di Massimo Donaddio
Non ce lo saremmo mai aspettato da un "Cucciolo" come lui. Sì, perché Carlos Caetano Bledorn Verri, l'allenatore della nazionale brasiliana noto a tutti con il nome di Dunga, prende il suo soprannome proprio da uno dei sette nani della famosa fiaba popolare resa celebre anche dai disegni di Walt Disney. Eppure i suoi riferimenti, non solo calcistici ma anche culturali in genere, sono altri, ben più di seri e impegnativi. Nientemeno che Niccolò Machiavelli - uno dei pensatori della storia d'Italia più importanti e conosciuti nel mondo - e il suo Principe, il libro che, per eccellenza, parla delle doti del comando, della conquista e del mantenimento del potere.
Un libro che continua a ispirare fior di capi, di manager, di generali, di uomini politici anche oggi, un po' come i testi sull'arte della guerra del cinese Sun Tsu e del generale prussiano Carl von Clausewitz. Ora, che Dunga non brilli per simpatia e per comunicativa, non è una gran novità. Che non sia amatissimo anche nel suo paese perché non ha ceduto al clamore popolare nelle convocazioni, è risaputo. Ma che abbia come punto di riferimento nel suo lavoro il Principe di Machiavelli è decisamente curioso.
Certo, i grandi allenatori ormai sono - o dovrebbero essere - dei maestri di lavoro in team, di motivazione, di gestione e coesione di gruppo. Josè Mourinho sarebbe probabilmente un fanatstico manager ovunque mentre Marcello Lippi ha passato almeno due anni (se non quattro) a raccontare nei consessi più diversi (aziende e università) come si governa un gruppo e come si raggiunge un risultato che conta con la giusta determinazione. Ma non era fin qui noto un classico della cultura come testo ispiratore per un allenatore.
E invece il Cucciolo si ispira direttamente al machiavellico Principe. Forse è per questo che se ne infischia del consenso, delle critiche, delle antipatie, e della filosofia del bel gioco. Non ci ha pensato due volte nel non convocare un idolo della torcida come Ronaldinho, campione dello "joga bonito" (che in Brasile è quasi una filosofia di vita). Perché questa ispirazione "italiana"? Facile. Dal 1988 al 1992 Dunga ha giocato nella Fiorentina, è vissuto a Firenze e si è appassionato al Rinascimento, all'arte, alla cultura, alla scienza, più in generale alla città dei Medici, di Leonardo, Michelangelo e Botticelli, di Dante e appunto di Machiavelli. «A Firenze ho imparato l'italiano, grazie al club ho visitato i migliori musei anche quando questi erano chiusi al pubblico, e ho scoperto Machiavelli», ha dichiarato recentemente il ct brasiliano, che del filosofo cita l'interrogativo di fondo: per il Principe, la sua virtù politica e cioè per il leader, il condottoriero, il capo, è meglio essere amato o temuto? Eterno dilemma di ogni tempo e di ogni uomo che abbia responsabilità. Machiavelli suggerisce che, dovendo scegliere tra le due opzioni, è meglio privilegiare la seconda. Il Principe è infatti colui che conserva o amplia il proprio potere con astuzia, sottigliezza e, quando serve, crudeltà. Inoltre deve essere un esperto nella selezione dei collaboratori e della sua squadra, come sanno bene Diego, Thiago Motta, Adriano e Pato, per fare qualche altro nome. Non avrà conseguito i gradi accademici alla Harvard University o alla Normale di Pisa, ma il Principe Dunga mostra di avere le idee molto chiare in testa. Vedremo se sarà più bravo e fortunato del toscano "autentico" Marcello Lippi.
Un libro che continua a ispirare fior di capi, di manager, di generali, di uomini politici anche oggi, un po' come i testi sull'arte della guerra del cinese Sun Tsu e del generale prussiano Carl von Clausewitz. Ora, che Dunga non brilli per simpatia e per comunicativa, non è una gran novità. Che non sia amatissimo anche nel suo paese perché non ha ceduto al clamore popolare nelle convocazioni, è risaputo. Ma che abbia come punto di riferimento nel suo lavoro il Principe di Machiavelli è decisamente curioso.
Certo, i grandi allenatori ormai sono - o dovrebbero essere - dei maestri di lavoro in team, di motivazione, di gestione e coesione di gruppo. Josè Mourinho sarebbe probabilmente un fanatstico manager ovunque mentre Marcello Lippi ha passato almeno due anni (se non quattro) a raccontare nei consessi più diversi (aziende e università) come si governa un gruppo e come si raggiunge un risultato che conta con la giusta determinazione. Ma non era fin qui noto un classico della cultura come testo ispiratore per un allenatore.
E invece il Cucciolo si ispira direttamente al machiavellico Principe. Forse è per questo che se ne infischia del consenso, delle critiche, delle antipatie, e della filosofia del bel gioco. Non ci ha pensato due volte nel non convocare un idolo della torcida come Ronaldinho, campione dello "joga bonito" (che in Brasile è quasi una filosofia di vita). Perché questa ispirazione "italiana"? Facile. Dal 1988 al 1992 Dunga ha giocato nella Fiorentina, è vissuto a Firenze e si è appassionato al Rinascimento, all'arte, alla cultura, alla scienza, più in generale alla città dei Medici, di Leonardo, Michelangelo e Botticelli, di Dante e appunto di Machiavelli. «A Firenze ho imparato l'italiano, grazie al club ho visitato i migliori musei anche quando questi erano chiusi al pubblico, e ho scoperto Machiavelli», ha dichiarato recentemente il ct brasiliano, che del filosofo cita l'interrogativo di fondo: per il Principe, la sua virtù politica e cioè per il leader, il condottoriero, il capo, è meglio essere amato o temuto? Eterno dilemma di ogni tempo e di ogni uomo che abbia responsabilità. Machiavelli suggerisce che, dovendo scegliere tra le due opzioni, è meglio privilegiare la seconda. Il Principe è infatti colui che conserva o amplia il proprio potere con astuzia, sottigliezza e, quando serve, crudeltà. Inoltre deve essere un esperto nella selezione dei collaboratori e della sua squadra, come sanno bene Diego, Thiago Motta, Adriano e Pato, per fare qualche altro nome. Non avrà conseguito i gradi accademici alla Harvard University o alla Normale di Pisa, ma il Principe Dunga mostra di avere le idee molto chiare in testa. Vedremo se sarà più bravo e fortunato del toscano "autentico" Marcello Lippi.
«Il Sole 24 Ore» del 28 giugno 2010
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