In La prigione di neve, la scrittrice americana Jan Elizabeth Watson racconta la tremenda vicenda di due bambini rinchiusi per anni
di Stefania Vitulli
Cattiva madre, ultimo tabù. Cattiva madre deve rimanere un ossimoro: né la nostra ragione né il nostro cuore possono accettare che una madre non ami i propri figli o che, come narrano troppo spesso i titoli quotidiani, compia su di essi vero male, fino a ucciderli. Eppure accade. L’orrore può colpire i piccoli proprio attraverso la figura da cui attendono soltanto calore: «Le cinsi la vita con le braccia e le sprofondai la testa fra le costole, ma lei mi staccò con dolcezza. Avevo paura che arrivasse il giorno in cui Mamma non ci avrebbe chiuso dentro come si deve. Ma per oggi non dovevamo temere: eravamo al sicuro, fra le mura che ci proteggevano dall’imperscrutabile mondo di fuori». Così la piccola Asta di sette anni pensa della sua mamma Loretta, che da quando lei ne ha ricordo la tiene segregata in casa insieme al fratello Orion, che di anni ne ha nove e qualcosa ricorda del mondo di fuori: «sabbia sotto i piedi, un aeroplano in alto e, almeno a sentir lui, qualcuno che lo rincorreva sul molo». Poi un giorno papà sparisce: i bambini non potranno più uscire, prigionieri del disagio mentale di Loretta. La prigione di neve (Fazi, pagg. 334, euro 18,50) è un romanzo d’esordio che stordisce: veniamo calati in una maternità traumatizzante, in cui alla fine i bambini scopriranno da soli il mondo reale. Il libro è firmato dall’americana Jan Elizabeth Watson, editor e docente di scrittura creativa.
Mamma qui è l’onnipotente affabulatrice che rinchiude i suoi figli fino a isolarli. La Watson conferma di aver studiato a lungo per costruire questo carattere, che tanto ricorda alcuni casi di cronaca contemporanei: «Mi sono specializzata in psicologia e sono madre, anche se mia figlia è nata dopo il romanzo. Ma il mio sguardo sulla maternità viene dall’essere cresciuta con una madre che aveva di me estrema cura, alla quale sono rimasta molto vicina».
Qual è il rischio peggiore nella relazione madre-figlio?
«Trascurare i figli. È quanto di più terribile eppure oggi è quel che accade più spesso. In America, le condizioni economiche sono tali che molte madri devono lavorare a tempo pieno per sostenere la famiglia e non hanno margini per stare con i figli. Il che ha ormai compromesso influenza e presenza delle madri. Vedo così tante donne sfinite e irritabili, la cui pazienza per i figli è stata del tutto esaurita dai ritmi professionali».
Loretta crede, nel suo delirio, di «proteggere» i figli dal mondo segregandoli. Pensa che questo sia un desiderio inconscio comune a molte madri?
«Senza dubbio. La mia stessa madre si sarebbe potuta definire “iperprotettiva”. Non ho nemmeno imparato ad andare in bicicletta, perché temeva potessi farmi male. Molti genitori si comportano così con i figli, è un istinto naturale che in Loretta ho portato a conseguenze patologiche e insane».
Pensa che ora la maternità sia un valore a rischio?
«Il punto di vista della società sulla maternità è in costante mutamento. Ma osservo personalmente un numero sempre maggiore di donne che decidono scientemente di non avere figli. Temono di non avere abbastanza amore da dare».
Qual è il ruolo della società in questo?
«La pressione. Le donne sono messe sotto pressione perché sentano di “potercela fare” a dare carriera e figli la stessa attenzione. Alcune partoriscono per soddisfare l’imperativo biologico che prevede un figlio come pezzo mancante del puzzle che le rende “persone complete”. Come se un figlio fosse uno dei tanti accessori dello stile di vita che hanno creato per se stesse invece che, eventualmente, il fulcro primario di un’esistenza».
In questo senso Loretta è un personaggio "contemporaneo"?
«Non so se queste minacce siano peculiari di un’epoca. Ma certo nelle donne la lotta interiore tra maternità e autonomia sta raggiungendo il livello di guardia. Oggi vogliono essere indipendenti, slegate da ogni fardello. E la maternità e il senso di responsabilità che comporta sono legami travolgenti, in cui sentono di perdere se stesse. Per Loretta essere madre è semplicemente troppo».
Madri travolte dalla maternità: è per questo che arrivano a commettere crimini contro i propri figli?
«Le madri che si sentono intrappolate, hanno “a disposizione” i figli. E ne abusano. I bambini sono la parte più vulnerabile della società, il bersaglio più facile per sfogare frustrazioni, rabbia e persino comportamenti criminali. E credono alle loro mamme, senza rendersi conto di venire maltrattati. La prigione di neve è proprio la storia di due bambini che adorano la loro madre e continuano a crederle anche quando si accorgono che ha tradito la loro purezza e la loro fede».
