di Renzo Foa
Renzo Foa, scomparso un anno fa, ha vissuto per quarant’anni tutte le passioni, le illusioni e le delusioni di un intellettuale comunista. Ha seguito gli sviluppi storici del comunismo sia nella versione terzo-mondista - Vietnam, Cambogia, Cuba - sia nella versione ortodossa - Unione Sovietica ed Europa orientale. Inviato in Vietnam nei primi anni Settanta come corrispondente dell’Unità, ha visto successivamente lo scontro politico e militare tra la Cina e lo stesso Vietnam, poi il genocidio compiuto da Pol Pot in Cambogia, lo sfacelo culturale e sociale del maoismo, la crisi polacca del 1980, il dissenso dei Paesi dell’Est, l’esito autoritario della rivoluzione cubana, la caduta del Muro di Berlino e, ovunque, il fallimento dell’economia collettivista. Ha assistito amaramente allo sgretolarsi dei miti rivoluzionari degli anni ’60 e ’70, dimostratisi per quelli che erano: mostruosi universi concentrazionari. Ha visto, cioè, l’inesorabile scacco di ogni possibilità di riforma del comunismo e l’inequivocabile emergere della sua vera natura dispotica e totalitaria (Renzo Foa, Ho visto morire il comunismo, introduzione di Lucetta Scaraffia, Marsilio, pagg. 144, euro 15).
Sequenze, tutte, registrate da «vicino» perché Foa, figlio di Vittorio, uno dei padri della sinistra italiana, è stato dal 1982 al 1986 capo redattore del quotidiano comunista, poi vicedirettore, infine, nel biennio cruciale 1990-1992, direttore. Come redattore, vicedirettore e direttore dell’Unità, avuto modo di avvicinare e intervistare esponenti importanti del mondo e del dissenso comunista quali, ad esempio, Mikhail Gorbaciov e Alexander Dubcek; contemporaneamente ha cercato di favorire un rinnovamento della sinistra italiana e internazionale. Di fronte alla catastrofe del comunismo - che, del resto, aveva già dato in precedenza inequivocabili prove di sé ha dovuto alla fine arrendersi, constatando l’impossibilità di conciliare il comunismo con la democrazia.
Uscito da questo universo totalitario, negli anni Novanta ha lavorato al Giorno, al Diario, a Liberal e, dal 2001, anche al Giornale come editorialista. Il suo percorso rappresenta un notevole esempio di grande onestà politica e intellettuale, che testimonia lo sforzo di uscire da un mondo a cui era stato legato per quarant’anni. Un caso raro di autentico anticonformismo, considerando il clima che ancora oggi aleggia in buona parte della cultura italiana. Un tragitto che lo ha portato all’abbandono della fede e alla lucida denuncia del suo mito nefasto, pagando il prezzo della solitudine a fronte delle accuse di tradimento da parte di chi, con il tipico modo curialesco, ha continuato nella pervicace volontà di negare l’evidenza. Insomma quasi la ripetizione di un paradigma già sperimentato nel secondo dopoguerra con i casi di due celebri «traditori» e «rinnegati» del comunismo come Viktor Andrijovich Kravchenko e Arthur Koestler ai quali, non a caso, Foa dedica pagine significative.
Il distacco maggiore consumatosi tra Foa e il PCI si palesa soprattutto nella diversa analisi degli anni Ottanta, dalla quale emerge l’incomprensione da parte dei comunisti della presidenza Reagan. Si constata qui, nell’acuto saggio dedicato al presidente americano, il grave ritardo politico e culturale del comunismo italiano e internazionale che, mentre si perde nell’effimero progetto dell’eurocomunismo, non riesce né vuole comprendere la svolta epocale rappresentata dalla vittoria irreversibile del capitalismo sul comunismo e l’inevitabile sconfitta di quest’ultimo. Quegli anni Ottanta, cioè, che segnano non soltanto l’avvento al potere di Reagan, ma anche l’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyla e ciò che questa elezione ha significato per la storia della Chiesa e del mondo. Emerge, proprio nelle pagine dedicate da Foa al decennio che porterà alla caduta del Muro, una caratteristica tipica dei comunisti italiani e, più in generale, della sinistra: l’incomprensione del mutamento storico che si manifesta sotto la forma contraddittoria, ma altamente rivelatrice di tutta una mentalità, della contemporanea sottovalutazione e demonizzazione dell’avversario (si pensi, ad esempio, all’odio contro Craxi).
Sequenze, tutte, registrate da «vicino» perché Foa, figlio di Vittorio, uno dei padri della sinistra italiana, è stato dal 1982 al 1986 capo redattore del quotidiano comunista, poi vicedirettore, infine, nel biennio cruciale 1990-1992, direttore. Come redattore, vicedirettore e direttore dell’Unità, avuto modo di avvicinare e intervistare esponenti importanti del mondo e del dissenso comunista quali, ad esempio, Mikhail Gorbaciov e Alexander Dubcek; contemporaneamente ha cercato di favorire un rinnovamento della sinistra italiana e internazionale. Di fronte alla catastrofe del comunismo - che, del resto, aveva già dato in precedenza inequivocabili prove di sé ha dovuto alla fine arrendersi, constatando l’impossibilità di conciliare il comunismo con la democrazia.
Uscito da questo universo totalitario, negli anni Novanta ha lavorato al Giorno, al Diario, a Liberal e, dal 2001, anche al Giornale come editorialista. Il suo percorso rappresenta un notevole esempio di grande onestà politica e intellettuale, che testimonia lo sforzo di uscire da un mondo a cui era stato legato per quarant’anni. Un caso raro di autentico anticonformismo, considerando il clima che ancora oggi aleggia in buona parte della cultura italiana. Un tragitto che lo ha portato all’abbandono della fede e alla lucida denuncia del suo mito nefasto, pagando il prezzo della solitudine a fronte delle accuse di tradimento da parte di chi, con il tipico modo curialesco, ha continuato nella pervicace volontà di negare l’evidenza. Insomma quasi la ripetizione di un paradigma già sperimentato nel secondo dopoguerra con i casi di due celebri «traditori» e «rinnegati» del comunismo come Viktor Andrijovich Kravchenko e Arthur Koestler ai quali, non a caso, Foa dedica pagine significative.
Il distacco maggiore consumatosi tra Foa e il PCI si palesa soprattutto nella diversa analisi degli anni Ottanta, dalla quale emerge l’incomprensione da parte dei comunisti della presidenza Reagan. Si constata qui, nell’acuto saggio dedicato al presidente americano, il grave ritardo politico e culturale del comunismo italiano e internazionale che, mentre si perde nell’effimero progetto dell’eurocomunismo, non riesce né vuole comprendere la svolta epocale rappresentata dalla vittoria irreversibile del capitalismo sul comunismo e l’inevitabile sconfitta di quest’ultimo. Quegli anni Ottanta, cioè, che segnano non soltanto l’avvento al potere di Reagan, ma anche l’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyla e ciò che questa elezione ha significato per la storia della Chiesa e del mondo. Emerge, proprio nelle pagine dedicate da Foa al decennio che porterà alla caduta del Muro, una caratteristica tipica dei comunisti italiani e, più in generale, della sinistra: l’incomprensione del mutamento storico che si manifesta sotto la forma contraddittoria, ma altamente rivelatrice di tutta una mentalità, della contemporanea sottovalutazione e demonizzazione dell’avversario (si pensi, ad esempio, all’odio contro Craxi).
«Il Giornale» del 20 giugno 2010
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