Claudio Magris incontra Arnaldo Benini, neurochirurgo, che indaga le origini della coscienza e il significato dell'Io
di Claudio Magris e Arnaldo Benini
È dall' intreccio fra genetica e cultura che nascono ideali e orrori, istinti e sentimenti Collegare a dinamiche chimiche la vita spirituale non significa negare all' uomo libertà e dignità La mente umana studia se stessa ma non riesce ad analizzarsi sino ai suoi meccanismi basilari
«Capire come quell’intricata massa di cellule, coi loro fili, arrivi a pensare, non è facile da immaginare né da descrivere...» Così scrive, in un libro di prossima pubblicazione, Franco Panizon, grande, fraterno e imprevedibile pediatra che anche in età avanzata ha continuato e continua a sviluppare con la sua équipe triestina la pediatria nel Mozambico. Trieste ha grandi tradizioni pediatriche, figure come Bruno Pincherle, originale scrittore e politico oltre che medico, e, particolarmente negli ultimi decenni, notevolissimi clinici - e studiosi pure degli aspetti esistenziali e sociali dell’essere bambino e genitore - quali Panizon o Sergio Nordio, con i loro allievi. La storia del cervello - e delle sue funzioni - è una storia dell’evoluzione dell’uomo, nel suo intreccio di genetica e cultura che si influenzano a vicenda, dallo sviluppo della parte anteriore dei lobi frontali, organo del pensiero, e dalla funzione fondamentale dei neuroni-specchio al divenire antropologico e culturale dell’umanità, sino al profilarsi odierno di un grande e ancora ignoto mutamento, di un grande salto dell’uomo, in bene o in male. La ricerca del legame tra come siamo fatti e come ci comportiamo e sentiamo - e dunque la ricerca di chi siamo - supera ogni contrapposizione, ormai insostenibile, fra le cosiddette «due culture», scientifica e umanistica.
È quanto fa ad esempio Arnaldo Benini nel suo affascinante, rigoroso e godibilmente accessibile libro Che cosa sono io. Il cervello alla ricerca di se stesso (Garzanti, pp. 149, 13). Docente di neurochirurgia all’Università di Zurigo e primario sino al 2003 alla clinica Schulthess zurighese, Benini è uno scienziato e un clinico che si è occupato pure della fisiologia del dolore in Cartesio, dell’antisemitismo tedesco nel primo dopoguerra, di Thomas Mann e di Jakob Wassermann; ha studiato l’afasia nei poliglotti e ha scritto saggi di etica medica (sulla procreazione assistita, sullo stato vegetativo e sul testamento biologico). Attualmente sta studiando i disturbi nervosi del senso del tempo, elemento essenziale della formazione e dell’autocoscienza dell’Io, che egli affronta con l’esperienza del neurologo che cura il cervello ammalato e con una profonda familiarità con le neuroscienze cognitive, e anche con la filosofia e la letteratura, chiavi essenziali per la comprensione globale dell’uomo. Scevro di ogni scientismo, non meno ottuso delle vacuità spiritualeggianti, l’agile libro è un breviario dell’Io che si indaga.
«Lei sottolinea - gli chiedo incontrandolo a Ravenna, dove è nato - come nello studio del cervello il soggetto che studia coincida con l’oggetto studiato (il cervello indaga se stesso). Alcuni neuroscienziati hanno espresso il dubbio che questa impresa possa riuscire. Anche studiare il mondo può essere contraddittorio, come il barone di Münchhausen che si sollevava dalle sabbie mobili tirandosi su per il suo codino, visto che il cervello fa parte del mondo...».
Benini - Certo, il cervello, per indagare se stesso, impiega gli stessi meccanismi cognitivi con cui indaga il mondo; anche se gli scienziati - ossia i cervelli - all’opera sono molti, i limiti e le possibilità di errore di questo procedere sono evidenti. La scienza individua i centri e i meccanismi all’interno del cervello che creano mente e coscienza, ma non sa spiegare che cosa sia la coscienza. Lo stesso vale per il libero arbitrio, il senso del bello, la poesia, il senso del tempo. L’autocoscienza (che è la capacità, esclusiva della coscienza umana in virtù della parte anteriore dei lobi prefrontali del cervello, di porre se stessa ad oggetto della propria riflessione) non riesce ad analizzarsi sino ai suoi meccanismi basilari e le neuroscienze, pur avendo fornito una mole enorme di conoscenze sul funzionamento del cervello, non hanno fatto alcun progresso circa la spiegazione della nascita della coscienza dalla materia del cervello. La mente è materializzata nel cervello, ma il suo meccanismo è ignoto.
Magris - Uno degli aspetti affascinanti del libro è il senso direi quasi sacro della complessità dell’uomo, senza alcuna presunzione scientista di aver spiegato tutto. Ad esempio, esso spiega che cosa si attiva nel cervello quando prendiamo una decisione, senza proclamare alcun determinismo negatore della libertà umana. E così avviene con l’analisi dei rapporti fra il senso del tempo e le sue trasformazioni all’interno del nostro cervello. Questa è scienza, ma è quasi già anche letteratura...