Eppure finito il romanzo non riusciamo a odiare Loretta.
«Non volevo creare un personaggio-capro espiatorio, da vilipendere e additare come cattivo esempio. Loretta non è una buona madre, ma la verità è che fa tutto quel che può. E fallisce, a causa della malattia mentale. E dei suoi limiti. È il senso di inadeguatezza che può cogliere tutte le madri portato all’estremo».
Si potrebbe fare qualcosa per prevenire questa «declino della maternità» in Occidente?
«Difficile rispondere. In generale credo che dovremmo stare tutti più attenti ai segnali che i bambini ci lanciano, anche se non sono i nostri figli. È così vergognoso essere classificate come cattive madri che spesso le donne, anche se si rendono conto di non farcela con i figli, non si azzardano a chiedere aiuto».
Mamma qui è l’onnipotente affabulatrice che rinchiude i suoi figli fino a isolarli. La Watson conferma di aver studiato a lungo per costruire questo carattere, che tanto ricorda alcuni casi di cronaca contemporanei: «Mi sono specializzata in psicologia e sono madre, anche se mia figlia è nata dopo il romanzo. Ma il mio sguardo sulla maternità viene dall’essere cresciuta con una madre che aveva di me estrema cura, alla quale sono rimasta molto vicina».
Qual è il rischio peggiore nella relazione madre-figlio?
«Trascurare i figli. È quanto di più terribile eppure oggi è quel che accade più spesso. In America, le condizioni economiche sono tali che molte madri devono lavorare a tempo pieno per sostenere la famiglia e non hanno margini per stare con i figli. Il che ha ormai compromesso influenza e presenza delle madri. Vedo così tante donne sfinite e irritabili, la cui pazienza per i figli è stata del tutto esaurita dai ritmi professionali».
Loretta crede, nel suo delirio, di «proteggere» i figli dal mondo segregandoli. Pensa che questo sia un desiderio inconscio comune a molte madri?
«Senza dubbio. La mia stessa madre si sarebbe potuta definire “iperprotettiva”. Non ho nemmeno imparato ad andare in bicicletta, perché temeva potessi farmi male. Molti genitori si comportano così con i figli, è un istinto naturale che in Loretta ho portato a conseguenze patologiche e insane».
Pensa che ora la maternità sia un valore a rischio?
«Il punto di vista della società sulla maternità è in costante mutamento. Ma osservo personalmente un numero sempre maggiore di donne che decidono scientemente di non avere figli. Temono di non avere abbastanza amore da dare».
Qual è il ruolo della società in questo?
«La pressione. Le donne sono messe sotto pressione perché sentano di “potercela fare” a dare carriera e figli la stessa attenzione. Alcune partoriscono per soddisfare l’imperativo biologico che prevede un figlio come pezzo mancante del puzzle che le rende “persone complete”. Come se un figlio fosse uno dei tanti accessori dello stile di vita che hanno creato per se stesse invece che, eventualmente, il fulcro primario di un’esistenza».
In questo senso Loretta è un personaggio "contemporaneo"?
«Non so se queste minacce siano peculiari di un’epoca. Ma certo nelle donne la lotta interiore tra maternità e autonomia sta raggiungendo il livello di guardia. Oggi vogliono essere indipendenti, slegate da ogni fardello. E la maternità e il senso di responsabilità che comporta sono legami travolgenti, in cui sentono di perdere se stesse. Per Loretta essere madre è semplicemente troppo».
Madri travolte dalla maternità: è per questo che arrivano a commettere crimini contro i propri figli?
«Le madri che si sentono intrappolate, hanno “a disposizione” i figli. E ne abusano. I bambini sono la parte più vulnerabile della società, il bersaglio più facile per sfogare frustrazioni, rabbia e persino comportamenti criminali. E credono alle loro mamme, senza rendersi conto di venire maltrattati. La prigione di neve è proprio la storia di due bambini che adorano la loro madre e continuano a crederle anche quando si accorgono che ha tradito la loro purezza e la loro fede».
Eppure finito il romanzo non riusciamo a odiare Loretta.
«Non volevo creare un personaggio-capro espiatorio, da vilipendere e additare come cattivo esempio. Loretta non è una buona madre, ma la verità è che fa tutto quel che può. E fallisce, a causa della malattia mentale. E dei suoi limiti. È il senso di inadeguatezza che può cogliere tutte le madri portato all’estremo».
Si potrebbe fare qualcosa per prevenire questa «declino della maternità» in Occidente?
«Difficile rispondere. In generale credo che dovremmo stare tutti più attenti ai segnali che i bambini ci lanciano, anche se non sono i nostri figli. È così vergognoso essere classificate come cattive madri che spesso le donne, anche se si rendono conto di non farcela con i figli, non si azzardano a chiedere aiuto».
«Il Giornale» del 28 giugno 2010
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