di Massimo Gramellini
La vuvuzela sudafricana che ci assorda le orecchie è monocorde, ossessiva e fastidiosa (a qualche lettore evoca Capezzone). Dunque è già diventata il gadget più ricercato dell'estate. Ci vorrebbe il Piero Angela di Quark per entrare con un sondino nella testa del consumatore europeo. Oltre alla depressione montante per il calo di liquidità, forse vi troverebbe il segreto del rimbecillimento compulsivo che porta le persone a desiderare un oggetto per il quale provano un moto di ripulsa. Poiché tutti ne parlano, sia pure per dirne male, «fa status» esibire la mefitica trombetta con gli amici. E sul web fioriscono i corsi che insegnano a suonarla: attività sconosciuta agli stessi africani, che non hanno mai pensato di praticare un paio di buchi sulla vuvuzela per assaporare la differenza fra la melodia di un flauto e il ronzio di un'ape.
Massimo rispetto per i costumi locali (gli aborigeni australiani soffiano da migliaia di anni dentro un tubo, il didgeridoo, e ne sono piuttosto orgogliosi), meno per i soffiatori d'importazione, che fra un mese si stuferanno della trombetta e la dimenticheranno in qualche cassetto, come fanno i bambini capricciosi con i giocattoli di Natale. La famosa fine del mondo del 21-12-2012 sarà annunciata dal suono incessante di milioni di vuvuzelas che perforeranno i timpani di tutti i furbi del pianeta, mentre i pochi saggi avranno Mozart o gli U2 nelle cuffie e non si accorgeranno di niente.
Massimo rispetto per i costumi locali (gli aborigeni australiani soffiano da migliaia di anni dentro un tubo, il didgeridoo, e ne sono piuttosto orgogliosi), meno per i soffiatori d'importazione, che fra un mese si stuferanno della trombetta e la dimenticheranno in qualche cassetto, come fanno i bambini capricciosi con i giocattoli di Natale. La famosa fine del mondo del 21-12-2012 sarà annunciata dal suono incessante di milioni di vuvuzelas che perforeranno i timpani di tutti i furbi del pianeta, mentre i pochi saggi avranno Mozart o gli U2 nelle cuffie e non si accorgeranno di niente.
«La Stampa» del 16 giugno 2010
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