Benini - Il cervello indaga la propria mente e la propria interiorità non solo con la metodologia naturalistica delle neuroscienze, ma anche con la letteratura, la poesia, la musica, l’arte, espressioni fondamentali per capire la nostra più intima natura. Espressioni che per Darwin erano un enigma, perché lo stimolo evoluzionista e la conservazione della specie non spiegano la necessità di raccontare o di ascoltare poesia e musica, in quanto l’umanità non ne avrebbe avuto bisogno per sopravvivere. Se la scienza localizza nel cervello i luoghi dell’autocoscienza, ma non spiega i meccanismi, la letteratura, specie quella contemporanea, è un’odissea alla ricerca di cosa sia, dove sia e chi sia l’Io. Lei l’ha mostrato in molti saggi.
Magris - Sì, gran parte della letteratura è questa ricerca, dal Nessuno dell’Ulisse omerico a Sant’Agostino, dai personaggi di Hoffmann, che si chiedono chi sia a parlare, a pensare, a desiderare in loro, al sosia di Dostoevskij, da Jago («Io non sono quel che sono») a Rimbaud («Io è un altro»), dall’«oltre-uomo» di Nietzsche, fluttuante e plurale, a Musil, per il quale l’Io è «un’anarchia di atomi», a tanti altri esempi. Anche in letteratura l’Io indaga se stesso...
Benini - A molte persone, le neuroscienze, che riportano la vita spirituale ai meccanismi elettrochimici del cervello, procurano turbamento e scandalo, sembrano negare la dignità e la libertà umana, la responsabilità morale, tutto ciò che chiamiamo spirito, togliendo alla vita quel senso dato dalla metafisica e dalla fede. È antica tradizione condannare tutto ciò che è o sembra essere solo materiale...
Magris - Libri come il suo aiutano a evitare ogni stolida guerra tra culture o meglio tra fondamentalismi contrapposti, tra due arroganti pretese di possedere la verità e di avere risolto il mistero del vivere. C’è un intollerante dogmatismo clericale e c’è un intollerante materialismo volgare. Il suo libro aiuta a capire che fede (o filosofia, poesia, ciò che chiamiamo spirito) e conoscenza della materia di cui siamo fatti non sono in contraddizione; sono due approcci diversi alla realtà e, talvolta, due linguaggi diversi per avvicinarsi alla stessa cosa. Quando i miei figli avevano cominciato, da ragazzi, a uscire la sera e talvolta tardavano a rincasare, la mia ansiosità mi procurava ad esempio mal di testa, che spariva quando li sentivo rientrare. Ciò che, legittimamente, con linguaggio spirituale, chiamiamo amor paterno non è separabile da quella realtà materiale, fisiologica in cui esso si traduce concretamente, così come una descrizione fisiologica dei meccanismi elettrochimici impliciti nel bacio fra Paolo e Francesca non nega né rende meno necessario, per capire la vita, quel verso «la bocca mi baciò tutto tremante». Chesterton, scrittore cattolico, ha detto che le grandi religioni si distinguono dalle volgari superstizioni per il loro genuino materialismo: il Verbo che si fa carne, sinapsi fra neuroni. Oggi il pericolo culturale più grande è l’ondata di fumosa irrazionalità, culto pacchiano del paranormale, paccottiglia misticheggiante di chi si vanta di non credere in Dio e crede che un gobbo porti fortuna. C’è pure un rozzo fondamentalismo ateo, che non ha nulla a che vedere col grandissimo materialismo di Lucrezio e di Leopardi. Credo che Darwin possa aiutare - come dice un altro libro molto bello, Darwin e l’anima di Orlando Franceschelli (Donzelli) - a reinserire l’uomo, non più insetto estraneo e rifiutato come nella Metamorfosi di Kafka, nel respiro del mondo e del suo divenire, in solidale unità con la vita e le sue creature. Si può dire che la materia del cervello, senza la quale e senza la cui evoluzione non ci sarebbe questa concreta umanità, sia «buona», come lascia intendere Panizon?
Benini - Ci vuole molta disciplina mentale per affrontare la visione naturalista dell’uomo. Il nostro cervello (ossia noi) crea paradisi e inferni, osservava un grande biologo; l’umanità non si è trattenuta, e non si trattiene, da crudeltà efferate. Nel cervello non c’è solo «buona» materia. Il sistema limbico responsabile degli istinti e dell’affettività, poco mutato dai rettili in poi (il «cervello del serpente», il «protocervello»), sembra più efficace, con la sua aggressività, dei centri della razionalità, di sviluppo più recente. La storia umana è anche una ripetizione di orrori, la favola raccontata da un idiota secondo Macbeth; come osserva angosciato George Steiner, una grande cultura non ha impedito l’infamia del nazismo. Viziato dai successi della sua inventiva, l’uomo si illude di poter raggiungere qualunque obiettivo. L’autocoscienza tende a sopravvalutarsi. Non si dovrebbe dimenticare che il cervello, ha scritto il filosofo David Precht, «è una bilancia che non riesce a conoscere il proprio peso».
«Corriere della Sera» del 14 giugno 2010
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