenni all’interruzione di gravidanza. Un quadro inquietante, che fa sorgere qualche domanda ragionevole.
Innanzitutto, noi italiani possiamo continuare a illuderci di vivere nel più perfetto dei mondi possibili dove le donne, tutte le donne, scelgono l’interruzione della gravidanza in piena coscienza e nel rispetto totale della propria libertà? Siamo diventati all’improvviso il Paese guida nell’autodeterminazione? Le ragazze minorenni sono tutte perfettamente consapevoli e mature da scegliere l’aborto in totale indipendenza? E veniamo alle domande più scomode: nessuna donna viene indotta all’aborto per un ricatto di natura
Qsessuale? Nessuna soggiace alle violenze o alle intimidazioni del marito, fidanzato, compagno o partner occasionale? Nessuna donna o ragazza ha una famiglia che la spinge a disfarsi del nascituro? Nessuna è così povera da rinunciare al figlio perché non può dargli un futuro? Nessuna abortisce perché rischierebbe di perdere il lavoro? ualche tempo fa ci scandalizzammo per le lettere di dimissioni in bianco che alcuni datori di lavoro facevano firmare alle loro dipendenti all’atto dell’assunzione. Lettere ovviamente senza data, per garantirsi la possibilità di mandarle via in caso di gravidanza. Quante donne hanno accettato il ricatto per necessità? Ecco, noi vorremmo che le statistiche ufficiali sull’aborto venissero arricchite da questi elementi qualitativi. Non tocca ovviamente al ministero della Salute né all’Istat, che gestisce le rilevazioni in base alle quali si costruisce il rapporto annuale sulla legge 194. Piuttosto, dovrebbe scendere in campo un soggetto terzo (il Cnel?), libero da ipoteche ideologiche, in grado di restituirci una fotografia realistica delle motivazioni che inducono all’aborto. Forse avremmo delle sorprese che infrangerebbero definitivamente il mito dell’autodeterminazione assoluta che un certo settore del femminismo militante ha propagandato, al punto da far chiudere occhi, tappare orecchie e addormentare coscienze.
«Avvenire» del 16 giugno 2010
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