di Christian Rocca
Contrordine compagni. La retorica dei green jobs, della nuova consapevolezza verde e dei prodotti biologici che colmano gli scaffali dei supermercati fa male, molto male, all'ambiente e a tutti noi. Non lo dice un iper-liberista, un negazionista del global warming, un cementificatore selvaggio, un petroliere senza scrupoli, un finanziere di Wall Street. La tesi è di Heather Rogers, giovane e bella giornalista vecchio stile, progressista radicale e militante dell'ambientalismo americano che con il suo nuovo libro, Green went wrong, sta diventando la Naomi Klein degli anni Dieci, la nuova eroina globale dell'antiglobalizzazione.
L'autrice sostiene che le grandi corporation stanno fermando la rivoluzione ambientalista che negli anni scorsi ha cominciato a prendere piede. Come? Sfruttando slogan verdi e creando il bisogno di nuovi prodotti biologici di cui nessuno avvertiva la mancanza prima della loro introduzione nel mercato. Le perfide multinazionali, scrive Rogers, hanno trovato il modo di fermare l'onda rivoluzionaria. Ci fanno credere che possiamo salvare il pianeta comprando lampadine fluorescenti a basso consumo, guidando automobili ibride, mangiando cibo biologico. In realtà, spiega Rogers, vogliono soltanto continuare a macinare soldi a spese del pianeta. I consumatori abboccano, scrive Rogers, e non si rendono conto che aiutano le grandi aziende che poi ringraziano sradicando le foreste e privando gli orangotango dei loro habitat naturali. Anche la chimera dei biofuel è una bufala, scrive, perché gli studi dimostrano che per creare i combustibili alternativi serve più energia di quanta riescono a svilupparne.
La mistica dell'economia verde, insomma, farebbe danni di ogni tipo alla società. Il più grave e duraturo è aver creato un "ambientalismo pigro", una militanza da poltrona, una rinuncia al sacrificio. La gente è portata a pensare che acquistando i prodotti giusti, quelli ecologicamente corretti e opportunamente etichettati, riuscirà a salvare la Terra e a far entrare il sistema capitalistico nell'era ambientalista. L'ottimismo della green economy, ha scritto il New York Times recensendo Green went wrong, sarebbe un modo subdolo di addormentare le masse, di far passare l'idea che l'ecosistema si possa salvare senza conflitti, in modo divertente, utile, semplice.
Il libro sfata alcuni miti politicamente corretti della nostra società, ma dimostra in modo plastico le conseguenze paradossali cui può giungere il fondamentalismo più esasperato e radicale. Il surriscaldamento terrestre, scrive Rogers, non si può fermare sostituendo i prodotti sporchi con quelli verdi. Non servono neanche i programmi governativi a favore dei "green jobs" o delle energie alternative, quelli su cui punta molto Barack Obama, perché né gli uni né gli altri cambiano il paradigma consumistico della nostra vita quotidiana.
Per salvare il pianeta, secondo Rogers, dovremmo ripudiare il libero mercato, il responsabile principale, diretto, unico, del degrado della nostra aria, del nostro suolo, della nostra acqua. La ricetta della Rogers è anti-sviluppo, no global, vetero socialista. Non risparmia nessuno, né la retorica di Obama, né gli sforzi delle imprese. Non salva nemmeno quella parte di star system che propaganda un ambientalismo mite. I Coldplay, per esempio. Alla Rogers non va giù che il gruppo inglese s'impegni a far piantare alberi ovunque vada a suonare, per compensare l'inquinamento prodotto dal jet che lo trasporta.
Il risultato del maestoso attacco di Heather Rogers al movimento ambientalista tradizionale è un esempio classico di eterogenesi dei fini. Le conseguenze del saggio non sono quelle volute, ma opposte. Rogers è così radicalmente alla sinistra del mondo verde da essersi involontariamente sistemata a destra. Chi non ha a cuore l'ambiente e il pianeta non sarebbe riuscito a elaborare un manifesto ideologico più efficace di Green went wrong.
La mistica dell'economia verde, insomma, farebbe danni di ogni tipo alla società. Il più grave e duraturo è aver creato un "ambientalismo pigro", una militanza da poltrona, una rinuncia al sacrificio. La gente è portata a pensare che acquistando i prodotti giusti, quelli ecologicamente corretti e opportunamente etichettati, riuscirà a salvare la Terra e a far entrare il sistema capitalistico nell'era ambientalista. L'ottimismo della green economy, ha scritto il New York Times recensendo Green went wrong, sarebbe un modo subdolo di addormentare le masse, di far passare l'idea che l'ecosistema si possa salvare senza conflitti, in modo divertente, utile, semplice.
Il libro sfata alcuni miti politicamente corretti della nostra società, ma dimostra in modo plastico le conseguenze paradossali cui può giungere il fondamentalismo più esasperato e radicale. Il surriscaldamento terrestre, scrive Rogers, non si può fermare sostituendo i prodotti sporchi con quelli verdi. Non servono neanche i programmi governativi a favore dei "green jobs" o delle energie alternative, quelli su cui punta molto Barack Obama, perché né gli uni né gli altri cambiano il paradigma consumistico della nostra vita quotidiana.
Per salvare il pianeta, secondo Rogers, dovremmo ripudiare il libero mercato, il responsabile principale, diretto, unico, del degrado della nostra aria, del nostro suolo, della nostra acqua. La ricetta della Rogers è anti-sviluppo, no global, vetero socialista. Non risparmia nessuno, né la retorica di Obama, né gli sforzi delle imprese. Non salva nemmeno quella parte di star system che propaganda un ambientalismo mite. I Coldplay, per esempio. Alla Rogers non va giù che il gruppo inglese s'impegni a far piantare alberi ovunque vada a suonare, per compensare l'inquinamento prodotto dal jet che lo trasporta.
Il risultato del maestoso attacco di Heather Rogers al movimento ambientalista tradizionale è un esempio classico di eterogenesi dei fini. Le conseguenze del saggio non sono quelle volute, ma opposte. Rogers è così radicalmente alla sinistra del mondo verde da essersi involontariamente sistemata a destra. Chi non ha a cuore l'ambiente e il pianeta non sarebbe riuscito a elaborare un manifesto ideologico più efficace di Green went wrong.
«Il Sole 24 Ore» del 22 giugno 2010
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